Lorenzin: “Sulla Sanità strada di non ritorno verso il collasso”
di AVANTI! (Livio Valvano)
Dall’editoriale della scorsa settimana ho deciso di intraprendere un viaggio nel pianeta sanità per verificarne il suo stato di “salute”, condizione influente sull’esercizio del nostro diritto alla salute.
Durante la drammatica esperienza della pandemia dovuta al covid-19, ci siamo convinti che il sistema sanitario italiano è più fragile di quanto ci si immaginava. Nel dibattito pubblico abbiamo registrato prese di posizione e impegni a tutti i livelli, da parte dell’intero arco costituzionale, tanto da farci sperare in una sorta di “new deal” della sanità italiana post-pandemia.
Con l’avvio della nuova legislatura, l’approvazione del DEF, con cui si programma addirittura la riduzione della spesa in rapporto al PIL a partire dall’anno 2024, insieme agli orientamenti del nuovo governo sulla materia dell’autonomia differenziata, si respira un’aria diversa.
Per capirci qualcosa di più, ho pensato di farvi una sorpresa gradita, coinvolgendo una personalità di spessore che ha piena contezza della materia: Beatrice Lorenzin, Senatrice della Repubblica per il Partito Democratico, ha svolto l’incarico di Ministro della Salute dal 2013 al 2018.
Con Lei ho avuto la possibilità di avere questa piacevole “chiacchierata-intervista”
Senatrice, Lei ha svolto l’incarico di Ministro della Salute nel periodo della spending review e dei rigidi vincoli del Patto di Stabilità, che speravamo alle nostre spalle dopo la pandemia.
Ma dopo il DEF approvato dal Governo qualche giorno fa, secondo Lei in che direzione stiamo andando?
◦ Dico subito che sono sconfortata. Dopo quello che è successo con la pandemia, pensavo ci fosse una consapevolezza piena, di tutte le forze politiche, del rischio di implosione del servizio sanitario nazionale universalistico, nato dalla riforma del 1978. IL DEF, invece, traccia una strada di non ritorno, verso il collasso del sistema, visto che la spesa programmata in rapporto al PIL, dal 6,9% del 2022, scenderà al 6,2% del 2026. Si consideri che per l’OCSE un sistema sanitario è considerato sostenibile se la soglia della spesa pubblica non scende al di sotto del 6,6%. Non siamo scesi sotto questa soglia neanche durante il periodo “horribilis” dei tagli alla spesa pubblica dell’agenda Monti dovuti come tutti sanno a condizioni drammatiche per il bilancio pubblico molto diverse dalla situazione attuale.
E’ evidente che il Def esprime la scelta politica di questo Governo che non persegue il potenziamento della sanità pubblica in coerenza con la crescita del PIL. L’incremento nominale di 4 miliardi previsto per il solo 2023 riuscirà a malapena ad assorbire l’incremento degli aumenti retributivi programmati lo scorso anno e a finanziare, solo in minima parte, l’incremento della spesa dovuta all’impennata dell’inflazione.
◦ Una manovra del tutto insufficiente per affrontare le note criticità del sistema sanitario italiano che rischia di condannare le regioni ad una nuova stagione di commissariamenti e piani di rientro, per la sanità del sud poi è un colpo letale.
Ricerca scientifica e nuove tecnologie modificano di continuo i trattamenti sanitari e puntano sulla iper-specializzazione dei professionisti e quindi dei luoghi di cura.
Ha ancora un senso avere 20 sistemi sanitari regionali affidatari dell’onere di garantire uguaglianza e uniformità delle prestazioni?
I limiti del regionalismo sanitario sono emersi in questi anni, innanzitutto per il conflitto permanente tra Stato e Regioni per l’attuazione delle norme decise a livello centrale che troppo spesso sono disattese o realizzate a macchia di leopardo a livello regionale; penso al piano nazionale di prevenzione,al piano nazionale cronicità o ai piani diagnostici terapeutici realizzati in modo parziale o non omogeneo.
L’ultimo, per esempio, è il mancato utilizzo del fondo nazionale per lo smaltimento delle liste di attesa, istituito dal Ministro Speranza, che non è stato utilizzato completamente da alcune regioni.
Anzichè parlare di autonomia differenziata spinta ,come la Calderoli ,che perde di vista la strategia nazionale e le sfide in campo,dovremmo cercare di affrontare i nodi irrisolti del federalismo regionale, tra cui la mancata realizzazione piena dei livelli essenziali di assistenza, così come la riduzione dei SSR a meri centri di costo che costringono le regioni ad esigenze di puro bilancio senza tener conto di una programmazione pluriennale che miria qualità e sostenibilità dei servizi erogati. In soldoni la coperta sempre più stretta e regole immaginate per tagliare la spesa hanno finito per costruire un girone infernale da cui sembra non si possa uscire.
Non credo si possa tornare indietro sul regionalismo, ma si può andare avanti, rafforzando il ruolo centrale del Ministero della Salute, soprattutto in materia di prevenzione e sul controllo delle strutture di erogazione sul territorio, attraverso agenzie sotto il controllo del Ministero per adeguare i modelli di programmazione ed erogazione sul territorio.
Il rafforzamento del Ministero è un tema complesso in grado di incidere sull’intero sistema delle Regioni, che aiuterebbe a superare il “ragionamento a silos”, tra Stato e Regioni. Diversamente, proseguendo con l’attuale divisione delle competenze tra Regioni e Stato, se un Ministro della Salute non è particolarmente forte la politica sanitaria la farà il Ministero dell’Economia e delle Finanze che ha per suo DNA l’obiettivo di ridurre la spesa, non di curare i pazienti.
Durante il suo lungo incarico di Ministro della Salute, ha mai avuto il desiderio di fare a meno del decentramento regionale della gestione dei servizi?
Se si, in quali circostanze particolari?
Ogni volta che nascere in una città invece che in un’altra fa la differenza in termini di assistenza sanitaria!quando ho visto genitori perdere il lavoro per assistere i figli fuori regione.. e la lista è lunga .
Ma ci sono stati molti episodi che denunciano la necessità di rivedere la distribuzione delle responsabilità per evitare che alla fine le disfunzioni ricadano sui cittadini.
Tengo anche a ricordare che da Ministro della Salute, con i Presidenti dell’epoca, riuscimmo a fare un ottimo lavoro per il patto per la salute grazie al quale facemmo politiche importanti e invertimmo per legge la logica perversa dei tagli lineari, consentendo ad esempio che i risparmi restassero nel SSN.
Con la consapevolezza di chi sa che non si può tornare indietro, bisogna rivedere il modello di decentramento delle funzioni, con pragmatismo, senza la benda sugli occhi delle ideologie, in esecuzione dell’art.32 della Costituzione.
L’Italia è un Paese di piccoli Comuni dove aumenta la dispersione demografica, a vantaggio delle grandi città metropolitane.
Sotto la logica della razionalizzazione della spesa, da anni le popolazioni delle aree interne, dopo aver vissuto la chiusura di numerosi piccoli ospedali e punti nascita, si sentono penalizzate in termini di presenza e accessibilità dei servizi.
Cosa bisognerebbe fare, secondo Lei?
Dobbiamo parlarci con onestà: alcuni servizi sanitari possono essere erogati solamente nelle strutture dove si garantiscono determinati numeri, altrimenti quei servizi non sono sicuri. Per esempio se in un punto nascita si fanno 50 parti all’anno l’epidemiologia ci dimostra che in quel punto nascita il rischio di un incidente fatale è altissimo.
Molti servizi territoriali sono stati abbandonati per “definanziamento”, sotto la scure dei tagli senza sostituirli con altro.Il PNRR ridisegna una diversa sanità territoriale con le “case di comunità e gli ospedali di comunità”, con circa 10 miliardi dedicati dei 20.
Nelle case di comunità devono ruotare tutti i servizi per la salute e di assistenza socio-sanitaria, mentre gli ospedali di comunità dovrebbero riattivare alcuni servizi intermedi.
Su questo, però, abbiamo registrato in questi giorni le parole del Ministro Fitto e della maggioranza nella commissione affari sociali che sostengono la volontà di tornare indietro sulle case di comunità.
Dicono di non voler più fare le case di comunità perchè sostengono di non avere il personale da metterci dentro.
La criticità del personale ci sarebbe in ogni caso; o dentro le case di comunità o sul territorio, i professionisti bisogna prenderli comunque per farlo funzionare.
E’ sempre più difficile reclutare nuovo personale (medici, infermieri etc..) per la qualità del lavoro, le retribuzioni. Il nostro sistema sta perdendo attrattività e con il definanziamento del fondo sanitario programmato dal DEF e l’idea di abbandonare la strategia delle Case di Comunità finanziate dal PNRR, andrà peggio.
Bisogna attuare il disegno del PNRR perchè con le case di comunità si realizzano hub attorno al quale far convergere nuove attrezzature, strumenti moderni, l’aiuto dell’intelligenza artificiale e delle nuove tecnologie che se messe in rete innoveranno in modo profondo il modo di fare programmazione e prevenzione sui territori e miglioreranno la qualità del servizio e quindi l’attrattività del lavoro per i professionisti.
Le lunghe liste di attesa nei servizi sanitari pubblici materializzano una barriera sempre più alta per l’accesso alle cure: la disciplina delle prestazioni extra del personale medico delle strutture pubbliche sono una delle cause?
E’ un tema complesso, presente anche nelle altre nazioni e per onestà difficile da scardinare, anche perchè bisogna trovare un punto di equilibrio per non far scappare i professionisti.
C’è anche un evidente problema di capacità delle Regioni di organizzare lo smaltimento delle liste di attesa, come dimostra il mancato utilizzo in questi ultimi due anni di 160 milioni su 500 del fondo per le liste di attesa.
Ci sono azioni sperimentali che possono essere adottate come buone pratiche, come quella dell’Emilia Romagna. Quel modello prevede che il medico può accedere all’intramoenia (a pagamento per il cittadino-utente), solo quando è stata smaltita la lista di attesa, nel senso che il tempo di attesa rientra entro tempi fisiologici.
Destra e sinistra: secondo lei ci sono differenze nell’attività di governo del sistema sanitario o è il sistema stesso che induce le scelte?
Oggi, come dovrebbe funzionare un servizio sanitario moderno gli addetti ai lavori lo sanno, ma può esserci un diverso approccio su alcune scelte.
La destra sembra spingere verso il privato e la sanità complementare, con il rischio di perdere l’universalismo del nostro servizio sanitario.
Negli ultimi anni abbiamo notato, inoltre, che la destra tende a sposare tesi antiscientifiche, rendendosi responsabile di una cultura che non si basa sulle evidenze scientifiche (da stamina ai vaccini).
E poi è evidente che, a differenza della sinistra, per la destra la sanità non è una priorità.
Lo dimostra la riduzione del finanziamento programmato per i prossimi anni con il DEF approvato dal Governo; spero di essere smentita nei fatti per il bene di tutti.
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