Guerra Israele-Hamas: a che punto siamo
DA CeSI | CENTRO STUDI INTERNAZIONALI (Di Giuseppe Dentice)
A poco più di un mese da quel 10 ottobre, inizio delle operazione israeliana “Spade di ferro” verso la Striscia di Gaza – sorta, a sua volta, come risposta all’offensiva militare “Alluvione di al-Aqsa” (7 ottobre) condotta da Hamas e dai suoi alleati del Jihad Islamico Palestinese (JIP) attraverso azioni complesse di area, terra e mare contro Israele – è possibile fare un primo bilancio di quanto accaduto e provare a individuare uno o più scenari plausibili che si potrebbero verificare nel breve-medio periodo.
Dal punto di vista cinetico-militare, la guerra racconta un alto numero di vittime da ambo i lati (oltre 12.000 quelle accertate al 15 novembre, soprattutto tra i civili). La controffensiva lanciata da Tel Aviv in più fasi sulla Striscia di Gaza, ha visto le Forze di Difesa Israeliane (IDF) capaci di conquistare la zona di sicurezza individuata nell’area centro-settentrionale della Striscia (le aree che vanno da Beit Hanun sino al Wadi Gaza). Tale conquista, almeno stando alle dichiarazioni del Premier Benjamin Netanyahu, avrà come obiettivo finale lo sradicamento della compagine di Hamas al potere nella Striscia e un possibile scenario di rioccupazione del territorio unilateralmente lasciato da Israele nel 2005. Tuttavia, è plausibile ipotizzare che le attività non si fermeranno a questa fascia, ma potrebbero condurre ancora più a Sud andando a penetrare le aree strategiche di Khan Younis . Questo è un teatro cardine sotto più aspetti. In primo luogo, è l’area natia di buona parte della gerarchia politico-militare di Hamas e delle Brigate Izzedin al-Qassam (tra cui i fratelli al-Sinwar e Mohammed Deif), attori fondamentali in grado di definire le sorti del conflitto e di godere di una vasta rete di collegamenti e protezioni locali e transfrontaliere (anche verso il Nord del Sinai). In secondo luogo, il controllo di Khan Younis, congiuntamente all’occupazione della zona del porto di Gaza, sarebbe da un punto di vista logistico funzionale a Israele anche per intercettare e distruggere le linee di rifornimenti e materiali che passa attraverso i tunnel che collegano questi territori con il confine egiziano e che fino ad ora hanno garantito una certa tenuta di Hamas nella difesa del territorio. Infine, quindi, sempre nella prospettiva israeliana, una penetrazione ancora più a Sud sarebbe fondamentale per garantire l’ accerchiamento e l’isolamento completo della Striscia anche dal valico di Rafah , unico checkpoint funzionante e aperto per garantire l’afflusso di beni e viveri da e verso il territorio e in grado di attenuare la già disastrosa situazione umanitaria vigente.
Pertanto, questi elementi risultano essere quanto mai cruciali perché aprono una riflessione profonda sia sulla gestione politico-militare e di sicurezza dello scenario in questione – tanto in una prospettiva presente quanto futura –, sia sulla condizione dei civili gazawi spinti a lasciare i territori settentrionali della Striscia per rilocalizzarsi, inizialmente, a Sud verso i centri maggiori di Rafah e Khan Younis, e, infine, per essere spinti a giungere nel Sinai egiziano.
Per quel che riguarda il primo punto, è interessante notare come il governo israeliano abbia sin dai primi giorni tentato di far passare l’idea di una rioccupazione della Striscia di Gaza , in maniera blanda e poco articolata, benché non siano ancora chiari termini e modalità. Si punta a occuparla in toto o solo parzialmente? Si mira a gestire l’area facendosi carico di tutto e garanti del crisis management successivo al conflitto o si cercherà di passare in un secondo momento non ben identificato questa fase ad un attore arabo (Lega Araba e/o Autorità Nazionale Palestinese) e/o internazionale (Nazioni Unite con il supporto di un cappello arabo-sunnita guidato da Egitto, Giordania e monarchie del Golfo)? Sono tutte domande lecite e necessarie per comprendere il grado di complessità della situazione, ma soprattutto per far emergere anche le contraddizioni e le difficoltà emerse sui diversi piani decisionali israeliani. Infatti, una rioccupazione con i boots on the ground della Striscia di Gaza sconfesserebbe in primis la dottrina dell’allora Premier Ariel Sharon, che portò, dopo un lungo e tortuoso travaglio nel dibattito politico israeliano, ad assumere la decisione del disengagement unilaterale da Gaza (2005). Contestualmente, una ripresa dei territori potrebbe avere degli impatti di non poco conto da più punti di vista (economico, umano, politico, militare e securitario in senso ampio), anche per una realtà strutturata e forte come Israele. Una ricostruzione dell’intera area o anche di una sua parte comporterebbe uno sforzo notevole, a cui dovrebbe associarsi anche un tentativo di ripopolamento da parte israeliana, con piani dell’intelligence non confermati dal governo che prevederebbero un ripopolamento dell’area con nuove città, villaggi e (ri)afflusso di colonie.
Se, quindi, questa scelta dell’esecutivo Netanyahu risponde a chiare esigenze di natura squisitamente domestica, è altresì evidente che tale situazione comporterebbe una riflessione altrettanto profonda sulla natura e lo status da attribuire a nuovi “residenti” israeliani, nonché ai gazawi spinti ad abbandonare le aree Nord della Striscia per sfollare verso Sud e – in taluni casi – ad andare oltre il valico di Rafah per raggiungere la Penisola del Sinai in territorio egiziano. Si tratterebbe, quindi, di nuovi profughi o rifugiati? Avrebbero uno status temporaneo o permanente? Chi è uscito da Gaza rimarrà per sempre in Egitto o avrà la possibilità di tornare nella Striscia? Anche queste domande sono necessarie per dar forma alle speculazioni giornalistiche emerse dai documenti di intelligence loro pervenuti, che prevederebbero la creazione di safe zone – in prospettiva – definitive nel Nord del Sinai. Presumibilmente, si tratterebbe di una sorta di ampliamento della “Zona D” della Penisola, ossia il corridoio/zona cuscinetto lungo la frontiera egiziano-israeliana , anche nota come Philadelphi Route. Questa porzione di territorio è importante in quanto, dal settembre 2005, a seguito del Piano di disimpegno unilaterale israeliano, le IDF hanno consegnato il controllo della zona all’Esercito egiziano, che è responsabile per la sicurezza, la gestione e la lotta allo smuggling e a tutte le attività illegali sul confine.
Se venisse confermata, si tratterebbe di un’azione dal grande impatto politico, in un certo senso imposta al governo del Cairo da una pressione internazionale congiunta portata avanti dai governi arabi (per lo più del Golfo) e USA. Tale situazione, oltre a mutare in profondità la natura e lo status quo stesso degli Accordi di Camp David e del Trattato di Pace egiziano-israeliano del 1978-1979 – con potenziali ripercussioni non solo su il Cairo e Tel Aviv, ma anche sul coinvolgimento degli altri Stati littorali del Mar Rosso come Arabia Saudita e Giordania e il necessario beneplacito di Washington, garante delle storiche intese –, avrebbe un impatto non di poco conto sul tessuto socio-nazionale di un Paese in ebollizione e tradizionalmente filo-palestinese (nelle sue compagini sociali e nella stanca retorica delle leadership più che nelle volontà politiche di quest’ultime) come per l’appunto l’Egitto.
Sebbene gli Stati Uniti abbiano più volte smentito le parole di Netanyahu sulla rioccupazione militare della Striscia, il tema rimane tuttavia presente nelle agende di tutte le cancellerie internazionali, in quanto l’azione militare israeliana comporterà comunque un cambio di scenario dentro Gaza e, in ogni caso, qualcuno dovrà occuparsene o assumersi l’onere della gestione del dossier. Se l’obiettivo di Washington è di evitare l’allargamento del conflitto all’intera regione, è altrettanto vero che non può non considerare che il peso umanitario di Gaza e della sua popolazione ricadrà inevitabilmente sulla comunità araba. E proprio su questo punto sarà necessario riflettere attentamente in termini di ricadute anche da un punto di vista politico, soprattutto considerando le difficoltà sopraccennate da parte di alcuni attori cardine della regione.
Se il Cairo è direttamente tirato in ballo per via dei riflessi multidimensionali già menzionati sul Sinai e il rispetto di clausole vincolanti legate ai trattati internazionali, una menzione particolare merita però la Giordania e il suo ruolo nella crisi attuale. Seppur non direttamente coinvolto nella dinamica di Gaza, Amman è storicamente un attore fondamentale nella dinamica arabo-israelo-palestinese , non fosse altro per il suo ruolo di protettore dei luoghi sacri dell’Islam per ciò che riguarda la Spianata delle Moschee a Gerusalemme. Nella prospettiva giordana, il timore maggiore riguarda la possibile saldatura delle violenze di Gaza con quelle in corso in Cisgiordania, percependo nell’escalation della prima un problema di non facile risoluzione della seconda. In altre parole, la Giordania valuta la guerra a Gaza in termini esistenziali.
Negli ultimi anni, infatti, abbiamo visto quanto il suo ruolo è stato strumentalmente indebolito da Israele, con ripercussioni dirette anche sul resto della Cisgiordania. Oggi, proprio quest’area si mostra come il teatro più pericoloso e prossimo ad essere attivato in quanto ha la capacità di divenire una sorta di miccia per gli altri ad essa collegati, come le città miste del Nord di Israele e il mai domo confine siro-libanese. Ad essere attenzionata sono soprattutto le aree tra Tulkarem, Nablus e Jenin (senza però, dimenticare Gerico ed Hebron, sempre pronte ad incendiarsi e a vivere dinamiche anche a sé stanti), che hanno conosciuto dal maggio 2021 una importante recrudescenza di violenze fomentate sia dalle divisioni intra-palestinesi sia dall’agire dei coloni ebraici. Le infiltrazioni degli agenti di Hamas e/o del JIP in quei territori, dove sono operative anche sigle e milizie armate egualmente pericolose e non ufficialmente affiliate a nessuna sigla palestinese (come le più note “Fossa dei Leoni” o “Brigate Nablus”), hanno contribuito a rendere l’area un epicentro fondamentale per comprendere possibili spillover delle violenze dentro e fuori la Cisgiordania, con impatti diretti su Israele e Giordania.
Una condizione che però rischia di aggravarsi qualora le frange più estreme dei coloni ebraici – anche sotto la spinta interessata delle fazioni politiche che fanno capo agli ex Ministri Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich – portassero avanti azioni terroristiche anche su fondamenti ideologici che richiamano alla “Nakba” (“catastrofe”, in riferimento ai fatti della prima guerra arabo-israelo-palestinese del 1948), con il chiaro intento di provocare un allontanamento forzoso dei palestinesi che abitano quelle terre. Una situazione che le stesse Forze Armate e i Servizi di Intelligence israeliani vorrebbero scongiurare, ma che non riescono a gestire a causa delle molteplici interferenze dei coloni in Cisgiordania. Proprio questi territori potrebbero divenire un acceleratore per aprire un secondo fianco interno ad Israele , quello delle città miste arabo-israeliane come Lod, Haifa, Netanya, Acri o Ramla, senza dimenticare l’importanza simbolica di Gerusalemme, che innescherebbe una fase acuta di scontri sulla falsa riga della stagione delle violenze dell’aprile-maggio 2021. In quella fase – in parte ravvisabile anche oggi –, la sollevazione di parte della popolazione arabo-israeliana dentro i confini dello Stato e le forti tensioni registrate a Gerusalemme Est e in Cisgiordania portarono a parlare della possibilità di una guerra civile.
In tutto questo caos dilagante, la Giordania si troverebbe a gestire una “bomba” umanitaria inaccettabile , dal loro punto di vista, per almeno due motivi. Infatti, come nel caso egiziano, a risultare sgradevole per Amman sarebbe l’impatto demografico sulla sua già fragile tenuta sociale di un possibile afflusso di nuovi profughi e/o rifugiati palestinesi, che acuirebbe una sproporzione già nota tra giordani e transgiordani, ossia i palestinesi e i loro discendenti residenti nel Paese dal 1948. Altresì, questo elemento, per la casa hashemita, sarebbe un’imposizione mai accettabile da un punto di vista più identitario che ideologico rispetto al tema del non ritorno della diaspora palestinese nella regione.
Ecco, dunque, che la guerra a Gaza non rappresenta una questione meramente confinata alla dinamica Israele-Hamas, ma coinvolge più dimensioni, parallele di un medesimo aspetto. Le sorti di Gaza sono intrinsecamente collegate con quanto sta andando in scena a Jenin e negli altri punti caldi della Cisgiordania. Pertanto, se allo stato attuale l’attenzione della comunità regionale e internazionale è impedire che l’allargamento produca un caos generalizzato, è altresì vero che nessuno potrà far finta che il precipitare delle tensioni nei Territori Occupati Palestinesi possa ritenersi un affare soltanto israeliano, come avvenuto in passato.
FONTE:https://www.cesi-italia.org/it/articoli/guerra-israele-hamas-a-che-punto-siamo
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