VISTO DA SINISTRA/ Addio a Mario Tronti, vincere nel ’68 e perdere con il post-Pci
di IL SUSSIDIARIO (Antonio Napoli)
La sinistra piange Mario Tronti (1931-2023), filosofo e politico, teorico dell’operaismo, prima con Ingrao poi nel Pd. Sapeva che la vecchia sinistra era stata sconfitta
Uno alla volta se ne vanno, i protagonisti del Novecento. È inevitabile, visto che siamo entrati nel terzo decennio del XXI secolo. Eppure colpisce che di questi uomini ormai centenari è vivo il ricordo, e tanti di loro sono rimasti attivi, hanno continuando a essere presenti e a dire la loro ed aiutano a riflettere sulla nostra storia.
Tra questi c’era sicuramente Mario Tronti, morto ieri nella sua casa di Ferentillo, in provincia di Terni, all’età di 92 anni. Tronti è stato un pensatore della sinistra operaista degli anni Sessanta. Una figura oggi difficile da raccontare ad un ventenne. Potremmo definirlo uno spirito libero, a metà tra il filosofo e il dirigente politico, con la scrittura impegnata di un letterato e l’oratoria brillante ed avvolgente di un leader popolare, serioso come tutti all’epoca ma anche attento a curare il proprio look, quasi da attore, ispirato a Trintignant.
I primi anni Sessanta erano anni difficili, come sappiamo, ma il boom economico stava rapidamente portando l’Italia fuori dalla miseria e dalle privazioni patite dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Lo straordinario sviluppo industriale del Nord del Paese – edilizia, frigoriferi e lavatrici, auto, meccanica e turbine elettriche – provocò anche una rapida trasformazione sociale, spingendo milioni di contadini (e di braccianti poveri) del Sud a diventare operai. Mario Tronti incominciò proprio da lì il suo percorso, cercando di esaminare le conseguenze di una crescita così improvvisa e numerosa nel nostro Paese di una moderna e giovane classe operaia. Un processo impetuoso, che non poteva non avere conseguenze sulla struttura del potere.
Quando scoppia il ’68 in Italia la matrice operaia sopravanza quella studentesca, al contrario di come era accaduto in Francia e negli Stati Uniti. Il ’68 italiano è soprattutto operaio, politicizzato, c’è la fabbrica al centro, molto più delle università e delle scuole. Tronti l’operaista trova così le sue conferme, il suo “Operai e Capitale” diventa un libro di riferimento e lui sogna una classe operaia che si fa Stato. Quando poco dopo con il movimento nascono i primi consigli di fabbrica, egli vede prendere corpo la vecchia idea gramsciana della classe principe che si autogoverna.
Mario Tronti non tradirà mai la sua appartenenza politica al principale partito della sinistra. Nel Pci prima, al fianco di Pietro Ingrao, in quella che sarebbe diventata la corrente della sinistra massimalista. Ma non seguì il suo capo quando con la scissione del 1990 i suoi compagni di strada abbandonarono Occhetto e il Pds. Tronti divenne prima deputato di quel partito nel 1992 e poi, dopo aver per molti anni ricoperto il ruolo di presidente dell’istituto Crs (Centro per la riforma dello Stato), tornò in Parlamento con il Pd nel 2013 che lo elesse senatore.
È proprio scrivendo al suo vecchio leader Pietro Ingrao nel 2011, in occasione del suo compleanno, come ha ricordato giustamente un vecchio comunista napoletano, il professor Nino Ferraiuolo, che Tronti affronta senza veli il tema della sconfitta storica subita dalla sua parte politica. Tronti rifiuta l’idea “di essere stati noi, del movimento operaio di impronta comunista, gli autori di una storia sbagliata. Mentre i nostri avversari, e qualcuno dei nostri concorrenti, avevano visto giusto e capito tutto fin dall’inizio. lo credo che se dobbiamo rimproverarci qualcosa, questo sta nel campo di ciò che non abbiamo fatto, più che nel campo di ciò che abbiamo fatto male”.
Questo non significa non essere consapevoli di essere responsabili di una sconfitta dolorosa: “lasciamo ai nostri figli, ai nostri nipoti, una condizione di vita, individuale e sociale, e uno stato interiore, che con una parola a me, ma so anche a te, cara, possiamo definire spirituale, peggiore di tutto quanto noi abbiamo vissuto”.
Tronti si chiede se di fronte a tale realtà sia possibile trovare scusanti accettabili, e conclude: “Difficile perdonarci questa colpa. I potenti, i ricchi, i sovrapposti, i possessori delle nostre vite, non si sono mai sentiti così bene al sicuro come in questo tempo. Lo dimostrano il peso della loro arroganza, la volgarità della loro egemonia, le certezze della loro indiscutibile ragione. È qui che va posta la domanda: dove abbiamo sbagliato? Una domanda per tutti, uomini e donne, credenti e non credenti, rivoluzionari e riformisti. Non ci si può sottrarre. Non per disperarsi, tanto meno per rassegnarsi”.
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