C’è rabbia. C’è dolore. Chi legge Ernesto Galli della Loggia sulla prima del Corriere lo capisce subito che l’uomo ci soffre. Poveretto! Ancora una volta i suoi occhi vedono una masnada di barbari, venuti chissà da dove, deturpare il volto bello della civiltà liberale. Gente orribile. Ignoranti. Al cui confronto i contestatori del 68 meritano un sentimento di nostalgico rimpianto: quelli almeno avevano letto Marcuse! E anche se si ispiravano a Lenin, e perfino a Stalin, con loro ci si poteva intendere. Oggi invece… Eh, che tempi!
Ma la colpa è di chi le alleva queste capre ignoranti. Che osano rinfacciare a Israele e all’Occidente liberale la giusta punizione che stanno infliggendo ai palestinesi. Che mordono la mano che li cresce. Ingrati. E suicidi. Perché quello che in realtà cercano con le manifestazioni e le occupazioni dei campus universitari è nientemeno che la distruzione dell’Origine. La rimozione del Padre. La negazione dell’ascendenza su cui si fonda tutto l’Occidente. Altro che protestare per i crimini di guerra e la violazione dei diritti umani! Tutte scuse. Questi sono i nostri Nemici peggiori. I Nemici dei nostri Valori, delle nostre Radici. Quelli che rinnegano la nostra Tradizione, la nostra Storia!
La Storia del vincitore
Diciamolo: come sono patetici e noiosi i conservatori. Sempre lì a fare le vittime. Sempre a lamentarsi della corruzione dei costumi, della mancanza di Autorità. Sempre a pronosticare sfracelli. E a costruire Nemici interni, alleati del Nemico esterno di turno. Lo fanno ogni volta che la società si divide. Ogni volta che sorge un conflitto. Un conflitto vero. Uno di quelli che possono davvero cambiare la realtà. In meglio o in peggio, certo. Ma cambiarla. Ad esempio, come in questo caso, rimettendo in discussione il doppio standard atlantista. Facendo funzionare non in modo selettivo, come è stato finora, il diritto internazionale. Che in definitiva significa difendere il diritto. Che sennò altro non è che la maschera sul volto del più forte. Perché ha ragione Luca Baccelli, il diritto può dare voce ai deboli, ma può farlo se c’è “pressione dal basso”. E non è un caso che le “ordinanze” della Corte Internazionale di Giustizia e la richiesta di mandati di arresto del Procuratore di quella penale siano venuti dopo mesi di mobilitazione mondiale, “dai campus delle università di élite alle masse di quella parte del pianeta che si rende sempre più conto di essere maggioritaria, nonostante “noi” continuiamo a rappresentarci al centro del mondo”. Perché il diritto è un campo di conflitto ed è espressione dei conflitti. E ogni conquista giuridica, cioè ogni passo verso l’uguaglianza, avviene sempre durante stagioni di lotte. I conservatori questo lo sanno. Sanno che per conservare i rapporti di potere all’interno della società e nei rapporti internazionali bisogna spegnere i conflitti. Criminalizzare i soggetti. Costruire Nemici. Sempre riproponendo, forse inconsapevolmente, la risposta arcaica e tribale di Polemarco a Socrate nel primo libro della Politeia: “la giustizia è fare bene agli amici e fare male ai nemici”. Quando agiscono così lo fanno con sincerità. Convinti delle loro ragioni. Intolleranti alle ragioni degli altri. Certi che sia in gioco la sopravvivenza della civiltà. E ogni volta la posta in gioco è più alta. Il nemico sempre più spaventoso. Queste certezze trovano il loro fondamento nella Storia, intesa come inveramento della superiore civiltà occidentale e liberale. Sempre vincente e quindi sempre superiore. Una filosofia della storia che si fa teologia della storia, come dal suo punto di vista giustamente reclama della Loggia. Una teologia della storia che piega a sé gli avvenimenti. Alcuni li cancella. Altri li falsifica. Quello che ne risulta, ci ricorda Walter Benjamin, è sempre la storia del vincitore. Della quale si appropriano, a loro vantaggio, in padroni di ogni tempo, mentre trascinano nel loro corteo trionfale la preda: il dominato. Comunque e sempre si propone come Storia Universale, proprio in quanto storia di quella parte dell’umanità che è la sola davvero umana. Un paradosso? Un ossimoro? Cosa importa? La teologia sopporta ben altre contraddizioni, si sa.
Ma qualcosa sta cambiando
Per fortuna l’Occidente (un termine che dovremmo trattare con maggiore cautela perché rischia di cancellare le differenze, le articolazioni e le contraddizioni che ci sono al suo interno) è anche altro. Come ci ha insegnato Domenico Losurdo, dobbiamo sforzarci di leggere dentro la contraddizione istitutiva del pensiero politico della modernità. Per vederne, certo, la spinta emancipatrice e civilizzatrice. Ma anche il lato oscuro. L’oppressione e la persecuzione delle classi lavoratrici. Il colonialismo e lo schiavismo. La discriminazione di genere e lo sfruttamento della natura. Il razzismo. E tutto sempre in nome del Progresso. Della Civiltà. Dell’Umanità.
Però chi vive in questa parte del mondo, comunque la pensi, oggi sa che questa narrazione non regge più. Sa che la gran parte del mondo non accetta più la pretesa di perpetuare, in nome di una supposta superiorità morale, l’eccezionalismo occidentale e i suoi privilegi. E utilizza gli stessi concetti politici e giuridici che l’Occidente ha inventato per metterlo sotto accusa. Allo stesso modo impiega le istituzioni internazionali (l’ONU, i tribunali internazionali) create nel dopoguerra a difesa del diritto e della pace. E l’Occidente invece le rinnega. A questo gioco il resto del mondo non ci sta più! Basta guardare alla cartina che rappresenta i 143 paesi che hanno già riconosciuto lo Stato palestinese per rendersi conto dell’isolamento dell’Occidente. E, come dimostrano Norvegia, Irlanda e Spagna, della difficoltà anche al suo interno di reggere il doppio standard. Perché stupirsi, se non per mala fede, che in questa parte del mondo ci sia chi la pensi allo stesso modo? E non in nome della fascinazione per le dittature. Ma proprio in nome di quei valori e di quei principi tanto sbandierati quanto traditi?
Che ci importa della Palestina?
Potremmo però anche domandarci: ma in tutto ciò è davvero così importante la Palestina? Nell’economia della competizione globale aperta dalla fine della “grande divergenza” e dalla conseguente crescente contrapposizione tra potenze in declino e potenze in ascesa, cosa pesa il destino di un fazzoletto di terra conteso da due minuscoli popoli ? Una causa, siamo realisti, già in gran parte decisa dai rapporti di forza militari assolutamente squilibrati. Come squilibrati sono i pesi economici delle due parti. Per non parlare di quelli politici. Le élite dei paesi arabi (diverso il discorso per le masse) infatti sono ormai da tempo alleate fedeli di Israele, come ha dimostrato da ultimo il loro comportamento in occasione della reazione iraniana all’attacco al Consolato in Siria. Gli stessi accordi di Abramo avevano come obiettivo la definitiva liquidazione della “questione palestinese”. Se si escludono le organizzazioni umanitarie, del destino del popolo palestinese non si è occupato più nessuno per anni. Nell’assurda illusione che questa rimozione avrebbe cancellato il problema e garantito con ciò la sicurezza degli stessi israeliani, salvo qualche vittima ogni tanto. In fondo è quello che aveva promesso Netanyahu quando aveva puntato al rafforzamento di Hamas per fomentare la spaccatura tra Gaza in mano ad Hamas e l’Autorità nazionale palestinese in Cisgiordania. Ciò avrebbe garantito la paralisi diplomatica ed eliminato il rischio rappresentato dai negoziati per la spartizione dei territori in due Stati. La guerra e la colonizzazione non sarebbero finite mai, ma con perdite accettabili da parte israeliana. E la loro prosecuzione avrebbe garantito la copertura alla segregazione palestinese a Gaza e nei territori occupati della Cisgiordania. Insomma, una pratica in procinto di essere archiviata. E anche ora che la situazione in Palestina è tornata drammaticamente al centro dell’attenzione dopo il 7 ottobre e quello che ne è seguito, i pericoli maggiori per gli equilibri mondiali e per la pace probabilmente vengono dal quasi sconosciuto territorio di Krasnodar o dal villaggio altrettanto periferico di Gorkovskoye, dove sono state colpite da droni di “oscura” provenienza le stazioni radar di allerta strategico del sistema di risposta nucleare russo. Un attacco che da solo integrerebbe le condizioni per il ricorso all’uso delle armi nucleari previste dal documento “Fondamenti della politica statale della RFR nel campo della deterrenza nucleare”. E che dire della guerra tariffaria che Biden sta intensificando contro le auto elettriche e i semiconduttori cinesi? Dunque perché agitarsi tanto per la Palestina?
”La Palestina in testa”. Così il Manifesto titolava la sua cronaca del 25 aprile a Milano. Già, ma perché celebrare il 25 aprile con “la Palestina in testa”? Perché questa mobilitazione in Italia e nel mondo per la Palestina? Che cosa c’è davvero dietro e dentro questo fenomeno? Non ha anch’esso il dovere di fare i conti con se stesso? Con le sue ragioni, certo, ma anche con i suoi limiti e le sue contraddizioni. E i suoi pericoli. Facendo modestamente la mia parte all’interno di questa mobilitazione ritengo che siano domande non ingiustificate e che sia anzi doveroso affrontarle onestamente. A una condizione, però: non oscurare ciò per cui ci si sta battendo; non lasciare sullo sfondo la tremenda realtà che stanno vivendo, da decenni, le popolazioni civili a Gaza e in Cisgiordania. Come ha dichiarato un’attivista ebrea dell’Ong israeliana Physicians for human rigths rispondendo a una domanda sulla criminalizzazione che il suo lavoro subisce in patria (la tutela dei prigionieri politici nelle carceri di Tel Aviv): “non siamo noi il centro della storia”. Il centro della storia è ciò che stanno subendo i palestinesi. Il centro della storia è quell’ingiustizia che dura da decenni. Un’ingiustizia che come una ferita purulenta produce, seppure in misura diversa, sofferenza e dolore per entrambi i popoli che vi sono coinvolti. E che ora sta disseminando odio, intolleranza e violenza anche nelle nostre società. E allora partiamo dalla Storia. Lasciamo da parte per un momento lo sgomento e la pietà per le vittime. Per tutte le vittime, certo. Perché ogni vita è importante e ogni sofferenza chiede giustizia. Anche quelle del 7 ottobre, certo. Ma il 7 ottobre è un giorno. Non un giorno come gli altri, certo. Ma pur sempre un giorno. Uno di una serie fin troppo lunga. Un giorno che non spiega tutto. Che anzi ha bisogno di essere spiegato.
Di cosa parliamo?
Ilan Pappé, lo storico israeliano che ha dedicato numerosi libri a ricostruire la storia dell’occupazione della Palestina, ama iniziare le sue opere con il racconto di ciò che sono diventati nel tempo i luoghi teatro di momenti cruciali in quella vicenda. Così in La pulizia etnica della Palestina (edizione italiana del 2008), Pappé ci introduce nella Casa rossa, un tipico edificio della Tel Aviv degli anni Venti, originariamente destinato a ospitare il locale consiglio dei lavoratori. Successivamente, alla fine del 1947, la Casa rossa divenne il quartier generale dell’Haganà e il 10 marzo del 1948 ospitò la riunione che pianificò la pulizia etnica della Palestina. La sera stessa di quel 10 marzo dalla casa rossa vennero trasmessi alle unità sul campo gli ordini di effettuare i preparativi per la sistematica espulsione dei palestinesi. Gli ordini erano accompagnati da una minuziosa descrizione dei metodi da usare. A ciascuna unità venne dato un elenco di villaggi e quartieri urbani obiettivi del progetto generale di pulizia etnica. Denominato in codice “Piano” (Dalet in ebraico). Ci vollero sei mesi per completare l’operazione. Quando fu compiuta 800000 persone, più della metà della popolazione palestinese originaria, era stata sradicata. L’opera di Pappé e di altri storici israeliani e palestinesi “revisionisti” confuta sia la narrazione ufficiale, prevalente fino alla fine degli anni Settanta, che parla di “trasferimento volontario”, sia quella di altri storici come Berry Morris che, basandosi esclusivamente sugli archivi militari israeliani, fa cominciare le espulsioni forzate solo dopo il 15 maggio, data in cui ha inizio l’attacco delle milizie arabe al neo proclamato Stato israeliano.
Anche ne La prigione a cielo aperto più grande del mondo (edizione italiana 2022) Pappé inizia da un luogo simbolo: Givat Ram, letteralmente la ‘collina di Ram’. Anche Givat Ram, ci informa Pappé, ha subito molte trasformazioni: un tempo qui sorgeva Sheikh al-Badr, un villaggio rurale palestinese. Ora ospita diversi ministeri governativi, la Knesset, parte dell’Università ebraica e la Banca d’Israele. Nell’estate del 1963 il campus universitario ospitò un corso di formazione finalizzato a preparare le forze armate al controllo della Cisgiordania in quanto zona miliare occupata. Naturalmente quest’ultima non era ancora territorio occupato. Ma già quattro anni prima, cioè nel momento in cui la crescente instabilità del regno hashemita di Giordania creava le condizioni favorevoli per l’occupazione della Cisgiordania da parte di Israele, ci si preparava per governare per mezzo di un’infrastruttura giudiziaria e amministrativa la vita di oltre un milione di palestinesi. L’occupazione della Cisgiordania era, per la verità, un obiettivo almeno dal 1956. Si cercava da tempo il momento opportuno per realizzarlo. L’occasione venne nel 1967. Prima ancora che la guerra avesse inizio erano già stati nominati i governatori e i giudici militari che avrebbero amministrato i territori occupati. È rilevante, in questo quadro, sottolineare un aspetto: il regime che fu adottato per i territori occupati altro non fu che un’estensione di quello che era stato in vigore dal 1948 al 1966 per il gruppo di palestinesi che vivevano all’interno di Israele. “La base per la vecchia e la nuova imposizione era la stessa: i regolamenti di emergenza mandatari emessi dagli inglesi”. Tra le norme ivi contenute è importante ricordarne tre: la direttiva n. 109, che consentiva al governatore di espellere la popolazione, la n. 110 che gli accordava il diritto di convocare qualunque cittadino in una stazione di polizia qualora egli lo ritenesse opportuno, e la n. 111 che autorizzava l’arresto amministrativo, a tempo indeterminato, senza motivazioni e senza processo.
In genere pensiamo di conoscere bene questa vicenda. Ma in realtà ne sappiamo qualcosa solo superficialmente. Le sue basi fondamentali sono condensate nelle parole con cui Moshe Dayan sintetizzò le decisioni del governo israeliano all’indomani della vittoria nella guerra dei sei giorni: “Il Giordano è il confine, 1250000 individui in Cisgiordania non diventeranno cittadini israeliani e ‘yeruhalajim hashlemai” (Gerusalemme unificata).
In quel momento ha avuto inizio il processo di colonizzazione dei territori occupati e di segregazione dei loro abitanti arabi. Noi ne conosciamo i dati che ne riassumono l’esito fino ad ora: 200 insediamenti e 116 avamposti (questi ultimi illegali anche per la legge israeliana, ma in via di legalizzazione) in Cisgiordania. Per un totale di 750 mila coloni insediati nei territori palestinesi occupati nel 1967. Dati che dicono molto, ma non possono farci capire fino in fondo che cosa significhino in concreto sulla vita delle persone. Un’idea un po’ più precisa possiamo farcela leggendo i rapporti di B’Tselem, Human Reights Watch e Amnesty International, tutti concordi nel giudicare quello israeliano come un regime di apartheid nei confronti dei palestinesi: un sistema istituzionalizzato allo scopo di “esercitare una forma di dominazione e oppressione di un gruppo razziale sull’altro”. Secondo i rapporti delle tre ONG le autorità israeliane hanno introdotto leggi, politiche e prassi per negare deliberatamente i diritti e le libertà basilari ai palestinesi, anche attraverso drastiche limitazioni al movimento nei territori, minori investimenti a favore delle comunità palestinesi residenti in Israele e il diniego del diritto al ritorno dei rifugiati. I rapporti documentano inoltre i trasferimenti forzati, la detenzione amministrativa, la tortura e le uccisioni illegali sia in Israele che nei Territori palestinesi occupati. Tutto in violazione della Convenzione sull’apartheid e dello Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale.
La condizione umana laggiù
Prendiamo in esame uno dei diritti negati ai palestinesi: il movimento all’interno dei territori. E per capire che cosa sia prendiamo una storia. Quella che ci racconta The Present, ad esempio, un film del regista anglo-palestinese Farah Nabulsi. È la giornata di un giovane padre di famiglia che deve affrontare le lunghe code ai posti di blocco israeliani per recarsi al lavoro.Un racconto semplice e commovente dell’umiliazione e della sopraffazione quotidiana che i palestinesi vivono sulla loro terra. Il film vuole mostrare la condizione umana nei territori occupati. I piccoli bisogni di tutti i giorni (andare al lavoro, tornare a casa, acquistare un regalo, fare la pipì) e la logica impersonale e spietata della burocrazia della sorveglianza e della segregazione.
“Qual è il tuo problema? Un passo dietro la linea, prego. Non lo decido io. Di chi è il matrimonio? Lei ha quasi 40 di febbre. Sono qui da un’ora. Prometto che non lo faccio. Alza la voce non ti sento. Sollevala. Anche la canottiera, testa di cazzo. Da quant’è che lavori là? Resta dietro la linea. Non senza un permesso. Le mie lezioni cominciano alle nove. Indietro, per favore, indietro. Togliti il velo. La porta a sinistra. Il prossimo”. Quella che precede è una parte della registrazione delle conversazioni fatta da una giovane soldatessa israeliana dell’unità di hackeraggio 8200 nel Checkpoint 300. Quelle frasi “rubate” sono state in seguito usate dal ragazzo della soldatessa per comporre una canzone di protesta: Lift Your Fucking Shirt Assohle, Solleva quella cazzo di camicia, stronzo. La storia viene narrata da Colum McCann in Apeirogon. Domande e risposte. Insulti. Invocazioni. Ordini. La vita di tutti i giorni per chi si deve spostare per un qualsiasi motivo da una parte all’altra della Cisgordania frammentata nelle tre zone definite dagli accordi di Oslo. Un reticolato di checkpoint militari, posti di blocco, barriere e altre strutture. Mentre i palestinesi vengono bloccati per ore ai checkpoint o in attesa che sia rilasciato l’ennesimo permesso per circolare, i cittadini e i coloni israeliani possono muoversi come desiderano.
E poi c’è Gaza. O meglio, c’era Gaza. Un territorio più piccolo del Comune di Matera, nel quale sono rinchiusi oltre due milioni di individui, sottoposti già prima del 7 ottobre a un blocco crudele. Oggi, lo sappiamo, Gaza è un immenso cimitero. Dove alle distruzioni provocate dai bombardamenti si stanno aggiungendo le demolizioni sistematiche delle abitazioni e l’occupazione dei territori (in particolare nel Nord di Gaza e in corrispondenza del cosiddetto “corridoio di Netzarim”). Al di fuori dei confini di Israele e quindi ancora una volta in flagrante violazione del diritto internazionale. Quale ne è lo scopo? È chiaro che si vuole trasformare la Striscia in un luogo invivibile. Obbligare la popolazione ad andarsene. Finire il lavoro del 1948.
Apartheid
È evidente che le ragioni di sicurezza che vengono addotte per giustificare tutto ciò non reggono. Amnesty International ha accertato infatti che “sebbene alcune delle politiche israeliane possano essere state elaborate per conseguire obiettivi di sicurezza legittimi, esse sono state attuate in un modo enormemente sproporzionato e discriminatorio e non in regola col diritto internazionale. Altre politiche non mostrano alcuna ragionevole base in termini di sicurezza e derivano chiaramente dall’intenzione di opprimere e dominare”. Tutto questo ha però una logica. Non dipende dalla crudeltà fine a se stessa. Ma da una stringente necessità, espressione del progetto di insediamento coloniale. Fin dalla sua costituzione Israele ha perseguito infatti l’obiettivo di istituire e mantenere una netta maggioranza demografica ebrea. A partire dal 1967 Israele ha esteso tali politiche alla Cisgiordania e alla Striscia di Gaza, cercando nel contempo di incorporare la maggior parte di territorio senza popolazione araba. Più terra con meno popolazione palestinese: questa è l’equazione che i dirigenti di Israele devono da sempre risolvere. E che rende necessaria la pulizia etnica. Il problema demografico è infatti il vero incubo per la classe dirigente israeliana fin da quando Ben Gurion ha indicato in una maggioranza ebraica del solo 60 per cento un pericolo mortale per lo Stato ebraico. Nel dicembre del 2003 Netanyahu ha ribadito che una presenza araba del 40 per cento significa la fine dello stato ebraico. E ha poi aggiunto: “ma anche il 20 per cento rappresenta un problema. Se il rapporto con questo 20 per cento diventa problematico, lo Stato è autorizzato a usare misure estreme.” Si spiega così la legge approvata nel luglio del 2003 che proibisce ai palestinesi (termine con cui in ebraico si definiscono gli abitanti della Cisgiordania) che sposano cittadini israeliani di ottenere la cittadinanza, la residenza permanente o anche la residenza temporanea. Legalizzando in questo modo la deportazione di coloro i quali diventano una minaccia demografica. E si spiega anche così la hitkansut, la politica che tende ad annettere ampie zone della Cisgiordania, lasciando nel contempo le aree palestinesi più popolose fuori dal diretto controllo israeliano. Ma anche la hitkansut si è rivelata problematica, dato che l’alto tasso di natalità dei palestinesi rispetto agli ebrei rischia di compromettere “l’equilibrio demografico”.
Inoltre, un progetto di colonizzazione che si sviluppa per un periodo così lungo comporta necessariamente un processo di razzializzazione e/o etnicizzazione radicale della popolazione indigena da segregare e da espellere. Ma comporta necessariamente un processo analogo e inverso di razzializzazione e/o etnicizzazione dei colonizzatori. I due processi sono complementari e si sostengono reciprocamente. Uno dei sintomi degli effetti che il progetto di colonizzazione della Palestina ha determinato sulle identità dei due gruppi è infatti rappresentato dalla radicalizzazione religiosa e dalla progressiva de-laicizzazione delle due società. Con la conseguente accentuazione dell’ostilità e delle posizioni intransigenti.
Ma resta la domanda: perché la Palestina in testa? Certo c’è la commozione e la pietà per ciò a cui stiamo assistendo. La prima ragione che mi ha spinto, assieme a tanti altri, a cercare di fare qualcosa è stato proprio il senso di disagio e di vergogna che ho provato nell’assistere passivamente allo scempio che avevo di fronte. Ma Gaza non è l’unica ingiustizia che si sta perpetrando nel mondo. Quello palestinese non è l’unico popolo che soffre e muore. E allora perché? Azzardo una risposta che mi sembra coerente con il tentativo di fare il “contropelo” alla storia del vincitore. La Palestina è apparsa, per ciò che le accade oggi e per la sua tragedia pluridecennale, l’emblema di ogni altra oppressione. Un caso che condensa in sé una Storia che ritorna, un passato che non passa. Perché è l’ultimo esempio di una lunga serie di forme di colonialismo di insediamento, pulizia etnica e apartheid su vasta scala. Perché sono profondamente vere le parole di Nelson Mandela: “La nostra libertà è incompleta senza quella dei palestinesi”. Parole che riecheggiano, forse consapevolmente, quelle di Marx: “la classe operaia britannica non sarà realmente libera fino a quando le popolazioni delle colonie non saranno libere”. E nessuno di noi sarà davvero libero finché non faremo davvero i conti con il colonialismo e il razzismo. I Padri che dovremmo davvero rinnegare.
Eppure avere ragione non basta. Bisogna essere efficaci. E umili. La disumanizzazione del nemico è una trappola. Secondo Ilan Pappé la maggioranza dei palestinesi ha rifiutato, nonostante tutto, di lasciarsi disumanizzare. In Israele e nelle comunità ebraiche sparse nel mondo ci sono tante persone che coraggiosamente vogliono costruire una convivenza. Sono queste, secondo lo storico israeliano le risorse per una pace vera. Ma è ancora così dopo il 7 ottobre e tutto l’altro orrore che ne è seguito? È sufficiente fare appello alla ragionevolezza? La denuncia dei crimini, la cui fondatezza è riconosciuta anche dai provvedimenti della Corte di Giustizia e della Corte penale, può cambiare concretamente la situazione sul campo? Non vi è il rischio che tutto ciò alimenti forme di antisemitismo? O di semplificazioni manichee? Domande legittime, che l’urgenza di agire per far cessare i massacri non possono cancellare. Soprattutto quella riguardante l’antisemitismo. Se è vero infatti che c’è un uso strumentale dell’accusa di antisemitismo che serve solo a denigrare e criminalizzare le critiche alla condotta dello Stato israeliano, è vero anche però che l’antisemitismo è un fenomeno reale, che in questa situazione può trovare nuovo spazio. Il che richiede un atteggiamento intransigente da parte di coloro che sono impegnati nel movimento a favore della Palestina.
Sconfiggere la disperazione. Come?
In una delle occasioni di mobilitazione a cui ho partecipato ho avuto una discussione con un signore palestinese che vive e lavora da anni in Italia. Mi ha colpito in particolare la sua risposta alle mie critiche ad Hamas, che io accusavo non solo di aver commesso crimini di guerra ma anche di aver esposto i palestinesi a una ritorsione spaventosa: “siamo pronti a morire”, mi ha detto. “Se dobbiamo dare un milione, due milioni, tre milioni di martiri, siamo pronti a farlo”. Non è un fanatico. È un uomo colto e gentile. Ma è anche un uomo disperato. Una disperazione prodotta artificialmente con tutte le pratiche che ho cercato confusamente di descrivere. Con l’intento di domare la resistenza dei palestinesi, di indurli a cedere, ad andarsene finalmente. In Egitto, in Giordania, ovunque, purché fuori da Israele “dal Giordano al mare”. Quello che c’è già nei fatti. Contro ogni diritto. Più forte di ogni ragione. Di ogni supplica.
Ma la forza di Israele testardamente vuole ignorare che la disperazione indotta non produce solo sottomissione e rinuncia. Produce anche rivolta cieca. Autodistruzione. Suicidio. È uno stato d’animo che noi non possiamo capire. Perché non viviamo quella condizione. Ma non abbiamo il diritto di disprezzare. Se possibile, ciò aumenta la nostra responsabilità. Perché disponiamo del privilegio di poterci sottrarre al gorgo che sta inghiottendo la Palestina. Perché abbiamo il dovere di aiutare a ricostruire, oltre il giusto sdegno e la sacrosanta denuncia, un’agenda politica che consenta di sconfiggere la disperazione.
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