In arrivo anche in Italia la “fiera del bambino”. Un’analisi sulle condizioni di dominio sui corpi femminili
di La Fionda (Arianna Cavignoli)
Il 20 e 21 maggio 2023 si terrà presso lo Spazio Antologico di Via Mecenate 84, a Milano, la tanto attesa “Fiera del Bebè” Wish for a baby. Si tratta della fiera della maternità in provetta e delle tecniche di procreazione assistita (TRA) che già ha avuto luogo in tante capitali europee, da Amsterdam a Parigi, passando per Berlino, Colonia e Monaco. L’evento milanese era stato già programmato per lo scorso anno con il nome Un sogno chiamato bebè, ma a causa delle pressioni ricevute dalle reti femministe e probabilmente da alcune figure politiche di spicco, il sindaco all’epoca e tutt’ora in carica Giuseppe Sala aveva negato l’affitto degli spazi.
In Italia, infatti, secondo il comma 6 dell’articolo 12 della legge n. 40 del 2004, non solo sono vietati la commercializzazione di embrioni, gameti e la maternità surrogata, ma anche la sua propaganda, pena multe estremamente salate. Persino in Francia, nonostante viga la stessa legge di divieto della propaganda sulla maternità surrogata, nel 2021 è stata organizzata con il nome di Desirò d’enfant, offrendo (illegalmente) consulenze sul turismo procreativo.
Quest’anno il collettivo Resistenze al Nano Mondo e FINAARGIT (Rete femminista internazionale contro ogni riproduzione artificiale, ideologia gender e transumanesimo), RadFem ITALIA e Rete per l’inviolabilità del corpo femminile organizzeranno un presidio di protesta davanti alla fiera meneghina la mattina del 20 maggio per esprimere il loro dissenso.
Rispetto all’anno passato il sito di Wish for a baby è più approssimativo, ma tra gli sponsor della fiera compare la community Babble, che tra le pagine collegate al sito offre consulenze dettagliate riguardo al cosiddetto “utero in affitto” – anche se ad essere noleggiato è l’intero corpo della donna, di cui sono sfruttate le capacità gestazionali. Ma prima di ragionare su quali siano le violazioni frutto della medicalizzazione e dell’espropriazione del sistema riproduttivo femminile, facciamo un po’ di chiarezza sul mondo delle tecniche di riproduzione artificiale.
Con la classica inseminazione artificiale, il seme maschile (spermatozoo), già trattato in laboratorio, viene inserito all’interno dell’utero della donna allo scopo di favorire l’incontro con l’ovulo. L’inseminazione può essere di tipo “omologo”, quando le cellule (ovulo o spermatozoo) appartengono a entrambi gli individui della coppia, o “eterologo”, se una delle due cellule appartiene a una persona esterna alla coppia, che viene chiamata “donatore”.
La FIVET (Fecondazione in vitro con trasferimento embrionale) consiste nel trasferimento (in vitro) dello sperma centrifugato e dunque più concentrato dove incontra ovuli maturi. Questi sono prelevati dalla donna attraverso l’iperstimolazione ovarica controllata, che può produrre fino a 40 ovuli (normalmente la donna ne produce uno oppure, ma molto raramente, due, al mese). Una volta ottenuti gli embrioni, scartando quelli meno “sani”, da due a sei vengono trasferiti tramite un catetere nell’utero della donna, dove ci sarà una possibilità su cinque che attecchirà/attecchirannoper poi trasformarsi in feto/i e poi neonato/i.
L’ICSI è invece l’inserzione del Dna dallo spermatozoo direttamente nel nucleo dell’ovulo, una tecnica maggiormente rischiosa che si intraprende quando viene diagnosticata una “debolezza” degli spermatozoi.
È lampante come gli eventuali effetti collaterali di questi trattamenti non riguardino minimamente l’uomo, che deve solamente evacuare gli spermatozoi, mentre pongono in una posizione di svantaggio proprio la donna.
Uno dei maggiori rischi legati ai trattamenti medici per stimolare l’ovulazione è l’OHSS (Sindrome di iperstimolazione ovarica), caratterizzata da un rigonfiamento dell’addome e del petto dovuti a un accumulo di liquidi, eccessiva contrazione del sangue e, in rari casi, formazione di coaguli sanguigni, insufficienza renale e morte. Secondo l’American Society for Reproductive Medicine, tale sindrome si presenta in forma grave nel 2% dei casi. Ci sono poi rischi nel prelievo degli ovuli: la laparoscopia è un esame diagnostico che viene eseguito sotto anestesia, con tutti i rischi connessi, mentre la successiva rimozione degli ovuli tramite aspirazione con ago comporta un lieve rischio di sanguinamento, infezione, danni all’intestino, alla vescica o a vasi sanguigni.
La letteratura scientifica, inoltre, riscontra maggiori problemi legati alle gravidanze intraprese con le tecniche di riproduzione artificiale (TRA). Maggiori sono i rischi di parti prematuri e gemellari e maggiore è il tasso di mortalità prenatale. Come riporta Daniela Danna nel suo Maternità. Surrogata? (Asterios, Trieste, 2017) “i problemi di salute dei bambini nati con le tecniche di TRA sono noti e documentati nella ricerca: ‘Incidenze più elevate di anomalie congenite e di anomalie sia autosomiche sia dei cromosomi sessuali sono state riscontrate sia nella FIVET sia nell’ICSI a paragone dei neonati concepiti spontaneamente’”.
Le TRA introducono un cambiamento profondo per e nei corpi delle donne. L’inseminazione in vitro, infatti, permette il dislocamento fuori dal corpo della fecondazione: l’utero smette di essere indispensabile per il processo procreativo, la riproduzione diviene scomponibile e i gameti femminili – insieme agli embrioni – manipolabili in laboratorio. Le tecnologie di riproduzione artificiale scindono, inoltre, il processo del concepimento dalla gravidanza, mentre l’ovulo di una donna diviene interscambiabile con quello di un’altra, come fosse una merce, e non materiale biologico.
E ancora, come spiega Giovanna Camertoni in Meccanici i miei occhi nati in laboratorio. Dall’utero in affitto alla manipolazione genetica (Ortica, Aprilia, 2019), queste tecnologie permettono che un ovocita fecondato in vitro venga inserito nell’utero di una donna che non lo ha prodotto, “creando i presupposti per una riproduzione genetica solo paterna”.
Il legame tra le pratiche di riproduzione artificiale, gli interessi dei grandi capitali e lo sfruttamento della classe lavoratrice femminile si fa ancora più evidente se pensiamo ad alcune società come il colosso Amazon che hanno dei veri e propri programmi di “fertilità”. Offrono, infatti, coperture assicurative di gran parte dei costi per la FIV (Fecondazione in vitro) o la crioconservazione di ovociti giovani, e dunque più efficaci nella procreazione, in modo da posticipare l’idea di intraprendere una gravidanza e continuare a essere produttive. Quella che può sembrare una manovra solidale nei confronti delle lavoratrici, è in realtà la gestione delle loro capacità riproduttive, nonchè un’esca per attirare le donne che disperatamente vogliono essere madri ma non potrebbero permettersi la FIV. Non a caso Starbucks ha anche annunciato di poter coprire ai dipendenti le eventuali spese di trasporto per dirigersi ad abortire, costi nettamente più bassi di un’eventuale maternità retribuita o di un’altra lavoratrice da assumere al suo posto durante l’assenza gestazionale.
In un’inchiesta del The Cut emerge come una volta intraprese la FIV, in Amazon e altre grandi società, sia davvero complesso ottenere permessi retribuiti o meno per recarsi agli appuntamenti medici, e quanto poi la mole di lavoro sia pericolosamente incompatibile con gli effetti collaterali dei trattamenti ormonali. Per quanto riguarda la crioconservazione, invece, se la lavoratrice non avrà possibilità o voglia di interrompere il lavoro, potrà tranquillamente scongelare i propri ovociti e delegare a una “madre surrogata” la gestazione.
Per introdurre queste pratiche frutto dei nuovi sviluppi tecno-scientifici, si fa leva su problemi di salute reali, come il rischio di trasmissione di malattie congenite, oppure false, dato che ad esempio l’infertilità – recentemente l’arco di tempo per definirla è stato ridotto da due anni a sei mesi – non è una malattia e tantomeno con le TRA non viene “curata”.
Ma veniamo al cavallo di Troia delle TRA: la maternità surrogata, detta anche utero in affitto. Gli attori di questa pratica sono una madre biologica, indispensabile e pagata (mai abbastanza) per procreare, uno o più genitori “intenzionali”- come se bastasse l’intenzione per creare una vita -, i medici, protagonisti indiscussi, e le agenzie che fanno profitto come connettori offrendo alle coppie interessate tutti i servizi legali e medici di cui hanno bisogno per realizzare il loro sogno chiamato “bambino”. La fecondazione può avvenire in vivo, dunque usufruendo degli ovuli della madre biologica, oppure in maniera extracorporea con la FIVET, garantendo agli acquirenti della merce-bambino la piena corrispondenza genetica. Si ricorre alla FET, invece, (trasferimento di embrioni congelati) quando i cicli delle due donne non sono sincronizzati, oppure se la donna che sarà la madre biologica è soggetta ad asportazione e successivo impianto di ovuli, dato che gli ormoni che deve assumere per l’asportazione degli ovuli non favoriscono la gravidanza successiva. Queste variabili dipendono dalle legislature dei paesi in cui la maternità surrogata è legale. Alcuni stati, come la Grecia e la California, garantiscono la possibilità di accedere a tali servizi anche agli stranieri, alimentando un mercato di vera e propria compravendita di bambini ai danni delle madri biologiche. La volontà è proprio quella di eliminare il concetto di vera madre, o comunque nasconderla dietro ad aggettivi quali surrogata, ovvero delegata (alla gestazione e al parto).
Ma la gravidanza non è una tecnica: è una facoltà fisiologica del corpo femminile! E la Gpa [Gravidanza per altri, ovvero maternità surrogata] è una forma di relazione con una donna che si impegna a cedere la bambina.
Daniela Danna in Fare un figlio per altri è giusto. Falso!
Ad eccezione dell’Olanda, in ogni paese in cui è legale la maternità surrogata, non vi è possibilità per le madri biologiche che cambiano idea durante la gestazione (nove intensi mesi!) di tenere il neonato, proprio perché trattandosi di un istituto giuridico occorre rispettare le norme del contratto di surrogazione, che ovviamente deve tutelare gli acquirenti (i genitori “intenzionali”). Qui si inserisce, infatti, l’importanza della relazione, piuttosto che la condivisione di geni. Il legame inscindibile tra madre biologica e neonato, andrebbe salvaguardato proprio negli interessi di quest’ultimo, e non piegato al desiderio di compratori terzi. Nel periodo successivo al parto, il neonato che appena viene al mondo utilizza l’olfatto per trovare il capezzolo della madre e attaccarsi, ha bisogno della sua fonte di sostentamento primaria. La maternità è un complesso unitario di idee, pensieri ed emozioni insieme a processi chimico-biologici che coinvolgono la donna e il nascituro, a prescindere da chi ha donato i geni per la fecondazione. Bisogna inoltre aggiungere che, al di fuori della trascrizione del Dna, altri fattori dell’ambiente-utero influenzano la genetica del feto, secondo quella disciplina chiamata “Epigenetica”. Il tentativo di sostituire il processo di combinazione casuale dei geni che in natura avviene durante la fecondazione con il suo pilotaggio in laboratorio suona come un progetto transumanista.
Sapere che non dobbiamo a nessuno il colore dei nostri occhi, il suono della nostra voce, e i nostri tratti fisiologici garantisce la nostra libertà individuale (in certe condizioni ovviamente). Diventiamo individui a partire da ciò che è dato. […] «Dare vita» a un bambino prodotto al contrario di «dare la vita» è un abuso di potere. Se il mio progettista sceglie i miei caratteri genetici secondo i propri desideri, determina in parte la mia persona fisica e la mia personalità morale e diventa per me la figura del destino.
Pièces et Main d’Oeuvre, PMA. Procreazione mediamente assistita
La donna è la sola che genera fisicamente, l’uomo da solo una metà indispensabile del contributo genetico: si è infatti osservato come l’ovulo non aspetti passivamente l’arrivo dello spermatozoo, ma eserciti un’azione di attrazione nei confronti di quest’ultimo. L’aspirante madre, invece, quella “intenzionale” vive un’esperienza procreativa maschile, in quanto eventualmente consegna il suo patrimonio genetico e attende il grande evento. L’unico rapporto col nascituro avviene, come accade per i padri, solo attraverso la relazione con la madre biologica.
Il risultato sociale dell’esistenza di questi contratti (ma anche degli accordi retribuiti) è il consolidarsi di una particolare interpretazione della pratica della surrogazione: quella che vede la madre biologica come un ventre a disposizione dei “clienti”, spesso cancellata dalla storia della famiglia dopo essere stata usata come un contenitore. La madre retribuita è un corpo che deve obbedire agli ordini, senza esprimere alcun volere rispetto al “contenuto” perché esso è considerato proprietà di altri.
Daniela Danna in Maternità. Surrogata?
Dietro a un concetto distorto, e potenzialmente senza limiti, di autonomia della lavoratrice surrogata, si cela oppressione di classe e femminile. La stragrande maggioranza delle donne che intraprendono una gravidanza per altri lo fa solo o anche per soldi. Persino quando l’istituto giuridico della maternità surrogata è chiamato altruistico, come in Grecia, prevede comunque un sostanzioso rimborso spese per coprire i costi extra della gestante (come vestiti premaman o cibi particolari) e compensare i mesi in cui non può lavorare. Inoltre, dalle numerose testimonianze si evince che una quota altra viene remunerata in nero dai genitori “intenzionali” direttamente alla lavoratrice surrogata. Dunque, l’applicazione totale di questa pratica ci riconduce facilmente all’immaginario presentato dal romanzo distopico Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, in cui donne povere fanno figli per donne e/o uomini ricchi.
Già in seno al processo di medicalizzazione del parto, che più avanti diviene ospedalizzazione dello stesso – cioè del suo trasferimento dalla casa all’ospedale, che avviene a livello di massa in Europa, a partire dagli anni ‘20 del Novecento – l’esperienza della gravidanza viene espropriata dalla classe medica (inizialmente solo maschile), perdendo autonomia e naturalezza. Adrienne Rich denunciava la gabbia della maternità patriarcale, i cui imperativi oppressivi vogliono standardizzare e neutralizzare l’esperienza soggettiva della donna all’interno del processo gestazionale. Le restrizioni per le madri surrogate, stabilite dal contratto o addirittura imposte dalla clinica in cui si va a lavorare per nove mesi come accade in India, vanno dal divieto di mangiare determinati cibi o assumere bevande alcoliche sino alla castità e il domicilio. Ma il vero attentato al femminismo consiste nel negare il ricorso all’aborto. Viene chiamata “riduzione embrionale”, ma si tratta della legittimità dei committenti, sancita da contratto, di abortire in maniera selettiva uno o più embrioni che non rispecchiano il loro desiderio perché difettosi o di sesso indesiderato.
L’ingegneria genetica è in se stessa una tecnologia del dominio. Ogni suo aspetto porta in sé dominazione e oppressione ed è per questo che essenzialmente viene sviluppata.
Rote Zora, comunicato in seguito all’attacco al cantiere del centro d’ingegneria genetica, 17 ottobre 1986, Berlino Ovest
L’autodeterminazione non è più una rivendicazione politica, collettiva e di lotta contro l’integrazione/sottomissione ai rapporti dominanti. È diventata invece una legittimazione per processi individualistici.
Rote Zora, comunicato in seguito alla distruzione dell’archivio dell’Istituto di Genetica Umana , 5 agosto 1986, Münster
La retorica con cui la maternità surrogata vuole essere legittimata eticamente ruota intorno al cosiddetto “diritto procreativo”, che interessa in particolare le coppie sterili o omosessuali. Tralasciando il fatto che accordi di questa natura potrebbero essere presi dal basso e senza passare dai laboratori – come accadeva un tempo nelle comunità in cui chi non poteva avere figli cresceva quelli degli altri o come può avvenire se un uomo dona il suo seme a una donna lesbica -, avere figli non è assolutamente un diritto in termini legislativi. Se rendiamo il desiderio di avere un figlio un vero e proprio diritto (civile), come fa notare Daniela Danna in Fare un figlio per altri è giusto. Falso!, dobbiamo farvi corrispondere un dovere. E, facendo un esercizio mentale, quali forme di dovere potrebbero essere introdotte? Donazioni di sperma forzate? Obbligo di consegnare il figlio portato in grembo per rispettare il contratto con i genitori intenzionali (già esistente in molti stati)?
Ci rendiamo conto di quanto suonino distopiche queste disposizioni? Forse si potrebbe ottemperare al desiderio sfrenato di un figlio attraverso l’adozione come pratica vera e propria oppure l’adozione di atteggiamenti materni nei confronti di altri bambini figli di persone care, dei più deboli, o attraverso l’insegnamento e l’educazione in generale. Credo che una forma di maternità sia esperibile anche tramite l’amore verso cuccioli umani o animali che non sono geneticamente o biologicamente connessi a noi.
La volontà individualistica e egoistica di volere un figlio proprio ad ogni costo, talvolta su misura, rischia di trasformare il disinteressato amore genitoriale in desiderio di possesso. Come scrive Silvia Guerini in PMA. Procreazione mediamente assistita (Novalogos, Aprilia, 2020) “il diritto del consumatore prevale sul legame madre e figlia […]. Il ventre materno diventa un magazzino aziendale e il/la bambino/a un mero oggetto del desiderio che si può comprare, che deve soddisfare il consumatore e che si può rimandare al mittente se guasta o se non soddisfa le proprie aspettative”.
In questa ingegnerizzazione del vivente accade che la fabbrica, dapprima fuoriuscita dai cancelli per divenire sociale, è poi entrata nel corpo, trasformando la maternità in un processo di procreazione, un ingranaggio della catena di produzione della merce-bambino. Nella maternità surrogata la madre biologica svolge un compito parcellizzato del processo (ri)produttivo; diviene, come scrive Daniela Danna, citando S. Agacinski, “il sacco in cui mettere l’embrione, o il magazzino per stoccare l’infante di cui si attende la consegna”. In questo processo, ovviamente, viene meno l’esperienza corporea, ovvero quella che fisicamente, attraverso la gestazione e il parto, dà vita al neonato. La volontà di offuscare o addirittura cancellare una realtà materialmente condivisa da sempre, ovvero che non veniamo fabbricati in laboratorio, ma nasciamo da una donna, comporta la delegazione ai medici – che sono in un certo senso rappresentanti dei nuovi interessi tecno-commerciali – dell’autonomia procreativa femminile. In questo scenario i protagonisti non sono più la madre (biologica) e il neonato, ma il medico che si è occupato della fecondazione in vitro, l’avvocato che ha steso e tutelato il contratto di utero in affitto, i consumatori del sogno “bambino come e quando voglio”, mentre il neonato è un mero prodotto.
I profitti del business attorno alle TRA e in particolare l’utero in affitto riguardano soprattutto le agenzie intermediarie tramite cui la, il o i o le cliente/i, riducono i tempi di ricerca delle cliniche, degli ovociti, delle madri biologiche e sono coperti da eventuali insorgenze legislative. Praticamente queste agenzie – non legali in tutti i paesi, ad esempio in Gran Bretagna sono vietate mentre negli Stati Uniti pullulano – offrono servizi legali, medici e psicologici, in alcuni casi coprendo i costi della pubblicità e assicurando un controllo persino sul passato della candidata surrogata. Come scrive Daniela Danna in Maternità. Surrogata?, gli accordi di surrogazione attraverso le agenzie d’intento si aggirano attorno al doppio del pagamento della madre biologica (o surrogata). In Israele, ad esempio, una madre retribuita guadagna circa 35.000-40.000 dollari, mentre il costo per i clienti si aggira intorno ai 50.000-70.000 dollari.
L’ipotesi quasi sempre nascosta è che il processo di commercializzazione non incide sul prodotto. Questo falso presupposto ha largamente contribuito allo sviluppo dell’imperialismo economico contemporaneo, tentando di estendere l’analisi economica a molteplici campi della vita politica e sociale.
Nicole Athèa, PMA. Procreazione mediamente assistita
Va tenuto presente che in ogni periodo storico non è mai lo stato con i suoi apparati burocratici a determinare i paradigmi dominanti, ma gli interessi dei capitali che investono in un determinato ramo tecnoscientifico e ne guidano le relative innovazioni. Dunque, anche se in Italia vige tuttora la legge n. 40 che tutela il principio di Mater semper certa est, non è detto che nel futuro prossimo non si attuino dei cambiamenti legislativi al fine di legalizzare la commercializzazione di gameti, embrioni e la maternità surrogata.
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