Tornano a crescere i fallimenti delle imprese italiane: persi 81.000 posti di lavoro
da L’INDIPENDENTE (Giorgia Audiello)
Dopo un anno e mezzo di decrescita, nel secondo trimestre del 2023 sono tornati ad aumentare i fallimenti delle imprese italiane, insieme alle liquidazioni volontarie che hanno registrato un’impennata: il tasso di fallimenti è aumentato dell’1,5% rispetto allo stesso trimestre del 2022 mentre le liquidazioni volontarie sono aumentate del 26,1%. È quanto emerge da un rapporto del Gruppo Cerved, specializzato nella raccolta dati delle imprese e in studi di settore. Complessivamente, nel secondo trimestre dell’anno in corso sono stati registrati 2.070 fallimenti (contro i 2.039 dello stesso periodo del 2022), mentre le liquidazioni volontarie sono state 10.446 (contro le 8.282 del 2022). In particolare, ad essere colpite sono state soprattutto le piccole e medie imprese che hanno dovuto affrontare crisi di liquidità con il conseguente allungamento dei tempi di pagamento verso i fornitori. Le conseguenze più immediate di questo scenario sono state la perdita di 81.000 posti di lavoro e di un miliardo di euro di valore aggiunto.
I maggiori fallimenti si registrano per le ditte individuali, mentre le società di capitali hanno contribuito a un lieve aumento pari nel complesso allo 0,3%: tra le seconde, la tendenza è trainata dalle imprese che fatturano tra i 2 e i 10 milioni di euro l’anno, le quali hanno registrato un tasso di fallimento pari al 44% rispetto al 30% di quelle che fatturano più di 10 milioni. I comparti più colpiti sono l’industria (+ 5,2%) e i servizi (+1%): in particolare prodotti da forno, alberghi e l’ingrosso costruzioni, che già nel 2022 avevano registrato livelli elevati di indebitamento e un peggioramento delle abitudini di pagamento. A livello della distribuzione regionale, rispetto al secondo trimestre del 2022 si registra un aumento dei fallimenti al nord-est e al centro e, di contro, una diminuzione nel nord-ovest e al sud che segnano rispettivamente un – 4% e un -7,1%.
Si tratta di una situazione che sconta le ultime politiche economiche e monetarie europee e le congiunture internazionali degli ultimi tre anni: dopo una lieve ripresa dalle chiusure pandemiche, infatti, l’impennata dei prezzi energetici e delle materie prime – dovuta in gran parte alla speculazione e all’interruzione delle relazioni commerciali con la Russia – ha generato inflazione e ridotto la domanda interna, determinando un rallentamento generale dell’economia aggravata anche da un calo del settore edilizio e manifatturiero italiano. Sempre nel secondo trimestre di quest’anno, infatti, si è registrato una decrescita più alta del previsto in questi settori. A peggiorare definitivamente una situazione già di per sé difficile è stato poi il rialzo dei tassi della BCE e della maggior parte delle banche centrali mondiali: se, da un lato, l’aumento del costo del denaro, ha contribuito in maniera minima ad abbassare l’inflazione, dall’altro, ha distrutto una domanda già debole, creando le condizioni per una possibile recessione dell’eurozona. A spingere in questa direzione è anche la tendenza economica di quella che fino a poco tempo fa era considerato il motore dell’economia europea, vale a dire la Germania che è già entrata in recessione tecnica.
La notizia di un aumento di fallimenti tra le imprese italiane, dunque, si pone in continuità con un quadro economico europeo dalle tinte già fosche: non sarebbe, infatti, un unicum in Europa. Già lo scorso agosto, l’Ufficio statistico dell’Unione Europea aveva segnalato che “nel secondo trimestre del 2023 le dichiarazioni di fallimento nell’Unione hanno raggiunto il livello più alto dal 2015, anno di inizio della raccolta dati”. I settori più colpiti risultano essere quelli della ristorazione e del turismo, ma nessun comparto è stato risparmiato: dal commercio all’ingrosso all’industria, dall’edilizia alle comunicazioni. Rispetto al 2019 l’aumento nelle dichiarazioni di fallimento ha segnato un +82,5%. I recenti dati sui fallimenti delle imprese italiane rappresentano quindi solo un tassello di un mosaico più ampio rappresentato dall’UE nel suo complesso. Tra le cause più importanti, oltre alle politiche monetarie restrittive della BCE, vi sono decisioni in materia di relazioni commerciali e diplomatiche spesso in contrasto con gli interessi del Vecchio continente, dettate dal sistema di alleanze internazionali in cui è inserita l’UE. A pagarne le spese sono più o meno tutti gli Stati europei e l’Italia in particolare, in quanto strettamente dipendente dall’economia tedesca. Il varo di una legge di bilancio improntata all’austerità – come quella che si appresta a preparare il governo Meloni – unitamente al rallentamento economico generale già in atto, non lascia intravedere buone prospettive per l’economia del Belpaese. Ad essere più a rischio sono proprio le piccole e medie imprese, ossia la vera e propria struttura portante del sistema produttivo italiano, da sempre nel mirino delle strategie internazionali per erodere il vantaggio competitivo della Penisola.
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