Nella loro costante e inarrestabile trasformazione le lingue sono inevitabilmente democratiche. Per affermarsi, ogni loro mutamento deve passare al vaglio della maggioranza o, per dirla con un lessico particolarmente in voga, deve diventare virale. Infatti, è la diffusione attraverso l’uso a determinare il successo di un’innovazione linguistica, in quanto esprime il consenso da parte dei parlanti che la adottano spontaneamente.
Dopo i fatti del 7 ottobre 2023, diverse lingue occidentali hanno visto la diffusione di una particolare innovazione linguistica promossa principalmente da una parte della politica e dell’informazione, il cui successo tra i parlanti è però ancora da verificare sul lungo periodo. Il fenomeno è conosciuto come risemantizzazione estensiva e interessa la parola antisemitismo.
Prima di concentrarci su questo punto occorre ribadire che per secoli l’ostilità antiebraica non ha avuto significanti atti a rappresentarla: “in una società come quella cristiana, in cui le minoranze ebraiche vivevano nettamente separate dalla maggioranza e in cui le formulazioni teologiche e la stessa liturgia contenevano espressioni codificate di ostilità antiebraica, essa appariva come un atteggiamento naturale, che non necessitava di un nome.” Si trattava di un’avversione di tipo teologico basata sugli antichi pregiudizi deicidi generati in seno alla comunità cristiana delle origini, e che solo a partire dalla seconda metà del ‘900 ha trovato nella parola antigiudaismo un segno linguistico creato e diffuso principalmente dagli storici che hanno studiato il fenomeno in relazione al posizionamento della chiesa cattolica nel contesto della Shoah.
Diverso è il caso del termine antisemitismo, coniato alla fine del diciannovesimo secolo dal giornalista tedesco Wilhelm Marr per esprimere il concetto di Judenhass, ovvero di odio verso gli ebrei come comunità etnica. Non a caso ciò avveniva contemporaneamente alla diffusione delle prime teorie razziali elaborate dai pangermanisti tedeschi che imputavano alla comunità ebraica inferiorità genetiche e morali tali da minare l’equilibrio delle nazioni europee e contaminarne la purezza dei popoli. Furono queste le teorie che posero le basi dell’ideologia nazista poi sfociata nella pratica dello sterminio.
Dal secondo dopoguerra ad oggi la parola antisemitismo ha sempre mantenuto una certa aderenza al suo significato originario, ovvero quello di pregiudizio razziale nei confronti degli ebrei. Ciò che è cambiato negli ultimi otto mesi, come vedremo più avanti citando alcuni esempi, è l’apparizione sempre più frequente della parola antisemitismo in contesti dove al suo significato originario viene aggiunto per estensione quello di opposizione culturale e politica al nazionalismo Israeliano, significato storicamente associato dalla lessicografia ad un’altra parola, antisionismo, termine che non implica alcun pregiudizio religioso o razziale nei confronti della comunità ebraica.
L’antisionismo indica infatti l’opposizione all’ideologia che ha ispirato le politiche israeliane di insediamento, fondazione, espansione e occupazione alla base del lungo conflitto con la comunità palestinese originariamente presente nella regione. Se da una parte l’antisemitismo, con il suo portato di odio e violenza a sfondo razziale, ha incondizionatamente un valore ideologico negativo perseguibile sotto il profilo penale in molti paesi, dall’altra l’antisionismo non ha alcuna connotazione qualitativa che sia eticamente o legalmente discriminante. Non l’aveva in origine, quando lo stato di Israele non era ancora nato e i critici ne enfatizzavano l’aspetto più’ vistosamente deteriore, ovvero quello dell’insediamento da realizzarsi ai danni delle comunità autoctone, e non l’ha oggi nella sua accezione moderna che, come ricorda Noam Chomsky in On Palestine, Penguin 2008, non nega l’esistenza dello stato Israeliano, ma evoca soluzioni politiche e diplomatiche avanzate che tengano conto delle aspirazioni della comunità palestinese all’autodeterminazione. Ne è prova il fatto che molti cittadini israeliani di cultura ebraica sono anche antisionisti, si pensi ai membri di Standing Together, che si descrivono come “un movimento civico progressista che mobilita cittadini israeliani, ebrei e palestinesi, contro l’occupazione e in favore della pace, dell’uguaglianza e della giustizia sociale”, o agli attivisti di B’Tselem, un’organizzazione israeliana dichiaratamente antisionista che raccoglie e diffonde informazioni sulle violazioni dei diritti umani nei territori occupati. Cosi’ come, d’altra parte, troviamo antisionisti ebrei in Europa e negli Stati Uniti, in questo caso si pensi ad organizzazioni internazionali come Jewish Voices for Peace.
La risemantizzazione estensiva della parola antisemitismo risponde all’esigenza strategica di screditare i movimenti – spesso antisionisti o comunque critici nei confronti del sionismo contemporaneo – che negli ultimi mesi hanno manifestato in tutto il mondo contro la campagna militare Israeliana nella striscia di Gaza. Come esempi potremmo citare la descrizione dei cortei britannici per il cessate il fuoco come “marce d’odio antisemita”, offerta lo scorso ottobre dall’ex ministra degli Interni britannica Suella Braverman o il caso dell’ex governatrice del South Caroline Nikky Haley, fortemente critica verso Joe Biden e la sinistra democratica per la loro riluttanza a definire l’antisionismo una teoria antisemita, la quale ha perfino pubblicato sul suo profilo Instagram un’immagine inequivocabile dove su uno sfondo scuro si legge “anti-Zionism is antisemitism”.
Da ricordare anche il j’accuse del sindaco di Berlino Kai Wegner contro il regista israeliano Yuval Abraham, autore del film “No Other Land”, realizzato insieme al regista palestinese Basel Adra e vincitore della Berlinale 2024 nella sezione miglior documentario. In occasione della cerimonia di premiazione, Abraham ha criticato il governo israeliano per la campagna militare in corso a Gaza e invocato la fine dell’occupazione della West Bank e di ogni tipo di segregazione ai danni dei palestinesi. Nella sua dichiarazione Abraham ha descritto il proprio paese come uno stato di apartheid. Il sindaco Wegner ha commentato in risposta: “non c’è posto per l’antisemitismo a Berlino e questo principio si applica anche alle arti”, equiparando ancora una volta la critica politica a Israele (antisionismo) con l’odio razziale (antisemitismo).
Per osservare il fenomeno da un’altra prospettiva è opportuno citare la definizione del termine antisionismo inserita dal governo Italiano sul proprio sito ufficiale, evidentemente non a caso nella sezione dal titolo “contrastare l’antisemitismo”, dove leggiamo “attualmente antisionismo esprime contrarietà e la negazione della legittimità dello Stato di Israele e del suo diritto alla pace e alla sicurezza” [corsivo mio], definizione che tenta di descrivere il termine sotto il profilo etico politico, equiparandolo implicitamente a forme di estremismo che mirano alla dissoluzione dello stato Israeliano piu’ che a una critica al suo apparato ideologico.
Un altro esempio degno di nota viene dagli Stati Uniti, dove nel dicembre 2023 il congresso ha votato una risoluzione simbolica mirata a condannare tutte le forme di antisemitismo. Il testo è stato introdotto dal deputato repubblicano David Kustoff che ha dichiarato in apertura “antisionismo significa antisemitismo”, suscitando così l’astensione dei rappresentanti democratici guidati dal deputato ebreo Jerry Nadler, che ha respinto la fusione dei due termini ricordando ancora una volta che molti critici di Israele che potrebbero definirsi antisionisti sono anche ebrei, proprio come alcuni dei colleghi presenti in aula durante il voto.
Non è la prima volta nella storia che la politica tenta di introdurre cambiamenti linguistici per decreto. In Italia ci aveva provato il fascismo con l’italianizzazione degli stranierismi e con l’abolizione del lei reciproco d’uso formale e l’introduzione forzata del voi, percepito quest’ultimo come più romano e meno femmineo, progetto naufragato in quanto gli italiani hanno continuato a darsi del lei segretamente durante il regime, per tornare a farlo liberamente dopo il ventennio. Ciò perché, come abbiamo detto all’inizio, è l’uso dei parlanti che determina il successo di un’innovazione linguistica, sono loro che danno all’innovazione il consenso necessario per perdurare.
Oggi i promotori della risemantizzazione della parola antisemitismo sembrano essere consapevoli della resistenza esercitata dall’uso e per questo appaiono cosi’ impegnati ad applicare delle strategie che nel lungo periodo potrebbero risultare efficaci: da una parte la frequenza e la quantità di interventi pubblici dove la parola antisemitismo viene usata nella sua nuova accezione di opposizione politica a Israele, dall’altra la soppressione del dissenso all’interno delle università, dove attraverso il linguaggio specialistico della teoria politica e della storia – quindi attraverso parole come sionismo e antisionismo – gli studenti acquistano e diffondono consapevolezza su questioni come quella israelo-palestinese, sui processi di decolonizzazione e riparazione nel sud del mondo e dove l’egemonia politica, economica e culturale dell’Occidente viene valutata sul piano storico rivelandone i limiti etici. In altri termini, le università sono il luogo dove vengono esposte a una critica non ideologica non solo le politiche di occupazione e segregazione poste in atto dal governo Israeliano, ma anche l’atteggiamento intrusivo delle democrazie liberali post-coloniali che alimentano conflitti in alcune aree del mondo per scopi strategici. Non a caso, giusto per citare un esempio, durante le recenti proteste universitarie presso gli atenei tedeschi, le richieste degli studenti includevano, oltre al cessate il fuoco e alla fine della collaborazione con gli atenei israeliani, anche “il riconoscimento da parte della Germania del proprio passato coloniale e della propria responsabilità nell’inasprimento della questione palestinese “.
È necessario ricordare che al tentativo della politica di risemantizzare l’antisemitismo per screditare gli oppositori di Israele, fanno da contrappeso le innovazioni linguistiche promosse proprio dal mondo accademico. Lo storico israeliano Ilan Pappe, in The Old and New Conversation (saggio introduttivo a On Palestine, Penguin, 2008), aveva già notato che il movimento internazionale di solidarietà per la Palestina ha mutato negli ultimi anni il proprio lessico politico, introducendo delle novità come la sostituzione del termine peace process (processi di pace) con decolonization (decolonizzazione) o regime change (cambio di regime). Pappe segnalava che l’introduzione di questa terminologia nel mondo accademico avrebbe contribuito a un rinnovato rigore scientifico nella ricerca di soluzioni al conflitto, perché priva delle ambiguità semantiche imposte dalla cultura politica dominante incondizionatamente a favore di Israele.
Ciò che Pappe auspicava quasi vent’anni fa sembra in qualche modo essersi realizzato oggi. Difatti, il movimento studentesco universitario adotta nelle proprie manifestazioni di dissenso il nuovo lessico di cui sopra, migrato dalle pubblicazioni scientifiche ai cartelli issati nei cortei dove abbondano i Decolonize! e Stop the apartheid. Diffonde quel lessico nella pratica della contestazione cui partecipano non solo gli studenti ma anche altri strati della società, offrendo così a un pubblico non specialistico una diversa interpretazione della questione medio-orientale, non piu’ aderente al linguaggio della politica, che la descrive come un conflitto tra due comunità nazionali, ma più coerentemente al linguaggio della storiografia e del diritto internazionale, come lo scontro tra una forza di occupazione non autoctona e una comunità locale, i cui esiti andrebbero studiati parimenti a qualsiasi altro precedente esperimento coloniale d’insediamento. Questa potrebbe essere la ragione dell’inasprimento della censura sui movimenti studenteschi da parte dei governi occidentali filo-israeliani che arriva, non senza sorpresa, insieme ai sondaggi pubblicati in vari paesi europei e negli Stati Uniti, che mostrano un’opinione pubblica sempre piu’ critica nei confronti del governo di Gerusalemme e dei suoi alleati internazionali.
Ancora una volta saranno i parlanti a decidere quali innovazioni linguistiche influenzeranno il dibattito sulla questione israelo-palestinese, se abbracciare il linguaggio della politica che è spesso strumentale alla sola ragione di stato o quello accademico che indaga le origini dei conflitti per immaginarne una fine. Al momento rimane solo questo osceno spettacolo sul quale i parlanti si dividono ancora una volta, chiamandolo guerra o genocidio, il cui bilancio è una sconfitta a prescindere che si misura sui numeri delle vittime e mai con le parole.
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