La questione della retribuzione è uno degli elementi più evidenti. Gli stipendi degli infermieri italiani sono in media più bassi del 23% rispetto a quelli dei loro colleghi nei paesi Ocse. Ma non è solo un tema di denaro. Un giovane che finisce in tempo il percorso di studi universitario inizia a lavorare a 22 anni, dopo la laurea triennale. Andrà in pensione 40 anni dopo e davanti a sé vede una carriera piatta, con poca possibilità di crescita, sia di posizione che di salario. Lavorerà per quattro decenni pressoché sempre nello stesso modo, con lo stesso stipendio e con poche possibilità di specializzarsi. “Dopo la laurea triennale molto spesso i nostri infermieri fanno master di primo o di secondo livello, lauree magistrali. Ma il Ssn li usa ancora come trent’anni fa”, commenta la presidente. “Nonostante nel frattempo sia cambiato il mondo e il bisogno dei cittadini, non sono stati rivisti i modelli organizzativi”.
E poi c’è il tema della fuga all’estero. Secondo la Federazione, la carenza di personale infermieristico non è un problema solo italiano, ma di quasi tutti i paesi sviluppati. Poiché la qualità della formazione è eccellente, i professionisti italiani sono molto competitivi. Così, i neolaureati guardano sempre più spesso al di là dei confini nazionali, ad altri paesi dove la loro figura viene valorizzata e dove vengono apprezzate le competenze specialistiche acquisite. “Abbiamo 30mila infermieri italiani che lavorano all’estero – dichiara Mangiacavalli -. Questi sono costati allo stato un miliardo di euro per la loro formazione. Li abbiamo regalati agli altri paesi”.
Quei 30mila professionisti emigrati avrebbero fatto molto comodo a un Ssn che versa in una grave carenza di personale. Secondo i dati diffusi dalla Corte dei Conti, infatti, in Italia mancano 65mila infermieri. A questi ne vanno poi aggiunti altri 20mila. Quelli che, in base al Pnrr, servirebbero per coprire le richieste della medicina territoriale: per evitare che con i soldi dell’Unione Europea possano essere costruite delle ottime strutture, ma che nessuno possa andarci a lavorare. “Ma questi numeri non sono esaustivi – precisa la presidente Fnopi -, ed è un tema che facciamo fatica a mettere a fuoco: mancano migliaia di infermieri anche al sistema socioassistenziale, per esempio nelle rsa o nelle strutture residenziali, dove ci sono i nostri cittadini più fragili”.
Senza contare la “gobba pensionistica” a cui stiamo andando incontro. Secondo la Federazione, se a oggi mediamente vanno in pensione tra i 10 e i 12mila infermieri ogni anno, fra una decina d’anni queste cifre raddoppieranno. Un’altra conseguenza della crisi demografica: oltre ad avere una popolazione sempre più in là con gli anni e necessitante di cure e assistenza, l’Italia ha una classe lavoratrice anziana, prossima a uscire dal mercato del lavoro. E la bassa natalità non garantisce un adeguato turnover. “Mediamente si laureano circa 10mila infermieri l’anno. Con questi numeri non andiamo a colmare neanche le uscite fisiologiche dall sistema”, continua la presidente. Per Fnopi, è necessaria una revisione dei criteri di accesso ai corsi di laurea triennali che preveda un test di ammissione separato e autonomo, con nuove modalità. Oltre a questo chiedono il finanziamento di lauree magistrali abilitanti a indirizzo clinico, per avere infermieri specialisti in grado di gestire una filiera assistenziale composta da più professionisti, con livelli di competenze diversificati, per rispondere ai bisogni sempre più complessi della popolazione.
Riguardo alle modalità di ammissione ai corsi di laurea, è più netta la posizione dei sindacati. Secondo Barbara Francavilla, della segreteria nazionale di Funzione Pubblica Cgil (Fp Cgil), è necessario eliminare il numero chiuso. “Riduce le possibilità che abbiamo di aumentare il personale – dichiara a ilfattoquotidiano,it -. Quest’anno terremo fuori circa 3mila persone che avrebbero voluto fare questo lavoro. L’anno scorso erano 6mila”. Secondo le analisi del sindacato, dei giovani che superano il test ed entrano nel corso, riesce a laurearsi il 75%. Di questa percentuale, Fp Cgil stima che, tra chi va all’estero e chi entra nel privato, sono solo 7mila gli infermieri disponibili a lavorare nel servizio pubblico per ogni triennio. Una cifra molto distante da quella necessaria. “Bisognerebbe iniziare a riconoscere le competenze avanzate della professione, sia tramite gli incarichi che tramite il salario – continua Francavilla -. Aspettiamo di capire se nella Legge di Bilancio ci saranno i soldi per un cambio di rotta”.
Ma il gap da recuperare è molto ampio. Secondo il rapporto redatto dalla Fondazione Gimbe in vista della discussione della Manovra 2024, alla sanità pubblica del nostro Paese mancano 47 miliardi di euro. L’Italia è soltanto sedicesima tra i 27 Paesi europei dell’Ocse per spesa sanitaria pro-capite, e fanalino di coda nel G7. “Stiamo perdendo uno dei nostri diritti fondamentali – commenta Francavilla -. Addirittura in alcune regioni abbiamo i pronto soccorso a pagamento. Stiamo snaturando il principio del nostro bellissimo Ssn, ed è molto pericoloso”.
Di fronte alla “lunga stagione assistenziale” che attende l’Italia, esiste la prospettiva concreta e reale di non riuscire a garantire la salute a tutti. Uno scenario che comporta perdite sociali, ma anche economiche: “ Serve un intervento deciso e non più rinviabile delle istituzioni” conclude la presidente Fnopi, Mangiacavalli, lanciando un appello alla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni: ”Dobbiamo iniziare un ragionamento strutturato e di prospettiva. Le soluzioni tampone, come quelle a cui sta pensando il ministro della Salute, Orazio Schillaci, vanno bene, ma servono decisioni che possano impegnarci nel medio-lungo periodo. È un tema fondamentale per il Paese”.
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