Il Negazionista e Bill Gates
di DOPPIOZERO (Federico Casotto)
Bill Gates
“Personalmente, amo l’uva e mi piace mangiarla tutto l’anno. Ma posso farlo soltanto grazie alle navi che trasportano container di frutta dall’America Latina e attualmente sono alimentate con combustibili fossili. Come possiamo ottenere tutti i benefici dei viaggi e dei trasporti senza rendere il clima invivibile?”
Se lo chiede Bill Gates nel suo libro Clima. Come evitare un disastro. Le soluzioni di oggi. Le sfide di domani, 2021, La Nave di Teseo. È un libro tradotto in molte lingue, che illustra in modo molto chiaro l’idea di sviluppo sostenibile, basata su una fiducia sconfinata nella tecnologia e sul riconoscimento del diritto di tutte le popolazioni ad aspirare agli standard di vita statunitensi. In sintesi, è un sommario di innovazioni tecnologiche, iniziative imprenditoriali, molte finanziate dall’autore stesso, e proposte di policy in materia energetica, che potrebbero aiutare l’umanità a realizzare l’ambizioso obiettivo di azzerare il contributo antropico all’aumento della concentrazione di gas serra nell’atmosfera, senza modificare in modo sostanziale gli attuali modelli di consumo. Quello sull’uva è un passaggio marginale e quasi incidentale simile a molti altri disseminati nel libro, in cui l’autore apre spiragli sulla sua vita privata e le sue preferenze personali. Come quando (p.20) ammette candidamente di avere, lui e la sua famiglia, un’impronta di CO2 immensamente superiore a quella di quasi tutti gli altri esseri umani, perché possiede grandi case e si sposta con i suoi jet privati. Come ho detto si tratta di annotazioni marginali rispetto all’intenzione del libro, che è di salvare il mondo, ma diventano centrali nella mia interpretazione, perché sono gli affioramenti sporadici di una grande questione di fondo che Gates vorrebbe tenere proprio lì nel fondo: le società occidentali hanno consumato e continuano a consumare troppo e male e una grandissima parte di questi consumi si configura come spreco.
Forse non tutti sono disposti a considerare un jet in volo intercontinentale con una persona sola molto ricca a bordo come uno spreco di risorse. In molti potrebbero vederci la manifestazione di uno stile di vita desiderabile. Per me invece vi è una sproporzione abissale tra il valore della traslazione di Bill Gates da un punto a un altro del globo e l’enorme consumo di energia di un aereo dedicato solo a questo scopo. Lo spreco risiede in quella sproporzione ed è intrinsecamente sbagliato sia da un punto di vista energetico (minima efficienza) che etico (abuso di risorse). Gates potrebbe organizzarsi meglio e viaggiare su voli di linea per ridurre drasticamente il suo dividendo energetico. In first class, se crede.
Si dirà: lui poi compensa le emissioni con i crediti di carbonio ottenuti finanziando iniziative per la cattura della CO2 dall’atmosfera (si veda ad esempio la società Carbon Engineering), quindi, facendo le somme, non ha un impatto così negativo. La sua ambizione è addirittura di diventare net positive, cioè di rimuovere dall’atmosfera molta più CO2 di quanta non ne immetta la sua famiglia con il suo stile di vita (p.21). È vero ed è meglio che niente, ma la sproporzione e lo spreco restano. Aggiungo che questa storia dei crediti di carbonio, che assomiglia tanto al mercato delle indulgenze del XVI secolo, è moralmente discutibile. Mi spiego con un esempio immaginario. Supponiamo che Bill Gates, dopo avere letto questo articolo si irriti molto con me perché l’ho tirato troppo in ballo e mi sputi in un occhio.
“Hai fatto una cosa brutta Bill!”, gli direi.
“Si, lo so… Non ho potuto evitarlo. Sappi, però, che sto finanziando in tutto il mondo dei programmi di formazione sul controllo dell’aggressività maschile. Ti posso assicurare che stanno funzionando.”
“Va bene, Bill. Ciò non toglie che tu mi abbia appena sputato in un occhio.”
“Riformulo per chiarire: grazie ai miei investimenti il mio impatto sull’aggressività globale è net positive. Mi posso definire una persona mite.”
Il negazionista
François Gervais è professore emerito dell’Università di Tour, dove ha insegnato fisica e scienza dei materiali, ed è un esponente di spicco della corrente di pensiero che nega l’origine antropica dei cambiamenti climatici in atto e ne ridimensiona l’entità, togliendo alle campagne per la riduzione delle emissioni di CO2 la loro ragion d’essere. Il libro si intitola Impasses climatiques: les contradictions du discours alarmiste sur le climat (2022). Non è tradotto in italiano e, a quanto pare, nemmeno in inglese. Le tesi principali, in buona parte già note a chi si occupa di questa controversia, sono le seguenti. 1) La sensibilità climatica, cioè la stima di quanto aumenta la temperatura media del pianeta in relazione all’aumento della concentrazione di CO2 nell’atmosfera, è stata ampiamente sovrastimata, quindi 2) le emissioni antropiche, che contribuiscono in misura minima all’aumento della concentrazione dei cosiddetti gas serra, hanno effetti irrilevanti sul clima che non giustificano i sacrifici richiesti per ridurle. 3) La correlazione tra innalzamento della temperatura media e concentrazione di CO2 esiste, ma il rapporto di causalità deve essere invertito: è la temperatura elevata a causare l’aumento della CO2, non viceversa. Questa inversione si spiega col fatto che ad alte temperature gli oceani assorbono meno CO2 dall’atmosfera e anzi ne rilasciano grandi quantità liberando i gas già sequestrati nelle loro acque. 4) Le variazioni della temperatura media del pianeta dipendono da fenomeni naturali di portata enormemente maggiore rispetto alle emissioni antropiche: le Oscillazioni Pacifiche e Atlantiche, ad esempio, El Niño, i cicli delle macchie solari… 5) Il piano di azione definito dalle varie COP (Conference of Parties sui cambiamenti climatici) per la completa decarbonizzazione del pianeta entro il 2050 è tecnicamente irrealizzabile ed economicamente insostenibile e porterà solo morte e disperazione, soprattutto nei paesi in via di sviluppo.
In breve, il libro rimette in discussione tutto quello che negli ultimi anni io e Bill Gates ci siamo abituati a considerare come un fatto e cioè che le emissioni di CO2 causate dall’uomo, benché marginali rispetto all’immenso respiro delle terre e degli oceani, accumulandosi nell’atmosfera anno dopo anno da circa 200 anni, sono all’origine di cambiamenti climatici che potrebbero avere conseguenze catastrofiche per l’umanità nel prossimo futuro e quindi bisogna fare di tutto e al più presto per limitare queste emissioni – argomenti molto convincenti al riguardo si trovano nell’introduzione al monumentale lavoro di David MacKay, Sustainable Energy – Without the Hot Air, 2014, disponibile online.
Non intendo dare conto qui del dibattito tra negazionisti e allarmisti. Voglio invece riflettere sul fatto che questo testo divulgativo di Gervais ha esercitato su di me, che so molto poco di climatologia e di fisica, la stessa forza persuasiva di altri testi che sostengono le tesi opposte. Il ragionamento, in entrambi i casi, è fondato su dati presentati come oggettivi, forniti da rilevamenti e misurazioni la cui attendibilità, però, non so giudicare; si basa su riferimenti a paper scientifici validati da peer review che non leggerò mai e che comunque non capirei; è corredato da approfondimenti tecnici inaccessibili per me, ma la cui sola presenza in appendice o nelle note a piè di pagina ha il valore di una prova a favore; e poi grafici, molti grafici, con i loro picchi a confronto. Infine, e soprattutto, l’argomentazione è condotta con una logica stringente.
“Sì, però,” mi dice un amico a cena, “devi considerare che più del 97% degli articoli scientifici pubblicati concordano sull’ipotesi dell’origine antropica dei cambiamenti climatici, mentre soltanto un corpus residuale di studi pretenderebbe di dimostrare il contrario. Questo dovrebbe contare.”
In effetti, la compattezza della comunità scientifica sulla questione è l’argomento principale utilizzato dai non specialisti per neutralizzare pregiudizialmente qualsiasi voce dissonante. Ed è anche tutto quello che abbiamo in generale per poter definire una qualsiasi ipotesi come molto probabile o addirittura vera. Ma questo non può significare che ogni ipotesi alternativa sia falsa. La storia della scienza è piena di ipotesi che hanno richiesto tempo per essere accettate, perché sfidavano teorie consolidate. Non dico che questo sia il caso, ma immaginiamo che lo sia e che Gervais abbia ragione. Immaginiamo che le prossime rilevazioni e modelli previsionali più evoluti e perfezionati dall’intelligenza artificiale confermino le sue tesi: cosa facciamo? Smettiamo di porci il problema? Continueremo a bruciare petrolio a più non posso e finché ce n’è, con il cuore più leggero?
70 anni di scarto
François Gervais potrebbe trovarsi d’accordo con Bill Gates sulla questione dell’uva. Non vi sono evidenze testuali che anche a lui piaccia mangiare l’uva tutto l’anno, ma posso immaginare che non abbia niente da obiettare sul fatto che delle grandi navi brucino tonnellate di gasolio per consentire a Bill Gates di mangiare uva durante la primavera boreale. E credo che non avrebbe molto da ridire nemmeno sul jet privato, se non per rinfacciare a Gates l’ipocrisia di un campione della decarbonizzazione che allo stesso tempo è un campione di emissioni. Anche lui come Gates è fautore convinto della crescita economica infinita e vivrebbe qualsiasi limitazione al movimento delle merci e delle persone come una compressione inaccettabile di alcune libertà fondamentali.
Un’altra affinità tra i due è il punto di vista sul nucleare. Per quanto riguarda Gates, basti dire che ha fondato TerraPower, una società per lo sviluppo del nucleare pulito che nel 2028, con investimenti di oltre 4 miliardi di dollari, dovrebbe mettere a regime uno dei primi reattori dimostrativi di nuova generazione. Gervais, per parte sua, considera il nucleare l’unica alternativa seria al petrolio perché è controllabile, cioè non esposto ai capricci della meteorologia, ha una densità energetica incomparabilmente superiore a qualsiasi altra fonte energetica e in prospettiva è più sicura e durevole, grazie allo sviluppo dei reattori al torio 232 e all’uranio 238 che non lascerebbero scorie. Anche se non lo dice apertamente, è molto probabile che per lui la transizione al nucleare sia inevitabile in vista dell’esaurimento dei giacimenti fossili conosciuti, che secondo le sue stime non dovrebbe verificarsi prima di 100 anni, al ritmo attuale di estrazione. Quindi non c’è fretta, dice. Per Gates invece saranno sufficienti 30 anni per una completa decarbonizzazione dell’energia. È ancora convinto che l’umanità rispetterà il termine del 2050 stabilito dalla COP24, grazie a una combinazione virtuosa di incentivi pubblici, accordi tra governi e innovazione tecnologica per lo sviluppo di fonti a emissioni zero, come il nucleare di IV generazione di TerraPower, e di sistemi per la cattura compensativa delle emissioni di C02 inevitabili, come quelle dei suoi jet.
In definitiva, tra la visione di un negazionista di punta come Gervais e quella di Bill Gates, cioè la bestia nera dei negazionisti e l’eminenza green del governo globale, la differenza consiste in uno scarto di 70 anni nella previsione di quando sarà necessario nuclearizzare l’energia. Per Gates settant’anni di emissioni è quanto basterebbe per friggere l’umanità, per Gervais è quanto basterebbe per una transizione più graduale e meno catastrofica.
Emissioni e omissioni
Ciò che avvicina di più le due visioni è quello che vi si omette. Manca in entrambe una riflessione critica sulla dismisura dei nostri consumi e sul fatto che il sistema economico dominante promuove un uso irrazionale, smodato e sperequato delle risorse. Credo che qualsiasi discorso sulla sostenibilità che non metta al centro questi temi sia privo di valore. Ridurre la sostenibilità a una questione di emissioni di CO2, come si sta facendo, è una semplificazione del problema che serve a dare l’illusione di poterlo superare: negandolo, come fa Gervais, per lasciare tutto com’è, o risolvendolo dentro le logiche del sistema economico dominante, come fa Gates con il suo spirito imprenditoriale. Il problema invece è straordinariamente più complesso perché è annidato proprio in quelle logiche, che legano il lavoro e il reddito e dunque la sopravvivenza di miliardi di persone a pratiche che ancor prima di essere insostenibili sono assurde. Cito una di queste pratiche, tra le molte che ho in mente, non perché sia la più nociva, ma perché è una di quelle in cui l’assurdità è più lampante: l’esportazione di acqua in bottiglia. Faccio alcuni esempi. C’è un’azienda che imbottiglia acqua sul Monviso da una sorgente di alta quota e la esporta in Arabia Saudita, dove viene distribuita tramite eCommerce e recapitata fredda ai clienti. Ce n’è un’altra che imbottiglia acqua frizzante in Val Brembana e la spedisce in tutta Italia, in tutta Europa e anche negli Stati Uniti dove viene bevuta come un simbolo di status. Un’altra ancora sfrutta le fonti di alcune isole sperdute nell’Oceano Pacifico per offrire agli occidentali una purezza incontaminata che non possono più trovare attorno a sé, anche a causa degli enormi truck che hanno trasportato quell’acqua fino a loro. Si tratta di iniziative commerciali brillanti, additate spesso come esempi di buona imprenditoria e di marketing efficace, che muovono l’economia, contribuiscono alla crescita, creano posti di lavoro, portano la prosperità occidentale anche in mezzo al Pacifico, aumentano il PIL da qualche altra parte ecc.; ma l’idea di tutti quei camion, container e cargo che percorrono migliaia di chilometri per spostare da qui a lì un bene che può essere fornito, per non dire dai rubinetti di ogni casa, da sorgenti naturali molto più vicine ai bevitori, mi mette molto a disagio. Un disagio di ordine etico e razionale, causato da una profonda insofferenza per lo spreco e dalla percezione chiara dell’insensatezza di questo commercio e del connesso desiderio di acque remote da parte dei consumatori (potete trovare qualche riflessione più articolata in proposito in Il problema è alla fonte, su questa rivista). Un disagio che non ha nulla a che fare con le emissioni di CO2 o con la paura dei cambiamenti climatici e che quindi non verrebbe meno né se decidessi di dar retta a Gervais, né se si realizzasse il sogno di Gates di un mondo neoliberista net zero. Non condivido affatto l’assunto di Gates, implicitamente sottoscritto da Gervais, per cui “non c’è nulla di male nell’usare più energia, fintanto che è a impatto zero” (p.21). Il punto invece è proprio questo: può esserci del male.
In copertina: Elaborazione grafica dell’autore a partire da un’immagine del Leviatano di Hobbes.
FONTE:https://www.doppiozero.com/il-negazionista-e-bill-gates
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