La teoria marxiana, soprattutto alla luce delle nuove interpretazioni derivanti dal contributo della MEGA² (Fineschi, 2021a1), fornisce gli strumenti concettuali e propone delle tendenze storiche del modo di produzione capitalistico (Fineschi, 2021b2).
Marx scrive nella seconda metà dell’Ottocento, quando il modo di produzione capitalistico era, per certi versi, ancora in fase embrionale. Nonostante ciò, il Moro individua tendenze e processi che risultano ancora più attuali nella realtà odierna rispetto a quando egli le teorizzò.
Le tendenze del capitalismo
Alcune delle tendenze che Marx individua sono:
- la tendenza allo sviluppo delle forze produttive (o, potremmo dire, della produttività): si ha attraverso lo sviluppo della forma cooperativa del lavoro, attraverso il progresso scientifico-tecnico, attraverso la forza produttiva espressa dal lavoro combinato, eccetera. Tale impressionante sviluppo della capacità produttiva permette un miglioramento delle condizioni di vita in generale;
- la tendenza all’integrazione dell’economia mondiale: lo sviluppo dell’accumulazione capitalistica tende ad a superare i confini nazionali, sia come mercato mondiale sia come organizzazione del lavoro che si estende e si dirama su scala internazionale;
- la tendenza alla centralizzazione dei capitali: la concentrazione del controllo del capitale (quindi del controllo della produzione, della distribuzione e del credito) in “sempre meno mani”;
- la tendenza alla creazione di una sovrappopolazione relativa: il numero degli occupati nei processi di produzione, distribuzione e consumo, proprio in vista della dinamica della produttività, tende a espellere dai processi lavorativi (o a non integrare) un crescente numero di lavoratori, generando una massa di non occupati o di sotto-occupati. In altre parole, le capacità produttive che lo stesso modo di produzione capitalistico sviluppa come mai nella storia umana, ad un determinato stadio di sviluppo risultano in eccesso rispetto alle esigenze di valorizzazione del capitale.
Un confronto con il testo di Marx
A tal proposito, possiamo rintracciare un passaggio importante nella parte finale del “Capitale”, che è utile riprodurre per intero di seguito:
“Non appena questo processo di trasformazione (n.d.r.: trasformazione del modo di produzione precedente in quello capitalistico) ha decomposto a sufficienza l’antica società in profondità ed in estensione, non appena i lavoratori sono trasformati in proletari e le loro condizioni di lavoro in capitale, non appena il modo di produzione capitalistico si regge sui propri piedi, l’ulteriore socializzazione del lavoro e l’ulteriore trasformazione della terra e degli altri mezzi di produzione in mezzi di produzione sfruttati socialmente, cioè in mezzi di produzione in comune, assumono una nuova forma e quindi assume una nuova forma anche l’ulteriore espropriazione dei proprietari privati.
“Ora quello che deve essere espropriato non è più il lavoratore indipendente che lavora per sé (n.d.r.: condizione resasi necessaria per il passaggio al modo di produzione capitalistico nell’analisi storica fornita da Marx), ma il capitalista che sfrutta molti lavoratori.
“Questa espropriazione si compie attraverso il giuoco delle leggi immanenti della stessa produzione capitalistica, attraverso la centralizzazione dei capitali. Ogni capitalista ne ammazza molti altri.
“Di pari passo con questa centralizzazione, ossia con l’espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi, si sviluppano su scala crescente la forma cooperativa del processo di lavoro, la consapevole applicazione tecnica della scienza, lo sfruttamento della terra conformemente ad un piano, la trasformazione dei mezzi di lavoro in mezzi di lavoro utilizzabili solo in comune, l’economia di tutti i mezzi di produzione attraverso il loro uso come mezzi di produzione del lavoro sociale combinato, mentre tutti i popoli vengono via via aggrovigliati nella rete del mercato mondiale e così si sviluppa in misura sempre crescente il carattere internazionale del regime capitalistico.
“Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la massa della miseria, della pressione, dell’asservimento, della degenerazione, dello sfruttamento […]”
Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Sezione 7, Capitolo 24, “Tendenza storica dell’accumulazione capitalistica” (edizione di Fineschi3).
Secondo Marx la produzione si spinge oltre la soddisfazione dei bisogni, in quanto nel modo di produzione capitalistico il fine della produzione sociale è la valorizzazione del capitale. In particolare, la dinamica del plusvalore relativo spinge verso lo sviluppo tecnico e l’applicazione della scienza nella produzione, generando la tendenza all’aumento della forza produttiva del lavoro.
L’accumulazione del capitale trova tuttavia dei limiti quantitativi che sono posti dallo stesso modo di produzione capitalistico. Infatti, da una parte esso permette lo sviluppo delle forze produttive e la sovrappopolazione relativa che ne è conseguenza; dall’altro le merci, in quanto “prodotti creati per lo scambio”, devono appunto trovare la loro validità sociale nello scambio, nella domanda pagante, generandosi ciclicamente crisi di sovrapproduzione.
La funzione progressiva del capitalismo globale
Se prescindiamo dai problemi di realizzazione delle merci nel mercato, il carattere internazionale del modo di produzione capitalistico è la naturale conseguenza di un modo di produzione che tendendo verso una sempre maggiore scala di produzione, tende a diventare mondiale e a piegare la riproduzione della natura alle condizioni di riproduzione del capitale. La tendenza all’integrazione dell’economia mondiale ha una funzione progressiva: essa crea l’umanità come fatto concreto in quanto la connessione dell’economia mondiale fa sì che la produzione necessiti una catena di relazioni globali, di un lavoro complessivo globale.
Però, dato che il modo di produzione capitalistico ha come fine la valorizzazione del capitale, il grado di estensione globale del rapporto di produzione che gli corrisponde e le necessarie libertà formali sono limitate dalla complessa dinamica dell’accumulazione. Ad esempio, l’integrazione dell’economia mondiale costringe le istituzioni nazionali a creare le condizioni per il mercato capitalistico, quindi ad adeguare le condizioni economiche nazionali alle esigenze di valorizzazione del capitale la cui riproduzione necessita di una scala internazionale.
Poiché la dinamica reale del capitale si attua attraverso la concorrenza, in un’area di libero scambio di merci e capitali si sviluppa pienamente la legge di tendenza alla centralizzazione dei capitali, con la concorrenza che si estende su scala mondiale. Tale tendenza trova recenti conferme empiriche (Brancaccio et al., 20184), che evidenziano anche come essa possa rafforzarsi in un contesto di crisi (Brancaccio et al., 20195; Fondo Monetario Internazionale, 20216).
Le tesi di Emiliano Brancaccio: la tendenza alla centralizzazione
Nella sua attualizzazione del contributo marxiano, Brancaccio sottolinea che l’apertura internazionale dei movimenti di capitale e la centralità del mercato finanziario (e della speculazione) sono stati fattori propulsivi dell’attuale processo di centralizzazione capitalistica. In generale, egli sostiene che la concorrenza tra capitali relativamente più forti (o più solvibili) operanti su una scala internazionale e capitali più deboli (meno solvibili) prevalentemente operanti su scala nazionale, porta ad una centralizzazione del capitale nelle mani dei capitali più forti che assorbono o distruggono i capitali più deboli.
Questa dinamica può creare delle tensioni che spingono al protezionismo: i capitali più forti, accumulando riserve internazionali, possono avviare un processo di centralizzazione dei capitali attraverso l’acquisto dei capitali esteri più deboli nel mercato azionario, questo spinge ad una chiusura ai movimenti di capitale oltre che al commercio estero. Tale conflitto interno alla classe capitalista mondiale può esacerbare i conflitti al punto da generare conflitti bellici (Brancaccio, Lucarelli, Giammetti, 20227).
Stando a questa interpretazione, il libero scambio, ad un determinato stadio di sviluppo, genera il protezionismo e la guerra: le stesse leggi di tendenza che mostrano un carattere progressivo portano alla negazione di questo stesso risultato. Un processo che apparentemente porta alla pace genera il suo opposto, ossia la violenza nella sua forma più estrema.
Il carattere intrinsecamente violento del modo di produzione capitalistico viene messo in luce da Marx: nonostante lo scambio generi l’apparenza di una società basata su individui liberi ed uguali, individui che liberamente scambiano merce contro denaro, la divisione in classi e la valorizzazione del capitale come fine ultimo della produzione è possibile soltanto attraverso l’estorsione di pluslavoro. La violenza è quindi intrinseca alla forma di movimento specifica del modo di produzione capitalistico, viene alimentata dalle crisi cicliche che lo contraddistinguono e trova una forma di organizzazione “superiore” nel colonialismo e nell’imperialismo.
Il contributo di Roberto Fineschi: la crisi del concetto di persona
In alcuni recenti contributi Roberto Fineschi, importante studioso di Marx, ha teorizzando come la violenza possa scaturire dalle stesse dinamiche che potremmo definire sovrastrutturali, conseguenza delle dinamiche materiali. Difatti, secondo Fineschi sono proprio le leggi di tendenza che portano ad una crisi del concetto di persona (Fineschi, 20228).
Lo sviluppo delle forze produttive crea una sovrappopolazione relativa che non è più assorbibile. Ne deriva che un’ampia parte della popolazione non ha reddito, perché non esistono le condizioni di impiego, non può esercitare quindi la propria personalità individuale.
Dalla crisi della personalità deriva una dinamica contraddittoria. Affinché si possa esercitare la propria personalità, si affermano pratiche violente volte a ridimensionare il concetto di personalità stesso, riconoscendola solo a determinati soggetti (pensiamo al razzismo, ad esempio). Tali pratiche sociali si istituzionalizzano, divengono ideologia e creano una prospettiva interclassista e corporativa tra soggetti che si riconoscono reciprocamente e che, allo stesso tempo, non riconoscono altri esseri umani come persone loro pari, riconoscendo loro uno status di sub-umanità. In questo modo viene a formarsi una base materiale per l’istituzionalizzazione della violenza.
Approccio critico
Diventa chiaro, perciò, che la crisi della democrazia e delle libertà individuali tanto discusse sono conseguenza del modo di produzione capitalistico e dello sviluppo delle sue tendenze. Lo stesso concetto di persona si sviluppa storicamente sulla base dei processi materiali, anziché essere espressione di una essenza umana in astratto.
“L’essenza umana non è un’astrazione immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà, essa è l’insieme dei rapporti sociali.”
Karl Marx, VI Tesi su Feuerbach.
Riconoscersi come parte della stessa classe sociale, anziché come semplici individui o persone, è dunque il primo passo necessario per il cambiamento ed è approccio critico (Fineschi, 2021c9). È la pre-condizione per lo sviluppo di un’alternativa politica reale, che possa portare ad un cambiamento sostanziale, pensabile e realizzabile soltanto in opposizione alla logica della valorizzazione del capitale come fine ultimo di ogni attività umana.
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