Il compito di ogni influencer piddino-liberale oggi è creare dal nulla occasioni e situazioni che rievochino, anche solo vagamente, il pericolo fascista per avere una scusa con cui giustificare la propria battaglia di “civiltà”. A cosa servirebbero, del resto, gli antifascisti – con tutti i vari attestati e bollini di qualità – se non ci fossero fascisti da combattere? Inventarsi ogni giorno un gerarca alla porta di casa, un’imminente marcia su Roma o altre improbabili calamità è l’imperativo ineludibile per poter legittimare la propria identità e dimostrare che il governo è democraticamente, moralmente e scientificamente legittimo solo se al potere c’è qualcuno di gradito. Così, ad esempio, le immagini del Presidente Meloni applaudita da folle di bambini vengono commentate con l’eloquente dicitura “Istituto Luce presenta” da una nota opinionista “de sinistra” che – stranamente – non ha aperto bocca quando fra pargoli (con museruola ben assestata) faceva capolino (peraltro senza mascherina) il sorridente volto del banchiere ex Goldman Sachs – ma antifascista – altrimenti detto “nonno delle istituzioni”. E non è che un esempio. Il noto magazine on line Valigia Blu, per dirne un’altra, all’indomani delle scorse politiche inaugurava un editoriale con la seguente constatazione: “La campagna elettorale ci ha consegnato, tra i vari temi, quello del rapporto tra Fratelli d’Italia e il fascismo”. Senza dubbio un tema appena consegnato, come un pacco Amazon: talmente nuovo da essere stato il ritornello di ogni dibattito in cui fosse presente la Meloni da quando quel Partito è stato fondato (qualcuno ricorderà i ciclici siparietti della Annunziata). Ma la grottesca galleria di trovate contro i fantasmi delle camicie nere è lunga: dalle esternazioni boldriniane sui monumenti d’epoca fascista, ai fedeli dell’ANPI che chiedono la rimozione dalle vetrine di volumi privi di imprimatur. Il tutto mentre proprio la Boldrini accoglieva nel nostro Parlamento Andrij Parubij, noto neonazista. Uno di quelli che avrebbero poi ricevuto l’indulgenza plenaria da Gramellini perché alla bisogna anche i nazisti hanno un cuore (e sia detto con animo limpidamente antifascista). Così fino alle cronache più recenti. Fino, ad esempio, all’ultima passerella fiorentina, messa in piedi per condannare un’aggressione per motivi politici da parte di un gruppo giovanile di destra (almeno, così pare), mentre tutte le sirene progressiste suonavano allarmi per la partecipazione della Meloni alla commemorazione di Sergio Ramelli, storica vittima di omicidio politico (ma perpetrato da militanti di sinistra).
Tutto un penoso groviglio di contraddizioni, insomma, su cui potremmo ridere se non nascondesse un aspetto assai più pericoloso. Cioè il fatto che l’antifascismo viene usato oggi (e non lo abbiamo scritto per caso: viene usato, intenzionalmente, strumentalmente) come giustificazione per imporre quello che chiamiamo “pensiero unico”.
Il gioco, semplificando al massimo, è grosso modo questo. L’odierna economia spettacolare, per quanto riguarda le cosiddette “democrazie occidentali”, prevede che i confini fra lecito e illecito, dicibile e non dicibile vengano drasticamente riconfigurati. Il modo migliore per farlo – specialmente, poi, in un sistema debole come quello italiano – è mantenere la parola-chiave che definisce il politicamente illegittimo: fascismo. Risemantizzandolo a seconda delle necessità. I nuovi significati attribuiti a questa parola da una propaganda monocratica segnano il confine oltre il quale nessun competitore politico può andare, se non in maniera puramente formale o per brevi incursioni a fini propagandistici. Sulla stessa base si risemantizza dunque l’antifascismo, che definirà la base sistemica, il palinsesto comune, un nuovo – non scritto – terreno “costituzionale”. Non ciò che fa di un individuo un simpatizzante o un militante di questa o quella formazione politica, ma ciò che fa di un individuo un cittadino a buon diritto (e per i più entusiasti un essere umano degno di questo nome). Il compito di tradurre la nuova linea di confine in programma politico è affidato ovviamente ai pronipoti dell’antifascismo storico (riciclatisi come democratici, progressisti ecc., che in Italia vantano anche i maggiori agganciamenti con le centrali del potere economico, culturale, accademico, burocratico, e con quanto resta del mondo associativo e sindacale). I quali, insomma, per quanto minoritari, restano arbitri e custodi del nuovo ordine.
Il cosiddetto centro-destra, d’altronde, è assolutamente dentro questo gioco e lucra a propria volta, con gli stessi mezzi. Resta volentieri dentro le false dicotomie gentilmente offerte dalla propaganda “avversa”, e si rifà così il trucco coprendo l’assoluta omogeneità agli avversari nelle scelte di fondo: dal rapporto con la UE alla distopia sanitaria, dal piano politico-economico prefigurato con il PNRR alla politica estera, abbiamo visto in questi anni un continuo valzer di distinguo seguiti da puntuali ritorni all’ordine. Passando anche per le questioni che pur vengono figurate come dirimenti, dove al momento resistono più che altro le parole d’ordine: si pensi agli strali contro l’immigrazione incontrollata, sotto i quali i flussi continuano come e più di prima, o al famigerato gender (per dirne una: mentre, in pieno governo gialloverde, Salvini annunciava fieramente il ripristino delle parole “mamma” e “papà” sulla modulistica corrente, la sua collega di governo Giulia Grillo difendeva il via libera di AIFA alla triptorelina). Del resto, è proprio sui nodi etici maggiormente identitari che oggi gioca la fronda degli amministratori (leghisti inclusi) per rompere il conservatorismo apparentemente monolitico del governo. E tutto ciò è normale. Rientra nel gioco. Nel canovaccio, anzi. Forse qualcuno si illude ancora che la destra italiana abbia rinunciato a combattere l’egemonia culturale della sinistra per incapacità o cecità, ma sarebbe ora di prendere atto che non si tratta di miopia strategica: certi equilibri dialettico-spettacolari non devono essere alterati.
I custodi del nuovo ordine, dunque, agiscono usando la parola magica “fascismo” a vari livelli. Innanzitutto rievocano di continuo l’idea di “destra” come sinonimo tout court di “fascismo”, enfatizzando un legame storico che oggi può esistere nella stessa misura in cui ormai permane quello tra sinistra e movimento operaio (cioè praticamente zero). Così facendo, mobilitano i propri adepti contro un pericolo fascista del tutto stereotipato, inattuale. Fatto di saluti romani, camicie nere, croci celtiche e altra varia iconografia. Anche indossando essi stessi, alla bisogna, abiti di scena grotteschi pur di mostrarsi nel solco di una tradizione ancora evocativa (vedi l’icona multiuso di Berlinguer o Gualtieri che strimpella “Bella ciao”, per non dire delle liturgie finto-soviettiste della Cgil). Una strategia ormai consunta, si dirà, elettoralmente fallimentare. Vero, ma non è questo il punto. Intanto, perché i risultati elettorali ormai contano il giusto. Poi perché il continuo gridare al mussolinianesimo dell’avversario ha comunque una precisa funzione: assegnare a una parte politica l’esclusiva sulla patente antifascista, ma anche ergersi al ruolo di regolatore per la controparte, la destra, la quale intende quale sia il confine invalicabile e quale il possibile margine di sforamento. Come abbiamo detto, i pronipoti degeneri dell’antifascismo storico, per quanto minoritari, restano comunque arbitri.
Negli anni Novanta nessuno riusciva a strappare professioni di fede nel liberismo a un Occhetto o a un D’Alema come ci riusciva Berlusconi. Qualcuno ricorda gli allarmi berlusconiani contro i criptocomunisti del PDS che avrebbero instaurato la repubblica dei soviet o cose del genere? Ecco, “costretti” a giocare in difesa, i burocrati del fu PCI potevano – col pretesto di togliersi di dosso colpe storiche che l’avversario enfatizzava opportunamente – avanzare, gradino dopo gradino, nel nuovo orizzonte ideologico e politico a cui sapevano di essere destinati (e nel quale volevano ad ogni costo entrare): lo stesso del loro avversario. Altrettanto accade grosso modo oggi, ma a parti invertite. Dove “parti” è da intendere proprio nell’accezione teatrale, registica, del termine. Poi, ovviamente, resta la retorica della contrapposizione, ma appunto è solo retorica. O al più tattica, di conservazione di fasce di consenso finché è possibile. Ma ciò che importa, in una competizione, più dei commenti dei cronisti o dei processi del lunedì, sono le regole e i criteri: ogni atleta, a prescindere dalla maglia che indossa, compete in quanto è stato ammesso a competere, sulla base di prerequisiti validi per tutti. Ed è quello il momento determinante: lì nasce l’affannosa corsa a dimostrare di avere le carte in regola per gareggiare. Ieri bisognava dimostrare di non essere più “dirigisti”; oggi di non essere anti-europeisti, anti-scientisti o filo-putiniani (sia pure con sfumature più o meno morbide o rigide, utilissime ad allestire dibattiti-farsa). Ieri, cioè, la gara era a chi diceva meglio di non essere mai stato comunista. Oggi, invece, rievocare certe forme del PCI – in maniera fumettistica, certo, e adatta ai rotocalchi – non è più un peccato, perché siamo entrati nella fase in cui vince chi è più “antifascista”.
Dunque, la continua tensione sul pericolo fascista permette alla destra di giocare in difesa (pena, ritrovarsi dietro la lavagna con la camicia nera addosso), il che mantiene l’equilibrio, tutto intero, dentro il nuovo ordine antifascista. Ma, come dicevamo, non finisce qui. Se infatti è relativamente semplice omologare il panorama istituzionale, non così è per aree della società sempre meno marginali e sempre meno irregimentabili dal potere mediatico. Ecco dunque i nuovi fascisti. Nuovi si fa per dire, perché per renderli tali bisogna mettere loro il fez in testa (visto che il fascismo è sempre e solo quello). Non è difficile. Esclusi già dalla rappresentanza politica – che tutta intera sta dentro i paletti sostanziali del nuovo antifascismo – saranno bersagli assai facili. Sarà sufficiente, ad esempio, che qualche gruppuscolo neofascista (di quelli col busto di Mussolini nel cervello) si infili in una loro manifestazione: i media non perderanno l’occasione di generalizzare. Salvo poi domandarsi perché, se il fascismo è un crimine e non un’opinione, certi gruppi non vengano sciolti come puntualmente i nostri si ripromettono di fare. Già, perché? E basta essere contrari all’immigrazione incontrollata per venire inquadrati come suprematisti e razzisti (no, non come i colonialisti inglesi o francesi, ma come gli antisemiti delle leggi razziali: se no la parola magica perde in efficacia) o balbettare qualche sillaba contro le derive transumaniste del “progresso” globale per vedersi appioppare la casacca del Dio-Patria-Famiglia, triade tradizionalmente nostalgica. E via dicendo. L’opera di fascistizzazione del dissenso si presta ad ogni mezzo, anche il più grottesco, fino a poter inglobare nell’icona del giovane Balilla (e sempre in quella) tutto ciò che stride con i catechismi ufficiali o con le loro soluzioni grafiche tardo-sessantottesche.
A pochi, forse, verrà in mente che questo nuovo antifascismo è in realtà ciò che più assomiglia al fascismo nella nostra storia recente. Perché i suoi promotori indossano oggi camicie troppo colorate per poter essere quella robaccia lì. Eppure sì, oggi esiste un pericolo fascista, in un’accezione più ampia, più seria e tremendamente più attuale. Eccome se esiste. Esiste un tentativo di ridefinire surrettiziamente il livello delle libertà e dei diritti in funzione dell’obbedienza e dell’allineamento, trasformando libertà sancite dalla Costituzione in premi da guadagnarsi per merito. Esiste una costante mortificazione delle istanze rappresentative, tra le altre cose causata da leggi elettorali ossessivamente finalizzate a garantire la governabilità, con il risultato che alle amministrative vota ormai poco più del 40% degli aventi diritto e da anni il partito dell’astensione è di gran lunga maggioritario. Esistono i manganelli, agitati tranquillamente contro la “barbarie”, come rispettosamente ci si è riferiti all’epoca alle manifestazioni dei portuali di Trieste o ad altre forme di dissenso contro il Green Pass in altre città. Esiste la censura, applaudita, anzi acclamata a gran voce da chi tuttora ha l’indecenza di definirsi liberale. Esistono trasmissioni TV in cui gli interlocutori, rigidamente scelti all’interno di confini politico-ideologici prestabiliti, chiedono al ministro degli interni di ispirarsi a Bava Beccaris per ripulire le piazze dagli straccioni no-vax (ma solo da loro, perché per altre manifestazioni, anche violente, organizzate da gruppi di altro orientamento politico si invoca il sacrosanto diritto al dissenso e tornano improvvisamente in auge i diritti umani). Esistono giornalisti, influencer improvvisamente convertiti in virologi, che chiedono di espellere dall’ordine i medici che non si vaccinano o sconsigliano la vaccinazione. Esiste una stampa mainstream che ha ingloriosamente abdicato al suo dovere morale di indagare il potere e si è trasformata in mero strumento di amplificazione e legittimazione di input calati dall’alto (proprio in queste ore dai grandi media americani stanno partendo i primi contrattacchi contro i giornalisti che hanno divulgato i TwitterFiles; la character assassination e lo shitstorm per chi devia dalla rotta sono la forma moderna della spedizione punitiva e della fustigazione in pubblica piazza). Esiste chi sui social chiama “sorci” i suoi avversari e lo fa con la sfrontatezza di chi non solo si sente depositario della verità, ma sa anche che non dovrà mai rispondere di ciò che dice. Perché sentirsi dalla parte del Bene e del Giusto porta anche a questo. Esiste chi, scrivendo da testate sostenute dai finanziamenti pubblici all’editoria, invoca un missile nucleare sul Cremlino, forse immaginando che i danni collaterali si sentirebbero solo a est del Volga e non anche a ovest (e, in ogni caso, per dieci minuti di visibilità si può scrivere questo e altro). Esiste chi diffonde idee come l’abolizione del suffragio universale o chiede la modifica dei sistemi di voto per escludere in partenza determinate categorie di cittadini. Esiste chi chiede la patente di cittadinanza (altrimenti detta tessera annonaria), chi indecorosamente fa sfoggio di simboli come la falce e il martello per poi manifestare disprezzo sociale verso i ceti “subalterni” (cit.) nel momento in cui non votano come si aspetterebbe da loro. Esistono ordini professionali che si reincaricano di punire i dissidenti, infermieri che si vantano sui social di poter infliggere terapie dolorose a pazienti non vaccinati. Esistono attori, cantanti, influencer che sui social si augurano la morte altrui o chiedono apertamente la censura dai media delle pochissime voci dissenzienti. Perché il virtue signaling, la dichiarazione di appartenenza, la bandierina ucraina o europea nel profilo sono oggi in primo luogo una carta da giocare nel proprio curriculum.
Ma tutto questo, almeno secondo alcuni, non è fascismo. Perché oggi sei fascista o antifascista non per ciò che realmente pensi, scrivi o fai, ma in base a come ti schieri rispetto al pensiero unico dominante. Sei fascista se stai con i cattivi, sei antifascista se stai con i buoni. Chi ha il potere ha, tra le altre cose, anche la prerogativa di definire ciò che è bene e ciò che è male, incluso il potere di dare un significato alle parole. In tutto questo, tragicamente non esiste più una vera opposizione, se non quella che oggi faticosamente cerca di aggregarsi all’ombra dei grandi partiti, uscire dall’anonimato e darsi una rappresentanza, pur essendo già maggioranza reale nel paese. Ma questa, ahimè, è una pagina ancora da scrivere.
Chiunque oggi sia ancora in grado di pensare, indipendentemente da quale sia il suo orientamento e il suo background politico, può solo concludere che effettivamente un pericolo fascista ai giorni nostri esiste. Solo che questo pericolo viene proprio dalla parte che si professa antifascista. La quale, attraverso questo depistaggio psichico, ha trovato la giustificazione perfetta per imporre la propria attitudine alla prevaricazione, incluso l’uso dell’autorità giudiziaria, dell’ordine pubblico e della forza bruta, all’imposizione coercitiva dell’ideologia liberalglobalista e delle agende sovranazionali contro la volontà popolare, alla negazione della dialettica e delle contraddizioni del sistema esistente.
Sono antifascista, quindi posso fare ciò che voglio.
FONTE:https://giubberosse.news/2023/04/07/antifascisti-di-cartone-e-fascismo-vero/
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