Le autorità di Kiev affermano che dall’8 giugno è in corso una «vasta controffensiva contro l’aggressore russo».
La controffensiva non esiste
Nel lessico militare si preferisce parlare di contrattacco piuttosto che di controffensiva. Contrattaccare significa approfittare delle momentanee debolezze del nemico per andare all’assalto. Si pensi a Napoleone che ad Austerlitz fece ripiegare parte delle truppe allo scopo di tendere una trappola al nemico e vincere la battaglia.
Optare per il termine «controffensiva» non è una scelta anodina. È un’astuzia comunicativa che sottintende che i russi hanno lanciato un’«offensiva» per impadronirsi dell’Ucraina, prova ne sia il fatto che, prima di essere costretti a ritirarsi, hanno attaccato l’aeroporto Nord di Kiev.
In realtà i russi non hanno mai tentato di prendere Kiev e non vogliono invadere l’Ucraina. È quanto dichiarò il presidente Vladimir Putin già nella prima settimana dell’«operazione speciale». L’occupazione di un aeroporto militare, anche quello di Kiev, è semplicemente una battaglia per garantirsi la superiorità aerea. Non significa che i russi intendessero prendere la capitale.
Nemmeno «operazione speciale» è locuzione neutra. Mosca la usa per sottolineare che non si tratta di una guerra d’invasione, ma di un’operazione che discende dalla «responsabilità di proteggere» le popolazioni degli oblast di Donetsk e Lugansk, ufficialmente bersaglio dal 2014 di un’operazione punitiva di Kiev. Contestare la fondatezza dell’operazione speciale russa è come mettere in discussione l’operazione delle forze armate francesi per far finire il massacro del Rwanda. Entrambe le operazioni speciali sono state autorizzate da risoluzioni del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: la n. 929 del 22 giugno 1994 e la n. 2202 del 17 febbraio 2015. La risoluzione su cui si appoggia Mosca, a differenza di quella che autorizzò i francesi a intervenire in Rwanda, non è stata dettata dall’urgenza: è l’atto con cui l’Onu avvalla gli Accordi di Minsk e dà facoltà alla Germania, alla Francia e alla Russia d’intervenire per farli applicare.
Dal punto di vista comunicativo il termine controffensiva consente di far dimenticare che Kiev ha fatto guerra ai propri concittadini per otto anni, causando, a seconda delle versioni, 14 mila o 22 mila morti.
Per mesi Kiev ha chiesto e ottenuto armi occidentali in gran quantità e ha addestrato i suoi soldati ad usarle. Intanto Mosca ripiegava sulle linee accettate durante i negoziati di pace, svoltisi dapprima in Bielorussia poi in Turchia, in seguito dichiarati decaduti dalla Verkhovna Rada, il parlamento di Kiev (dove Washington ha installato un ufficio di consiglieri permanenti del dipartimento di Stato e dell’USAID). Mosca ha fatto anche di più: ha abbandonato la riva destra di Kherson (non la riva sinistra), facendo del fiume Dnepr la frontiera naturale tra l’Ucraina e la Novorossia. Gli abitanti della regione hanno aderito con referendum alla Federazione di Russia, Mosca ha perciò costruito due linee di difesa, dalla foce del Dnepr al Donbass (Lugansk e Donetsk). Sono due linee di “denti di drago” (fortificazioni che impediscono il passaggio dei blindati) e di trincee.
L’Alleanza atlantica, che fornisce armi e strategie, ha dato ordine di lanciare la controffensiva nel momento in cui Kiev ha perso il controllo dello spazio aereo e scarseggia di munizioni. L’anno scorso le forze armate ucraine usavano droni per controllare i movimenti dell’avversario. Oggi non ci riescono più perché i russi sono in grado di perturbare tutte le comunicazioni sul “proprio” territorio e anche un po’ più in là. Kiev dispone, in teoria, di un armamento terrestre impressionante, quale nessun Paese ha mai avuto prima. Ma moltissime armi sono in realtà sparite: hanno preso altre strade, con o senza l’accordo dei generosi donatori. Quanto alle munizioni, non è possibile immagazzinarle in Ucraina perché vengono sistematicamente distrutte dai missili ipersonici russi. Vengono perciò stoccate in Polonia e Moldavia e passano la frontiera solo per arrivare al fronte.
Da due settimane le forze ucraine tentano, senza riuscirci, di sfondare le linee di difesa russe. Le truppe si ammassano a ridosso e vengono colpite dall’artiglieria russa. Quando decidono di ritirarsi, i russi mandano droni a disseminare di mine la via del ritorno.
La sola cosa che le forze di Kiev riescono a fare è prendere i villaggi disseminati su alcuni chilometri davanti alle linee di difesa. Nel frattempo l’aviazione russa bombarda gli arsenali, anche molto all’interno dell’Ucraina. I sistemi di protezione antiaerea più performanti, i Patriot, sono stati distrutti non appena istallati. Restano solo i sistemi in grado di colpire i missili obsoleti. Lo stato maggiore ucraino afferma di aver distrutto sei missili Kinzhal, ma, tenuto conto della loro velocità (10 Mach), ciò è impossibile. Il sindaco di Kiev, Vitali Klitschko, ha diffuso una foto che lo ritrae davanti a una carcassa di Kinzhal. Peccato che i rottami non corrispondano per niente a quelli di un Kinzhal!
L’Alleanza atlantica ha dispiegato tutti i suoi AWCS per controllare a distanza il campo di battaglia; quindi non può ignorare la portata della disfatta. Tuttavia, inspiegabilmente, continua a spronare gli ucraini al combattimento, anzi alla morte.
Kiev non ne vuole sapere di missioni di mediazione
Washington spera ancora che Kiev vincerà, regalando al presidente Joe Biden un’eclatante rielezione; tuttavia, potrebbe invertire la rotta e decidere di appoggiarsi alle missioni di mediazione della Cina e dell’Unione Africana. Ma la Verkhovna Rada ha vietato a chiunque di negoziare con l’«invasore».
La Cina ha pubblicato 12 principi che ritiene debbano costituire la struttura di ogni accordo di pace. L’inviato speciale di Beijing, Li Hui, rifiuta di discuterne l’applicazione finché entrambe le parti non li avranno approvati. Sembra ormai cosa fatta. Ma gli Occidentali sono furbi, sanno bene che possono fingere di condividere questi principi solo perseverando nelle menzogne degli ultimi trent’anni. Se non lo facessero significherebbe riconoscere la fondatezza della posizione russa, quindi volere la sconfitta di Kiev.
L’Unione Africana e la Fondazione Brazzaville hanno inviato quattro capi di Stato: Azali Assoumani (Comore, presidente di turno dell’Unione africana), Macky Sall (Senegal), Cyril Ramaphosa (Africa del Sud) e Hakainde Hichilema (Zambia). Tutti gli altri si sono defilati. Il presidente egiziano ha inviato il primo ministro Mostafa Madbouly. L’Ugandese Yoweri Museveni, colpito da Covid, ha delegato l’ex ministro degli Esteri Ruhakana Rugunda. Il congolese Denis Sassou-Nguesso si è fatto rappresentare da Florent Ntsiba, direttore dell’ufficio di gabinetto della presidenza con rango di ministro di Stato.
All’arrivo, la delegazione è stata subito invitata a visitare Butcha, dove gli ucraini hanno illustrato le atrocità commesse dagli occupanti russi. Gli africani non hanno incontrato gli inquirenti internazionali, che hanno invece accertato che i massacri sono stati perpetrati con freccette (munizioni d’acciaio molto usate durante la prima guerra mondiale). Ma quel che conta è la cronologia degli avvenimenti: i russi hanno lasciato Butcha il 30 marzo 2022; il sindaco della città in quel momento non ha rilevato nulla di anomalo; il giorno successivo sono entrati i nazionalisti integralisti del battaglione Azov; i corpi sono stati rinvenuti il 4 aprile. Si è evidentemente trattato di un episodio di guerra civile, durante il quale i nazionalisti integralisti hanno giustiziato gli abitanti della città ritenuti collaborazionisti dei russi. A ogni modo gli africani hanno esperienza di situazioni di questo genere, per cui non sarà facile abbindolarli.
All’arrivo a Kiev della delegazione diplomatica le sirene della difesa antiaerea hanno suonato, ma gli esponenti africani non si sono lasciati impressionare: hanno costatato che la capitale non veniva bombardata, ma venivano colpiti solo alcuni siti militari.
Durante la conferenza stampa finale, il presidente delle Comore, Azali Assoumani, ha dichiarato: «La via della pace deve passare per il rispetto della Carta delle Nazioni unite e l’Africa è disponibile a lavorare insieme a voi per cercare una pace duratura (…) Anche se il cammino potrebbe essere lungo, è comunque lecito sperare, perché negoziare è sempre possibile». Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky gli ha risposto: «Oggi, durante il nostro incontro, ho detto chiaramente che in questo momento, quando l’occupante è sulla nostra terra, negoziare con la Russia significa perpetuare la guerra, il dolore e la sofferenza».
Dopo questo rifiuto categorico, gli africani si sono recati a San Pietroburgo per incontrare il presidente russo Vladimir Putin, che naturalmente si è mostrato molto più disponibile. Non solo non ha nulla da perdere, ma ha dalla propria parte un’argomentazione di grande peso. Ha presentato alla delegazione (si veda il video) il testo del trattato di pace e l’integrazione, negoziati dagli ucraini a marzo 2022 e firmati dal capo della loro delegazione. Ha persino spiegato che, in applicazione di questa intesa, le truppe russe hanno lasciato gli oblast di Kiev e di Tchernihiv, mentre gli ucraini non solo si sono rifiutati di ratificarli, ma, come detto, hanno adottato una legge che vieta di avviare o riprendere negoziati di pace.
Al vertice Africa-Russia, previsto dal 26 al 29 luglio, si capirà quale dei due capi di Stato sarà giudicato più sincero dalla delegazione dell’Unione Africana. L’interesse di Kiev per le missioni di mediazione è fasullo quanto la controffensiva.
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