Taysir Batniji: fotografare Gaza
di DOPPIOZERO (Gigliola Foschi)
“Pace, speriamo nella pace, forse sì ritroveremo la pace con i palestinesi”, mi ero sentita ripetere come una sorta di ritornello da tutti gli israeliani che avevo incontrato anni fa nel mio viaggio tra Gerusalemme e l’Alta Galilea. All’epoca era primo ministro Yitzhak Rabin (1992-1995) e molti speravano che si fosse aperto davvero uno spiraglio per una decisiva pacificazione. In quello stesso, ormai lontano periodo, il grande scrittore e intellettuale Edward W. Said (Gerusalemme 1935 – New York 2003), già gravemente ammalato, torna nella sua Terra natale, seguendo il filo dei ricordi d’infanzia. Poi raggiunge Gaza e la descrive così: «Nulla di ciò che ho visto in Sudafrica, può essere paragonato a Gaza dal punto di vista della miseria, dell’oppressione pianificata, della segregazione e della discriminazione razziale (…) Si entra nella striscia di Gaza passando per quello che di fatto è un grande cancello, chiuso di notte, che conferisce al luogo l’aspetto di un enorme campo di concentramento» (Tra guerra e pace. Ritorno in Palestina-Israele, 1994). Lui laggiù non si sente ripetere la parola “pace”, ma continuamente mawat bati, “morte lenta”. E ora che questa “morte lenta” si è trasformata in una morte accelerata, non entro nel merito del conflitto tra Israele e Hamas: ci sono troppe polemiche e accuse, troppe divisioni tra chi pensa che la ragione e il dolore si trovino tutte solo da una parte, mai dall’altra, e viceversa. Mi limito ai fatti: il 7 ottobre 2023, con l’operazione “alluvione Al Aqsā”, Hamas ha stuprato moltissime donne, ucciso circa un migliaio d’israeliani e ne ha rapiti 250. Israele ha vissuto uno choc profondo, ha risposto bombardando pesantemente Gaza e compiuto ripetuti massacri di civili palestinesi. Ora la situazione degli abitanti di Gaza, come riportano tutti i media, è semplicemente disperata: gli aiuti umanitari sono insufficienti, fatti passare a stento tra mille controlli al valico di Rafah, manca il cibo, manca l’acqua, mancano le medicine, le strutture sanitarie sono al collasso e non ci sono le possibilità per curare migliaia di feriti anche gravissimi. Come possiamo contribuire ad aiutare gli ammalati, i bambini denutriti, gli affamati? Forse ognuno di noi è pressoché impotente, ma anche la più piccola donazione può essere utile.
Adesso un piccolo e prezioso libro d’artista è stato pubblicato proprio per offrire aiuto al Medical Aid for Palestinians e ogni euro per il suo acquisto sarà devoluto direttamente a tale ONG. Il libro presenta la serie d’immagini del progetto Disruptions, realizzato tra il 2015 e il 2017, quando la situazione di Gaza era ancora “normale”, ed è accompagnato da brevi testi in francese, arabo e inglese. Si può acquistare dal sito della casa editrice Loose Joints (Disruptions, Marsiglia, 2024, pp.128, € 40), specializzata in fotografia contemporanea. L’autore è Taysir Batniji (Gaza, 1966, residente a Parigi), uno dei più significativi artisti della ormai numerosa e diffusa diaspora palestinese: ha esposto le sue opere alla biennale di Venezia, allo Jeu de Paume di Parigi, al Martin-Gropius-Bau di Berlino, alla Kunsthalle di Vienna; mentre ai Rencontres d’Arles del 2018 si era fatto notare con la sua ricerca fotografica e video Home Away from Home, dedicata ai cugini emigrati negli Stati Uniti. Artista versatile, il cui lavoro comprende fotografia, video, disegni, installazioni e performance, le sue opere si sono spesso concentrate sul tema dell’esilio, sul fatto di vivere tra due culture, il tutto con un approccio mai ideologico, ma poetico e al tempo stesso politico, capace di coniugare sfera privata e universo pubblico, ragione e sentimento. Per me è come se in molte sue opere ritrovassi quella dignità e quel dolore, mai enfatizzato, che era proprio anche di Edward Said. Un autore, quest’ultimo, che, con il suo libro autobiografico Sempre nel posto sbagliato, fa immergere il lettore nella condizione di chi non riesce a sentirsi fino in fondo a casa in nessun luogo. Said era nato a Gerusalemme, era arabo ma cristiano, palestinese ma poi con un passaporto americano, con un nome inglese e un cognome tipicamente arabo. Taysir invece, con nome e cognome indubbiamente arabi, eppure dotato di passaporto francese, ha vissuto e continua di fatto a vivere una condizione di esilio pesante, date le difficoltà enormi e le continue incertezze del passaggio di frontiera tra l’Egitto e Gaza; mentre l’ingresso a Gaza via Israele risulta e risultava per lui totalmente escluso.
A testimonianza di tale situazione, già con lo slide show Transit (2004) Taysir aveva raccontato la sua stessa umiliante esperienza di esiliato che cerca di tornare a Gaza per rivedere l’amata madre Amina e i famigliari. Il suo percorso parte dall’aeroporto del Cairo per raggiungere l’unico valico in teoria percorribile, quello di Rafah. Le immagini di Taysir, scattate di nascosto e intervallate da scatti totalmente neri a indicare l’impedimento a fotografare liberamente, mostrano decine di palestinesi mentre dormono esausti su informi divani, nei sotterranei dell’aeroporto dove gli egiziani li tengono confinati e controllati. Poi vediamo un autobus che li porta al confine di Gaza, dove attendono di nuovo per un tempo infinto ma questa volta sotto il sole, tra cumuli di valigie e spazzatura. Arriva la notte e i viaggiatori stremati sono ancora lì, dormono sulla nuda terra, infine si affollano in un capannone in attesa di passare il confine. Attualmente neanche dal valico di Rafah può più entrare nessuno a Gaza (a parte pochi camion di aiuti o personale addetto), ma all’epoca (era il 2004) le forze israeliane limitavano il numero d’ingressi giornalieri adottando criteri imperscrutabili, forse del tutto arbitrari, forse dotati di un loro senso sconosciuto. Così Taysir ci mostra i palestinesi accalcati sul lato egiziano del confine mentre attendono carichi di bagagli, aspettano nel caldo torrido delle estati egiziane, in condizioni igieniche precarie, sempre con l’ansia di non sapere quando potranno finalmente rientrare nella loro terra: basterà un giorno, o sarà tra una settimana, o magari di più ancora? Quello non è il normale passaggio di una frontiera, è un incubo, una sorta di roulette dove non si sa quando e se ci sarà un “vincitore” che avrà l’agognato diritto di attraversarla. Di tanto in tanto, il permesso agognato, l’invidiabile via libera si manifesta attraverso il lancio di qualche passaporto che un ufficiale fa volare sulle teste premute l’una contro l’altra nella calca, per atterrare tra le dita protese di pochi fortunati. Dopo Said, anche Human Rights Watch aveva definito la Striscia di Gaza una “prigione a cielo aperto” (adesso la prigione non c’è nemmeno più, dato che rimangono quasi solo rovine ), ma era una prigione alquanto “strana” dal momento che non solo era difficilissimo uscirne, ma anche farvi ritorno…
Torniamo però al libro Disruption di Taysir: in copertina s’intravede una rosa che sembra sciogliersi come un fiore da cui sono svaniti il vigore, il profumo, la sua stessa forma di rosa. L’immagine è l’ultima degli acquarelli della serie Fading Roses (2022) accompagnata dai versi del grande poeta palestinese Mahmud Darwish (al-Birwa, oggi Israele, 1941- Houston, USA, 2008): «Soffriamo di una malattia incurabile chiamata speranza (…) Spero che i nostri poeti vedano la bellezza del colore rosso nelle rose piuttosto che nel sangue». Ma dopo il 7 ottobre 2023 a Gaza sembra sparita anche la speranza, il colore rosso delle rose si è dissolto, rimane solo quello del sangue e il numero interminabile dei morti, spesso senza nome, senza un volto. Taysir dedica il suo libro alla madre Amina (1933-2017) perché tutte le immagini del libro sono il risultato dell’estenuante tentativo di vederla, via computer o cellulare da Parigi, di poterle parlare, risentire la sua voce, nonostante la lontananza. All’epoca (questo lavoro, ricordiamolo, è stato fatto tra il 2015 e il 2017) la madre era ancora viva. Ma, oggi che la madre non c’è più, Taysir pubblica questo libro per dedicarlo anche ai suoi famigliari uccisi di recente, mentre cercavano rifugio nella casa di famiglia nel quartiere di As-Shujaiya, a Gaza City, forse ignari che vicino a loro Hamas aveva costruito un tunnel sotterraneo, obiettivo delle bombe israeliane. O forse sì, del tunnel lo sapevano, ma non avevano proprio altri luoghi dove fuggire… In ogni caso, tutti sono stati massacrati nel novembre del 2023: «mia sorella Hanan (1963-2023), suo marito Abd Elrahim (1957-2023) e tutti i loro figli, mia cugina Mansoura (1949-2023), mio cugino Bakr (1962-2023), infine mio fratello Fayez (1951-2023), morto qualche giorno dopo mia sorella nonostante le cure mediche».
Ogni immagine del libro Disruption è un documento, la distaccata e oggettiva registrazione di una realtà con la quale gli risultava pressoché impossibile entrare in contatto concreto. Taysir, da Parigi cercava infatti di mettersi in relazione con la madre e i famigliari, tramite il programma video di Whatsapp. Ma la connessione era sempre estremamente difficile, la linea si manteneva ogni volta instabile, disturbata. Le sue immagini semicancellate dai pixel, poi confuse, poi totalmente negate, diventano allora la precisa testimonianza di come la comunicazione tra Gaza e l’estero fosse sempre compromessa, assiduamente precaria, simile alla vita stessa dei suoi abitanti. Queste opere, si badi bene, non ricercano volutamente l’errore dei sistemi di Google Street View o di Whatsapp come fanno invece vari artisti, che esplorano le falle della rete mentre se ne stanno comodi davanti ai loro computer di New York o di qualche altro placido paese. Qui, infatti, lungo la linea telematica fra Parigi e Gaza, non abbiamo a che fare con una tecnologia intelligente che vede, individua, mette a fuoco e interpreta, come teorizzava il filosofo francese Paul Virilio. Taysir invece è costretto ad arrancare attraverso una linea comunicativa esasperante e desolante, dove anche l’alta tecnologia informatica funziona solo a stento, oppure non funziona affatto, e impedisce ogni concreta relazione tra persone che vivono in Paesi diversi, di cui uno, Gaza, è come una fossa, un punto semicieco del mondo. Taysir non enfatizza nulla, non mette in scena la sua disperazione, mentre cerca di vedere almeno per un istante il volto della madre, sentire per almeno un momento la sua voce amata. Lui si limita a registrare ciò che vede e non vede in modo impersonale, distanziato. A volte, nelle immagini, intravediamo il volto di sua madre che appare però solo come un’ombra, poi scompare decomposta dai pixel, infine riappare debolmente, quindi si cancella. L’autore non ci mostra niente di dichiaratamente drammatico, anche là dove s’intravede a stento un condominio che pare collassare su se stesso o la stanza di un ospedale; eppure le sue fotografie generano un profondo senso di dolore, di ansia, di disagio emotivo. Sarà almeno una volta riuscito a parlare veramente con sua madre? – viene spontaneo chiedersi con ansia. Entrambi, madre e figlio, cercano di raggiungersi per esprimere il loro affetto reciproco, per scambiarsi una frase, un sorriso prima che sia troppo tardi (e la madre infatti nel 2017 morirà). Ma no, niente, whatsapp non funziona, non ce la fa, e così le sue fotografie, usate come una vera e propria traccia della realtà, possono registrare solo lo sfocato, lo scomposto, il disfatto, infine l’invisibile: testimoniano una situazione d’impossibilità. Pur così fredde in apparenza, è come se arrivassero fino a noi “caldissime” perché ci fanno sentire tutta la sua nostalgia di figlio, il suo bisogno di un rapporto agognato e irraggiungibile.
Al contempo tali immagini divengono il simbolo, altrettanto doloroso, di un mondo progressivamente distrutto, dove le persone e le cose scompaiono, questa volta inghiottite dalla guerra. «Può essere che la ricerca della fotografia per “dire la verità” si trovi non nel realismo ma nella narrazione. Il valore astratto del glitch diventa un nuovo tipo di documento: evidenzia l’instabilità che sovrasta il popolo palestinese ma anche la sopravvivenza delle immagini malgrado tutto» – scrive lo stesso Taysir, alla fine del suo libro. E questa frase finale inevitabilmente mi riporta al celebre libro di Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, dedicato alle quattro immagini strappate all’inferno di Auschwitz dai membri di un Sonderkommando. Dato il pesante clima politico legato alla guerra fra Hamas e Israele, dove i fraintendimenti e le accuse reciproche si moltiplicano inarrestabili, preciso subito che non intendo mettere sul piano di una relazione egualitaria la Shoah e la guerra di Gaza. Mi preme solo sottolineare come quest’opera di Taysir, allo stesso modo delle terribili quattro immagini di Auschwitz, esprimono un valore di verità, dove a mostrarci, a restituirci la realtà non è più il visibile, ma paradossalmente ciò che rimane invisibile. È il non visibile, infatti, che in situazioni estreme (Auschwitz, Gaza…) ci fa immaginare malgrado tutto: il non visibile è la porta nera da cui eroicamente i membri del Sonderkommando testimoniano in qualche modo, malamente, mantenendosi nascosti, la cremazione dei corpi gasati, o un brandello di cielo tra gli alberi. In simili condizioni disperate, anche l’immagine “sbagliata” e apparentemente inutile di un albero isolato, che si erge incerto tra i forni del crematorio, può farci sentire la paura, anzi il terrore che dominava ovunque, in quel luogo di morte e di programmatico sterminio.
Allo stesso modo, nella sequenza di Taysir, sono le immagini decomposte in sequenze di pixel informi – là dove non si vedono altro che stesure di colore verde o grovigli di forme deformate – a trasformarsi in apparizioni angoscianti, a produrre un effetto di esperienza lacerante attraverso la negazione del visibile. «Testimoniare significa raccontare malgrado tutto ciò che è impossibile da raccontare in alcun modo» – scrive Didi-Hubermann. Ci tengo a usare le sue parole, anche perché sono quelle di un ebreo. Come chiarisce Said: «è necessario stabilire un legame tra ciò che è accaduto agli ebrei durante la Seconda guerra mondiale e la catastrofe che ha colpito i palestinesi; ma tale connessione non può essere (…) un’argomentazione volta a demolire o sminuire il vero contenuto sia dell’Olocausto che del 1948. Nessuno dei due eventi è simile all’altro (…) Infine, né l’uno né l’altro devono venire minimizzati. C’è abbastanza sofferenza e ingiustizia per tutti». E ora più che mai.
FONTE:https://www.doppiozero.com/taysir-batniji-fotografare-gaza
Commenti recenti