Calvino e il grumo nero della guerra
di DOPPIOZERO (Alberto Volpi)
“Un passaggio tanto più stretto in quanto i nostri cerchi di luci lo circoscrivevano, e nel quale dovemmo incurvarci, conduceva a un crepaccio di circa trenta metri di lunghezza per dieci di larghezza. Le guide si fermarono, tutti i fasci conversero: su vari paracadute rossi e blu distesi, riposavano casse e casse: simili ad animali di un’era futura, le vigilavano due mitragliatrici posate sul loro treppiede come gatti egizi sulle zampe anteriori. Sulla volta, ora nitida, immensi animali con le corna.
Indubbiamente quel luogo era stato sacro, e lo era ancora, non soltanto per lo spirito delle grotte, ma anche perché un legame incomprensibile univa quei bisonti, quei tori, quei cavalli (altri si perdevano fuori della luce) e quelle casse che parevano venute da sole, sorvegliate da quelle mitragliatrici rivolte verso di noi. Sulla volta coperta di una specie di salnitro, gli animali scuri e magnifici correvano, trasportati dal movimento dei nostri tondi di luce, come una fuga di emblemi.”
André Malraux nelle sue Antimemorie, scivolando insieme ad altri partigiani nelle grotte da poco esplorate di Lascaux, illumina il legame tra le antiche bande di cacciatori e di attuali combattenti dell’“ordine della notte”; nonché la corrispondenza tra le scene totemiche incise sulle pareti e le moderne armi custodite nel profondo. L’aggettivo “sacro” accompagna il ricetto dell’arma che uccide e chi la brandisce. Apparentemente la narrativa di Italo Calvino va in tutt’altra direzione. Si pensi al giovane Faccia di mela, protagonista del racconto Ultimo viene il corvo, che si arruola tra i partigiani per sparare come respirasse, con disinvoltura e naturalezza assolute, mirando indifferentemente a foglie e rami come ad animali o a uomini. O meglio: sono i partigiani, divertiti e sgomenti, ad arruolarlo sotto l’impressione dell’infallibile e irresponsabile attitudine del ragazzo. “– Questo non ne sbaglia una, – dicevano gli uomini e nessuno aveva il coraggio di ridere. – Tu vieni con noi, – disse il capo. – E voi mi date il fucile, – rispose il ragazzo. – Ben. Si sa. – Andò con loro.” Una macchina mortale ma ludica; un divertimento fulminante, come il sacro.
Anche Lupo Rosso, in Il sentiero dei nidi di ragno, ha qualcosa di fiabesco che eccede la sua ironizzata ortodossia comunista di primula rossa tra i Gap. Ama tutto ciò che è rumorosamente fumettistico: “la mania della dinamite e delle bombe ad orologeria […] fare grandi esplosioni per fare crollare i ponti, e scendere in città per sparare raffiche contro le pattuglie”. La sua educazione fantastica, avvenuta sugli “album colorati” e i romanzi di avventura dalla dismisura paraletteraria, in cui i desideri più sfrenati diventano possibili, si è in effetti tradotta in realtà. E di nuovo diventa materia di affabulazione per i compagni che lo ascoltano: “esagera un po’ le cose che racconta, ma racconta molto bene”. Per esempio il caso dell’esecuzione di Pelle, traditore passato alle Brigate Nere, che viene seguito dalla cinepresa verbale attraverso gli occhi di vari gappisti in impermeabile, dalla strada al suo covo-abbaino pieno di armi, e ivi freddato da un uomo appostato sui tetti; naturalmente lo stesso narratore. Questo personaggio usa le armi con la spensieratezza micidiale di Faccia di mela, e infatti gli è spesso associata la categoria del gioco: “È una cosa bellissima stare seduti insieme a Lupo Rosso dietro al serbatoio: sembra di giocare a nascondersi. Solo che non c’è differenza tra il gioco e la vita, e si è obbligati a giocare sul serio, come piace a Pin. […] Giochi che sa fare solo Lupo Rosso: giochi complicatissimi, che appassionano ma non fanno ridere.”
L’altra faccia del gioco sacro, sfigurata in un “mascherone da fontana”, è il grosso Cugino. Anche quest’ultimo dichiara a Pin che va “ad ammazzare la gente la notte”. La sua figura, apparentemente bonaria, dalle grandi mani soffici come pane, l’amico sempre cercato e finalmente trovato dal bambino protagonista, vive però un rapporto oscuro e tormentato, da uomo tradito, con le donne. La sua misoginia caricaturale, che fa costantemente incolpare le donne della guerra, si incarna infine nel compito di eliminare la sorella di Pin, prostituta diventata spia delle SS e guida dei tedeschi nelle retate tra i carruggi. La pistola sepolta dal bambino tra i nidi di ragno, dove si nascondono gli orridi accoppiamenti tra gli aracnidi, sarà consegnata al grande amico: l’uno indicherà, dentro la notte delle pulsioni torbide, la strada all’altro per dare finalmente all’oggetto sacro il proprio compimento di morte.
Anche il racconto di Calvino Andata al comando, come del resto Un altro muro e Vecchio Blister di Fenoglio, Labirinto di Caproni, ha al proprio centro un’esecuzione. La morte è uno dei temi della forma racconto, anche non di guerra? Bisognerebbe operare un imponente scrutinio quantitativo: certo la morte va forte anche nei romanzi, ma arriva spesso al termine di una più o meno lunga vita del protagonista. Nella brevità dei racconti esplode in pieno e li colma: dunque forse un nesso formale esiste. Quando poi si tratta, all’interno del massimo di violenza che è la guerra (specie quella civile), del diapason emotivo dell’esecuzione il sospetto si rafforza. Stiamo sempre nel territorio del sacro quando si presenta l’evento più disturbante della guerra, di solito ritualizzato, laddove in particolare nel combattimento partigiano, la morte s’infligge di sorpresa alla svolta di una strada di montagna e alle spalle in una via di città. Qui due personaggi senza nome, sono in movimento per un bosco dapprima squallido e bruciato, poi più fitto e tenebroso. L’azione va avanti con i passi, il dialogo e i pensieri soltanto del disarmato che teme di essere portato a morte. L’armato mente per tutto il viaggio, sostenendo che andranno al comando dove sarà sbrigata la formalità di cancellare il nome dell’altro dal registro delle spie e lasciato quindi sbrigativamente andare libero; infine propone uno scambio temporaneo di scarponi, imbraccia l’arma volendo dimostrare che non sparerà, e spara. La sua fisionomia è “triste e senza sguardo”, cammina quasi a caso e svogliatamente; abbiamo detto che non pensa, talvolta usa tautologie kafkiane (“Il comando è dov’è il comando”; “Al comando non si va per le strade”) e pare identificarsi con una mera funzione (“È un lavoro che spetta a me, l’accompagnarvi”), come un impersonale strumento della legge.
L’arrovellarsi del pensiero, i cauti sondaggi paralleli ai disviamenti dal sentiero, le ipotesi e controipotesi appartengono tutte al disarmato. La spia si ritiene più scaltro degli altri e non vede l’ora di dimostrarlo ai suoi padroni tedeschi, vantando come servo e giullare la propria abilità: “Io ridere”. E però si insospettisce della lunghezza e dell’erranza del tragitto, chiede conto degli altri prelevati dal paese – la maestra, il federale… –, tenta di scartare e poi quasi involontariamente di fuggire; ma l’altro, silenzioso e indifferente, è “sempre dietro, a distanza”. La sua doppiezza di spia, che interpreta in modo sofisticato e opposto i segni, non gli giova: il suo ragionamento ha squarci “come zone di radura in mezzo a un bosco” che lo fasciano di “sconosciuto e oscuro”, ma in realtà sempre più s’intrica senza vedere una verità evidente. Se non gli dicono dov’è il comando è male perché non si fidano di lui, ma è di più un bene perché vuol dire che lo rilasceranno. La spia, re delle messinscena, si acceca nel rifiuto di vedere con chiarezza la strada verso l’esecuzione. Addirittura la sciocchezza di consegnare gli scarponi solo perché al comando non glieli sottraggano, viene sì intuita come fandonia ma soltanto perché pensa che l’altro voglia tenerseli per sé. Così è ma non nel modo e nel momento, con il senso attribuiti; li consegna, e si consegna alla raffica. Perfino mentre l’armato spara, pensa: “Ecco, non spara”; quando partono i colpi pensa siano a salve, e quando sente l’impatto sul corpo ancora nega: “Crede di avermi ucciso, invece vivo.” La spia, che solitamente detiene segreti, a partire da quello sulla propria identità, non ci arriva. È il bosco ad incaricarsi in via postuma di spiegare a quel corpo il suo destino: “la bocca piena di aghi di pino. Due ore dopo era già nero di formiche.”
Questo primo Calvino, talvolta un po’ sottovalutato rispetto alle felici realizzazioni della trilogia fantastica, all’indiscutibile magistero della maturità postmoderna e combinatoria, della leggerezza sapiente, già aveva in sé e mostrava il nucleo irradiante dell’avventura picaresca e della favola, del gioco e dell’affabulazione. E pure insieme manteneva, probabilmente per il ravvicinato contatto con la bruciante esperienza della guerra civile, un grumo più nero e drammatico poco valorizzato dalla critica. Si trattava, come visto, d’un equilibrio fecondo di sfaccettature che, attorno al balenare sacro e sconsacrato dell’arma, arricchiscono la sua narrativa partigiana cosicché in quegli anni la contrapposizione tra l’apollineo razionalista, etereo se non svaporato Calvino d’ordine, e lo sfrenato, sperimentale e pulsionale, Pasolini insubordinato, tracciata qualche anno fa da Carla Benedetti, non ha motivo d’essere. L’abatino delle lettere e dell’editoria, l’algido rimescolatore di tarocchi e di storie, o al contrario, se si vuole, stando all’amore di molto maggioritario di studiosi e lettori, il più completo scrittore del secondo Novecento per fantasia e rigore d’indagine e di stile, era qualcosa di già uguale ma ancora diverso.
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