Il salario minimo legale non salverà la comunità del lavoro (ancor meno la sinistra e il sindacato)
di LA FIONDA (Matteo Falcone)
Il nuovo libro di Savino Balzano, Il salario minimo non vi salverà, edito da Fazi editore nel 2024, merita di essere discusso, non solo perché l’autore è un fromboliere della prima ora, che ha scritto un nuovo saggio che parla di lavoro (questione a cui noi frombolieri siamo parecchio affezionati), ma perché affronta il tema dell’introduzione del salario minimo legale in Italia da una prospettiva diversa rispetto a quella tradizionale.
Rispolverando e riprendendo un punto di vista che è sempre stato presente nella tradizione sindacale e socialdemocratica italiana (ed europea) – anche se oramai profondamente minoritaria – Savino Balzano non solo mette in discussione molte delle posizioni e delle argomentazioni che sono state utilizzate in questi anni per sostenerne l’introduzione, ma approfitta della discussione sul salario minimo per tornare organicamente su alcune riflessioni e concetti sulla comunità del lavoro a lui cari[1].
Dalla lettura del libro, infatti, emerge chiaramente come l’autore voglia parlare di salario minimo e discutere sull’opportunità o meno della sua introduzione nel nostro ordinamento innanzitutto invitandoci a riflettere sullo stato del diritto al lavoro in Italia e sui motivi economici e politici che hanno portato quest’ultimo nella condizione drammatica in cui versa. Un contesto che – se ben ricostruito, afferma l’autore – chiarifica bene perché il salario minimo legale è uno strumento che, a fronte di qualche beneficio, può rivelarsi rischioso per gli interessi della classe lavoratrice.
Il salario minimo legale, più che una soluzione a favore dei lavoratori e delle lavoratrici italiane, sembra essere diventata, denuncia l’autore, l’ultima spiaggia di un sindacato e di una sinistra che da tempo non riescono più a parlare al mondo del lavoro e che hanno contribuito, con le loro azioni e con le loro omissioni, a indebolirlo profondamente negli ultimi decenni.
Dopo la vittoria elettorale (sostanzialmente senza popolo) della coalizione di destra alle elezioni politiche del settembre del 2022, infatti, uno dei temi che ha unito quasi tutta l’opposizione parlamentare – da Azione (o quello che ne resta) a Sinistra Italiana, passando per il Partito Democratico e per il Movimento 5 Stelle – è proprio l’introduzione del salario minimo per legge. Oggi la linea definitiva delle opposizioni sull’argomento è contenuta nella Proposta di legge di iniziativa popolare per istituire il salario minimo in Italia, la quale mira ad introdurre nel nostro ordinamento, come è noto, un salario minimo di 9 euro all’ora.
Prima di mettere in fila le ragioni principali che hanno portato le forze politiche progressiste a sostenere una proposta di questo genere – e che costituiscono il principale oggetto polemico del lavoro di Savino Balzano – è bene ricordare brevemente come si è arrivati a questa posizione.
Già nel 2023 le opposizioni avevano presentato una serie di proposte di legge in Parlamento per introdurre il salario minimo, confluite tutte nella proposta di legge A.C. 1275, firmata, tra gli altri, dai maggiori esponenti dei partiti dell’opposizione come Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni, Matteo Richetti, Elly Schlein e Angelo Bonelli. Questa proposta è stata discussa alla Camera dal 22 marzo fino al 3 agosto del 2023, cioè fino alla contestatissima sospensiva di 60 giorni richiesta dalla maggioranza. Dopo la sospensione, il 25 ottobre 2023 è iniziato un nuovo iter di discussione della proposta di legge, in cui la maggioranza ha sostituito integralmente, con una serie di emendamenti, il testo delle opposizioni, approvando in prima lettura, il 5 dicembre 2023, le due “Deleghe al Governo in materia di retribuzione dei lavoratori e di contrattazione collettiva, nonché di procedure di controllo e informazione”, che attualmente sono a “merlare” (termine tecnico umbro) al Senato.
L’intento della destra è stato chiaramente quello di “disinnescare” il tentativo delle opposizioni di ergersi, attraverso il salario minimo legale, come l’unico schieramento politico a difesa del lavoro (anche se, a dire il vero, non ci avrebbe creduto nessuno…), affermando che con queste due deleghe intendeva davvero (a differenza delle opposizioni, ça va sans dire) rafforzare la contrattazione collettiva e tutelare i salari dei lavoratori e delle lavoratrici. A questo tentativo, le opposizioni hanno reagito prima ritirando le firme a sostegno della proposta di legge, poi avviando l’iter per la presentazione della proposta di iniziativa popolare di cui sopra.
Quello che più ci interessa di questa vicenda, però – più che la gara degli schieramenti a fare finta di tutelare i lavoratori e le lavoratrici italiane dopo avere perseguito per anni e alternatamente politiche di austerità e di deflazione salariale – sono le tre ragioni che le opposizioni hanno utilizzato a sostegno della loro proposta. Una posizione che rispecchia, a ben vedere, quella della gran parte di coloro che sostengono l’introduzione di un salario minimo legale, che vanno oltre lo schieramento partitico[2].
La prima ragione è che un salario minimo istituito con legge servirebbe a combattere il c.d. “lavoro povero”, in particolare a garantire a «3 milioni e mezzo di persone [che] lavorano con un minimo contrattuale inferiore a 9 euro lordi all’ora»[3] un reddito maggiore di quello attuale, direi più adatto (ma forse ancora non sufficiente) ad un paese civile.
La seconda, invece, è che il salario minimo legale servirebbe ad arrestare il crollo dei salari italiani, principalmente quelli causati dall’inflazione degli ultimi anni. Secondo i proponenti «chi sta pagando davvero la grande inflazione degli ultimi anni sono i lavoratori: l’Istat ci dice che tra gennaio 2021 e dicembre 2023 i prezzi al consumo sono aumentati del 17,3% mentre le retribuzioni contrattuali sono cresciute solo del 4,7%. Nel 2023, le famiglie dei lavoratori dipendenti in povertà assoluta sono cresciute al 9,15% dall’8,3% del 2022»[4]. Una delle soluzioni, secondo i promotori della proposta di legge, sarebbe proprio l’introduzione del salario minimo: «in tutti i paesi dove esiste, il salario minimo legale ha avuto un ruolo cruciale nel difendere i salari dall’inflazione» e, inoltre, «ha avuto anche l’effetto di ridurre il gap di genere, per colpa del quale le donne ricevono salari più bassi rispetto agli uomini»[5].
Il salario minimo, infine, sarebbe un utile strumento per sopperire alla contrattazione collettiva “malata” ed inefficace: secondo i promotori «l’assenza di un salario minimo, non solo espone i lavoratori a salari ingiustamente bassi, ma contribuisce anche a un fenomeno di “contrattazione malata”, dove le condizioni di lavoro e i salari vengono negoziati in modo inefficace e spesso a svantaggio dei lavoratori stessi»[6].
Questi tre obiettivi – contrastare il lavoro “povero”; aumentare il livello complessivo dei salari, soprattutto delle lavoratrici; migliorare l’efficacia e la forza della contrattazione sindacale – sono completamente condivisi dall’autore, così come ì non possono che essere condivisi da tutti coloro che, al di là delle rispettive culture politiche, desiderano vivere in un Paese ricco, prospero, che garantisce un lavoro ben pagato a tutti.
La domanda dirimente che Savino Balzano pone nel dibattito con il suo libro, però, è un’altra: il salario minimo legale è lo strumento migliore per raggiungere questi obiettivi? Ed è qui che emerge l’originalità della tesi dell’autore, sintetizzata molto bene nel titolo del suo libro. Secondo il sindacalista, considerando il contesto macroeconomico italiano e, soprattutto, l’attuale assetto di potere nel mercato del lavoro in Italia, la risposta è no: il salario minimo non contribuirà a raggiungere quei tre obiettivi, il salario minimo non salverà la comunità del lavoro.
Sul lavoro “povero”, per esempio, Savino Balzano riconosce che il salario minimo potrebbe servire ad alzare la soglia minima di tanti contratti collettivi che attualmente garantiscono una retribuzione sotto la soglia dei 9 euro, ma non sarebbe uno strumento pienamente risolutivo. Resterebbero fuori da questa tutela un pezzo importante dei lavoratori “poveri”: si pensi a tutti coloro che non lavorano con contratti collettivi nazionali di lavoro – come coloro che lavorano in nero o che conducono un lavoro formalmente autonomo, ma di fatto dipendente (si pensi alle finte-partite IVA).
Inoltre, sostiene l’autore, pensare che l’introduzione del salario minimo legale possa risolvere problemi strutturali e sedimentati profondamente nelle politiche macroeconomiche e nelle riforme del lavoro degli ultimi 50 anni – come il crollo decennale dei salari italiani o l’indebolimento del potere contrattuale dei sindacati – non solo è fuorviante, ma nel lungo periodo potrebbe essere anche controproducente.
Le argomentazioni che Savino Balzano utilizza per sostenere questa sua posizione sono sicuramente la parte più interessante del lavoro, in quanto riesce a fare emergere i nodi economici e politici di fondo che hanno rotto il patto costituzionale sulla cittadinanza, che vedeva nel diritto-dovere al lavoro un suo elemento essenziale[7] e che hanno modificato irrimediabilmente il “posto” del diritto al lavoro nella nostra Costituzione[8].
Per quanto riguarda il primo aspetto – il crollo progressivo dei salari italiani negli ultimi decenni – tutti i settori più colpiti hanno già contratti superiori al salario minimo, quindi è fuorviante pensare che quest’ultimo, soprattutto se posto sulla soglia dei 9 euro, possa risollevare le retribuzioni dei lavoratori e delle lavoratrici italiane. Savino Balzano fa notare, giustamente, come questa condizione sia il frutto di decenni di deliberate politiche di deflazione salariale, promosse trasversalmente da tutti i governi e che uno strumento come il salario minimo è completamente fuori fuoco.
D’altronde non poteva andare diversamente: parafrasando una celebre frase di Stefano Fassina, in una unione monetaria, non potendo svalutare la moneta, l’unico strumento rimasto agli Stati membri per rendere competitive le proprie economie è svalutare il lavoro. Una constatazione che il 16 aprile scorso ha fatto candidamente anche Mario Draghi – ex presidente del consiglio italiano ed ex banchiere centrale europeo negli anni dell’austerità. Nel discorso alla High-level Conference on the European Pillar of Social Rights, tenutosi a La Hulpe, in Belgio, l’ex banchiere centrale ha affermato che nell’Unione europea «abbiamo deliberatamente perseguito una strategia basata sul tentativo di ridurre i costi salariali l’uno rispetto all’altro, in aggiunta a una politica fiscale prociclica, con l’unico risultato di indebolire la nostra stessa domanda interna e minare il nostro modello sociale». Ma non bisognava di certo aspettare la confessione di Mario Draghi per capirlo. Bastava leggere gli studiosi di macroeconomia, i quali – attingendo dalla letteratura scientifica più risalente e importante della loro disciplina – ci avevano avvertito da tempo che una unione economica e monetaria, fondata sulla stabilità dei prezzi, il controllo della spesa pubblica e le esportazioni, come quella europea, non poteva che produrre questo disastroso risultato per i salari e per i diritti sociali[9].
Per quanto riguarda il secondo aspetto, invece, Savino Balzano sostiene che il salario minimo difficilmente riuscirà a incrementare la forza contrattuale del sindacato, in quanto il suo rapporto con la contrattazione collettiva dipende in prevalenza dal contesto in cui agisce: in «un contesto nel quale l’offerta di lavoro è ben assorbita dal mercato – e dunque il potere politico e contrattuale dei lavoratori è consistente (magari predominante) – indurrà il salario minimo legale a fungere da trampolino, da slancio per le retribuzioni. Viceversa, [in] un contesto nel quale a farla da padrona (davvero è il caso di dirlo) è la domanda – e conseguentemente il potere politico e contrattuale dei lavoratori è debole (probabilmente soccombente) – allora il salario minimo legale non potrà che diventare una zavorra, trascinando verso il basso, verso il minimo (appunto) le retribuzioni a oggi superiori a tale soglia, la maggior parte, finendo per impantanare in un guado senza speranze»[10].
Anche ci sono opinioni contrastanti e anche persuasive[11], se si guarda a come concretamente il sindacato ha agito negli ultimi decenni – troppo consociativo con i governi tecnici e più attento ai suoi rapporti politici con il PD, che ai salari dei lavoratori – il secondo scenario ci sembra quello più verosimile. Un’impressione rafforzata anche dalle considerazioni, molto persuasive, che Savino Balzano fa sulla nuova Direttiva (UE) 2022/2041 relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea, altra bandiera sventolata dalle forze partitiche progressiste.
L’autore mette bene in evidenza come la Direttiva rende il salario minimo uno strumento molto coerente con l’impostazione neoliberale delle politiche economiche degli ultimi decenni. La direttiva raccomanda di tenere conto, nel momento in cui si determina la soglia minima del salario, dei livelli di produttività del lavoro, consegnando all’andamento macroeconomico (che molto spesso non dipende dai lavoratori e dai loro sforzi giornalieri) e alla volontà politica contingente la definizione del salario minimo[12].
Insomma, altro che misura che rafforza il potere contrattuale dei sindacati: il salario minimo legale, che di fatto consegna alla maggioranza politica di turno la scelta del “minimo” salariale, rischia pericolosamente di essere il “vincolo esterno” della contrattazione collettiva, il commissariamento definitivo di una parte importante della contrattazione da parte della politica e del legislatore.
Proprio in merito a questo aspetto, fanno riflettere le parole amare dell’autore, che afferma: «penso che non vi sia nulla di più lontano dal socialismo dello schema che per cui i lavoratori si rassegnino ad un mondo nel quale sia qualcun altro a determinare il loro destino, tanto più sulla base di parametri distantissimi da quelli indicati dalla nostra Carta fondamentale. Credo che sia tutt’altro che socialista l’idea per cui lavoratori si impieghino alla logica del minimo è che non vi sia nulla di ambizioso, desiderabile o visionario in ciò»[13].
Per Savino Balzano, dunque, il salario minimo non salverà la comunità del lavoro, fintanto che la questione salariale non verrà affrontata innanzitutto in termini macroeconomici, collettivi e sistemici.
Nella parte finale del suo lavoro, l’autore sostiene, anche se in modo alquanto pessimistico rispetto alla sua buona riuscita, che la vera battaglia politica da compiere è ritornare a pretendere una politica economica che punti alla piena occupazione, che metta il sindacato e la comunità del lavoro nelle condizioni di pretendere non solo una retribuzione più alta, ma una condizione di vita e di lavoro dignitosa, come la Costituzione prescrive.
Una condizione che impone di guardare alla questione salariale in modo complessivo. Il salario, mette in evidenza Savino Balzano, è solo una parte della più ampia questione reddituale, «che è collettiva, sistemica: retribuzione significa anche distribuzione delle risorse, diffusione della ricchezza, equità sociale»[14], tutto quel complesso di garanzie contrattuali (come i buoni pasto) e servizi pubblici che mettono nelle condizioni il lavoratore e la lavoratrice di partecipare alla vita politica del Paese. Questo è un ulteriore limite della discussione sul salario minimo, tutta centrata sul compenso sulle ore lavorate.
Per concludere, dunque, Savino Balzano – con un testo reazionario, potremmo dire – complica un bel po’ la vita a tutti coloro che, muovendo da una tradizione socialista, vedono nel salario minimo la nuova battaglia da fare a tutti i livelli di governo. Ebbene sì, dice l’autore «questo è un testo reazionario, che reagisce ai crimini perpetrati a danno del mondo del lavoro, che oggi è il mondo di chi è più debole, sfruttato e strumentalizzato. Rappresenta il tentativo di dare un contributo alla causa del lavoro, provando ad alimentare una visione ormai perduta, a ricostruire una coscienza mestamente sopita, perché solo attraverso un preciso modello di lavoro si può pervenire alla vera democrazia e alla vera libertà. E solo attraverso quel modello di lavoro si può vivere una vita autenticamente dignitosa come individui e come popoli»[15]. Buona lettura.
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