Critica al sistema di valutazione della performance nella pubblica amministrazione
di Michele Durante
Il sistema di valutazione delle strutture e dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche (c.d. performance) introdotto dal d.lgs. n. 150/2009, secondo la normativa, perseguirebbe il fine di “assicurare elevati standard qualitativi ed economici del servizio tramite la valorizzazione dei risultati e della performance organizzativa e individuale” (art. 2). Ciò appare, in prima battuta, un fine condivisibile. Chi non vorrebbe elevare e valorizzare i risultati di una qualsivoglia organizzazione, ancor più quando persegue interessi pubblici, e delle persone che vi operano all’interno? Peccato che tale fine — visto il contesto e le modalità politiche, sociali, economiche e soprattutto normative in cui il sistema di valutazione si inserisce — non solo non può essere perseguito, ma attraverso tale strumento si sono prodotti risultati addirittura contrari.
La supposta elevazione degli standard qualitativi che dovrebbe derivare dalla valorizzazione dei risultati, già negli articoli seguenti, viene subito ingabbiata dai vincoli di finanza pubblica: “… Le amministrazioni interessate utilizzano a tale fine le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente.” (art. 3, c. 6); “Ai fini dell’attuazione dei principi generali […] le amministrazioni pubbliche sviluppano, in maniera coerente con i contenuti e con il ciclo della programmazione finanziaria e del bilancio, il ciclo di gestione della performance.” (art. 4, c. 1). Ciò sta a significare che il ciclo di gestione della performance è stato implementato con le risorse materiali e umane disponibili, già esigue e insufficienti a garantire un servizio adeguato, comportando necessariamente un maggior carico di lavoro. Senza contare che — su imposizione dell’Unione europea e sull’onda della propaganda anti-dipendente pubblico — all’introduzione del sistema di valutazione è seguita una stagione ancor più dura di tagli al personale e alle risorse della pubblica amministrazione. Stagione che tuttora dispiega i suoi effetti e non accenna a terminare. Rilevati questi fatti, non si può non assumere che aumentando il carico di lavoro di una organizzazione a fronte di una riduzione delle risorse disponibili e dei lavoratori impiegati, l’elevazione degli standard qualitativi risulterà ben difficile, anzi, sembrerebbe ben più probabile un peggioramento degli standard qualitativi.
L’insufficienza degli organici e delle risorse viene ben prima di qualsivoglia stimolo individuale. Per quanto possa essere spronato e stimolato alla competitività e a dare il massimo (su questi aspetti sociali torneremo, analizzandoli, in seguito), un singolo lavoratore non potrà mai sopperire a carenze strutturali e l’introduzione di uno strumento che comporta maggiori oneri — la gestione di ulteriori attività lavorative che il ciclo di valutazione della performance necessariamente richiede per poter essere realizzato — non potrà di certo elevare gli standard qualitativi di un’organizzazione.
Non ci soffermeremo su tutti gli aspetti tecnici e giuridici del sistema di valutazione della performance che, aldilà dell’analisi e del giudizio che se ne può dare, perdono efficacia nel momento in cui nascono inidonei a perseguire le proprie finalità per i motivi di cui sopra, a meno che non ci siano, come spesso accade, altre finalità, difficili da esplicitare perché impopolari, figlie di specifiche ideologie ad oggi purtroppo imperanti in ogni ambiente politico e istituzionale. Proveremo a cogliere tali finalità sottese ad alcuni aspetti del sistema di valutazione o, se vogliamo assumere la buona fede e l’assenza di ideologia del legislatore, gli effetti che casualmente ha prodotto, ben distanti dalle finalità esplicitate dalla disciplina in esame.
Innanzitutto, è d’uopo constatare la gerarchizzazione del sistema di valutazione.
In cima alla piramide sono situati (a livello centrale) il Dipartimento della funzione pubblica che indirizza e coordina e (a livello decentrato) gli organismi indipendenti di valutazione della performance (OIV) che, tra una serie di funzioni, hanno il potere di esprimere pareri vincolanti sul sistema di valutazione, svolgere la valutazione su ciascuna struttura organizzativa nonché proporre all’organo di governo la valutazione dei dirigenti.
Ogni p.a. è tenuta a dotarsi di un OIV, ovviamente “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica” (art. 14 c.1). Ciò significa che ogni p.a. ha dovuto reperire all’interno della propria organizzazione delle persone deputate a tale ruolo o comunque destinare risorse proprie a tal fine.
I dirigenti a loro volta svolgono la valutazione del personale non dirigenziale, cioè dei lavoratori dipendenti.
In secondo luogo, è opportuno segnalare che dal sistema di valutazione dipendono le progressioni verticali e orizzontali, le premialità economiche dei dirigenti, l’attribuzione di incarichi e responsabilità e qualche briciola in più o in meno ai dipendenti in base alla loro collocazione nella fascia di merito alta, intermedia o bassa (artt. 20-25). Roba non da poco all’interno di un ambito lavorativo come quello del pubblico impiego in cui le retribuzioni stagnano, il contratto collettivo spesso fatica a giungere al rinnovo in tempi soddisfacenti e con aumenti salariali totalmente vincolati allo stanziamento di fondi da parte del Governo, quindi, negli ultimi decenni pressoché nulli. Questo aspetto assume ancora più importanza nel momento in cui il Governo ha dato indicazione all’ARAN (l’agenzia che si occupa di contrattare i ccnl del pubblico impiego) di vincolare gli aumenti salariali ai risultati e al merito, tradotto, alle risultanze del sistema di valutazione della performance.
Tale verticalizzazione nel sistema di valutazione non fa che dotare i soggetti valutatori (OIV nei confronti dei dirigenti e quest’ultimi nei confronti dei lavoratori) di un potere di controllo rispetto alle persone soggette alle proprie valutazioni che esula dal semplice potere gerarchico organizzativo necessario all’ espletamento delle proprie responsabilità e funzioni rischiando di sfociare nella capacità e facoltà di esercitare un vero e proprio favoritismo clientelare.
La normativa in oggetto costituisce l’applicazione pratica nella p.a. dell’idea neoliberale di esaltazione della competitività, secondo la quale la promozione di una forte competizione tra individui sarebbe uno straordinario vettore di elevazione sociale, culturale e professionale. Questa idea, ormai radicata nelle società occidentali e accompagnata alla narrazione del dipendente pubblico fannullone, si presta facilmente a fungere da soluzione ad un problema strutturale di inefficienza dovuto a carenze di personale e risorse della p.a. e abilmente scaricato sulle spalle del dipendente pubblico in quanto individuo isolato, inetto e fannullone. Questo espediente consente di deresponsabilizzare chi ha preso scelte politiche orientate al taglio delle risorse e del personale delle p.a. agli occhi dell’opinione pubblica.
In un contesto di oggettive carenze strutturali di risorse, la frustrazione e il sentimento di impotenza non può che prevalere sulla voglia di dare il meglio di sé. Inoltre, occorrerebbe precisare che molto spesso, piuttosto che dallo stimolo alla competizione, i lavoratori sono spinti a dare il meglio di sé dal senso del dovere rispetto alla propria funzione pubblica e dal sentimento di appartenenza ad un ambiente lavorativo unito che agisce in condizioni idonee ad assolvere i propri compiti.
Invero, nel contesto economico-contrattuale del pubblico impiego e in una società sempre più individualistica, la prospettiva di ottenere qualche briciola di salario in più a seguito di valutazioni migliori rispetto ai colleghi non può che produrre disgregazione tra i lavoratori e maggiore soggezione nei confronti del valutatore (il dirigente, nel caso dei lavoratori dipendenti). Due effetti concretissimi, assolutamente non ipotetici, che “casualmente” minano fortemente il potere contrattuale dei lavoratori che esiste, e storicamente è esistito, solo quando i lavoratori hanno saputo solidarizzare fra loro, unirsi e rivendicare all’unisono determinati diritti.
In conclusione, a ormai quindici anni di distanza dall’entrata in vigore del sistema di valutazione, si può affermare serenamente che tale sistema sicuramente non è servito a — o quantomeno non ha prodotto l’effetto di — elevare gli standard qualitativi delle pubbliche amministrazioni che continuano a peggiorare. Ma se uno strumento legislativo in quindici anni non raggiunge neanche lontanamente i principali obiettivi esplicitati dalla stessa normativa e neppure inizia a intraprendere la strada di un miglioramento verso quegli stessi obiettivi comportando al tempo stesso maggiori sforzi per le p.a. tenute ad attuarlo, che senso ha mantenerlo? Perché non si analizzano gli effetti che esso ha realmente prodotto e non si esprime un giudizio trasparente su di essi? Potremmo forse scoprire che i reali effetti prodotti erano quelli desiderati? Purtroppo, sarà difficile avere una risposta inequivoca a queste domande dalle istituzioni nel momento in cui tuttora si avvalgono di tale strumento. L’intenzione, ormai vero e proprio indirizzo politico, di potenziarlo e legarlo indissolubilmente al tanto necessario e sempre più richiesto aumento salariale è la prova che questo sistema, per il governo, è preferibile ad un sacrosanto e generalizzato aumento della paga base, nonostante nei fatti non abbia prodotto il miglioramento dell’efficienza della p.a. Come mai? Forse perché i lavoratori sono più facili da gestire se messi in competizione? Forse perché così il governo, attraverso il dipartimento della funzione pubblica, è agevolato nel premiare gli obbedienti e penalizzare i dissidenti? Perché si è così soddisfatti e orgogliosi del sistema di valutazione della performance tanto che lo si vuole ampliare e potenziare? Tutte domande più che lecite per le quali, purtroppo, al momento è possibile solo ipotizzare delle risposte, mentre è certo e rilevabile il totale fallimento rispetto all’obiettivo che si dichiarava voler raggiungere e l’indebolimento — attraverso la disgregazione dei lavoratori che esso produce e la sua funzione di paravento governativo rispetto alle rivendicazioni salariali — della forza contrattuale dei lavoratori.
È altresì certo che finché i lavoratori del pubblico impiego non prenderanno coscienza della nocività di questo strumento per i loro interessi di classe, il Governo avrà gioco facile nel subordinare ogni rivendicazione alle risultanze del sistema di valutazione attraverso il quale selezionare lavoratori di serie A che meriteranno, forse, il pieno riconoscimento di una rivendicazione e lavoratori di serie B e C che lo meriteranno meno o non lo meriteranno affatto.
È nell’interesse di qualsiasi lavoratore del pubblico impiego rifiutare la logica del sistema di valutazione della performance (soprattutto alla luce dell’attuale utilizzo che se ne vuole fare in sede di contrattazione collettiva) e chiederne la totale abrogazione il più presto possibile.
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