Prove tecniche di tempesta perfetta
DA LA FIONDA (Di Fabio Vighi)
‘Noi siamo’ egli disse ‘pensieri nichilisti, pensieri di suicidio, che affiorano nella mente di Dio’ (Max Brod da una conversazione con Kafka).
In una delle scene più spesso citate del film Night Moves (Bersaglio di notte, 1975) di Arthur Penn,troviamo Gene Hackman (l’investigatore privato Harry Moseby) seduto nel suo studio davanti a un piccolo televisore in bianco e nero, mentre guarda svogliatamente una partita di football americano. Quando la moglie entra e gli chiede “Chi sta vincendo?”, lui borbotta, “Nessuno. Una squadra perde più lentamente dell’altra”. Il merito di Night Moves, e di altri film della New Hollywood, è stato l’aver intuito che la crisi degli anni ’70 era integrale al crollo terminale del modello di socializzazione capitalista: una debacle insieme socioeconomica, culturale e psicologica che da qualche anno è entrata nella sua fase più calda (che questa volta Hollywood ha deciso di rimuovere).
Dopo un paio di decenni di collasso al rallentatore, la turbo-accelerata implosiva degli ultimi anni prevede ora una condizione di destabilizzazione permanente – le forever wars. Si tratta, innanzitutto, di un cambio di narrazione che assomiglia al disturbo delirante-paranoico di chi vede ovunque un “nemico alle porte” e un’“invasione imminente”. In realtà, è banale e vigliacca ideologia. Quando i burocrati della Fortezza Europa sostituiscono decenni di promesse di eterno benessere con il kit di sopravvivenza per giovani marmotte (il patetico invito a prepararsi a “72 ore di autosufficienza”), i sudditi dovrebbero ribellarsi, in primis, contro la solenne presa per i fondelli.
Ora che la pantomima elettorale USA è finalmente terminata (con la vittoria del candidato preselezionato da Wall Street) probabilmente cominceranno i fuochi d’artificio – magari innescati da qualche missile occidentale a lungo raggio fatto lanciare su territorio russo. Nel frattempo, continua l’estasi speculativa: i mercati USA stracciano record su record, trainando Bitcoin e tutto il cripto-spazio sponsorizzato da Trump; che, ricordiamolo, è l’uomo dei tassi negativi, e che dunque farà qualsiasi cosa pur di inondare le banche di easy money e spingere la ricchezza sempre più in alto, alla faccia di quella working class impoverita che lo ha votato al grido di MAGA. Ma l’euforia finanziaria è una tragica farsa che non nasconde ma accelera l’irreversibile degrado socioeconomico degli Stati Uniti (e subalterni). Passata la sbornia post-elettorale, la nuova amministrazione dovrà tornare a fare i conti sia con un debito federale iperbolico che con la conseguente dinamica espansiva della svalutazione monetaria.
Liquidità in riserva
Uno sguardo alle operazioni RRP (reverse repo) della Federal Reserve ci dice che stiamo tornando al settembre 2019 (e prima ancora al 2007), quando la forte turbolenza nei mercati dei prestiti repo cominciò a esigere iniezioni monetarie straordinarie. In sostanza, il reverse repo della Fed oggi certifica che la liquidità dell’interbancario si sta sciogliendo come neve al sole; e che per innaffiare lo schema Ponzi su cui si regge “la più grande economia del mondo” occorre ben altro che i vasi comunicanti della facility repo. Quest’ultima permette alla Fed di immettere liquidità con acquisti di titoli di debito, per poi assorbirne l’eccesso con l’operazione opposta, ovvero vendendo i medesimi asset a quelle banche che, parcheggiando le loro riserve presso la Fed, ne vengono ripagate con gli interessi (reverse repo). Si tratta, insomma, di un gioco delle tre carte con cui si crea illusione di stabilità nel money market in assoluto più importante.
Se dunque il reverso repo della Fed entra in riserva, significa che banche e istituti finanziari stanno esaurendo quella liquidità che si contendono per finanziare i magheggi da capitalizzazioni record. E se aggiungiamo che i rendimenti del benchmark del debito sovrano USA (il T-note decennale) continuano a lievitare oltre il 4% nonostante i tassi d’interesse siano stati sensibilmente abbassati, diventa difficile ignorare il cono d’ombra della tempesta perfetta in rapido avvicinamento – simile a quella che, partita sempre dai mercati repo nel settembre 2019, stese il tappeto rosso a Virus e al relativo bazooka monetario emergenziale. Come sempre, tout se tient: quando si tratta di rinviare gli effetti catastrofici della trappola del debito, possiamo esser certi che la macchina del potere USA metterà d’accordo i suoi variegati rappresentanti (Partito della Guerra, Alta Finanza, Deep State, ecc.); e, chissà, anche qualcuno tra i suoi nemici geopolitici.
I segnali di un nuovo incidente controllato, finalizzato all’allentamento dei cordoni monetari, ci sono tutti: dalla Fed che mette in guardia da shock inflattivi, alla BCE che vorrebbe abbassare ulteriormente i tassi; dal prezzo dell’oro che spinge, a Cina e Giappone che scaricano camionate di debito USA; dal colpo di coda sul fronte russo di “sleepy Joe” (già defenestrato eppure mai così arzillo); al declino europeo in modalità warp speed. La crisi di governo tedesca – figlia di un micidiale autolesionismo economico (Green New Deal e sanzioni alla Russia) – certifica che la terza economia mondiale ed ex locomotiva d’Europa è destinata a un drammatico ridimensionamento, insieme a tutta la combriccola UE. Ma, come anticipato, è il “sistema” a essere marcio fino al midollo. Se sopravvive nella forma attuale è solo grazie al marketing di emergenze che funzionano anche quando sono in fila d’attesa. L’impossibile, oggi, sembra essere fare i conti con un fallimento di civiltà che è perfettamente riuscito, ma che viene pervicacemente rimosso.
Bellicismo ansiogeno
In vetta alla classifica degli eventi ansiogeni rimane saldo il fantasma della Terza Guerra Mondiale: musica, ça va sans dire, di Vladimir Putin; parole della Commissione europea (che tifa warfare per far cassa con l’emissione di bond per la difesa); e regia hollywoodiana. Per quanto le guerre moderne non siano affatto produttive di valore economico reale, solo il minacciarne di nuove torna utile sia come macabro argine alla caduta dei PIL, sia come ulteriore supporto alla bolla tech (senza contare l’ovvio ruolo ideologico che lo spettro della guerra riveste nel mistificare le vere ragioni della crisi). In breve, warfare chiama QE, ovvero endovenose monetarie contro il congelamento dell’interbancario, e tutta la catena di sfracelli che comporterebbe.
La nebbia emergenzialeè da tempo la merce più preziosa nelle mani di chi controlla i flussi di denaro. È l’ultima criminale risorsa rimasta alla gloriosa civiltà del profitto, le cui popolazioni assomigliano sempre più a moltitudini di zombie in marcia verso il precipizio, con gli auricolari infilati negli orecchi e gli occhi fissi sullo smartphone. Pensiamo solo, per inciso, a quanto tempo potremmo liberare a miglior uso se non fossimo prosciugati dalla dipendenza da smartphone, ultimo stadio di un depressivo processo di atomizzazione (vergognosamente spacciato per il suo opposto) che si traduce, tra le altre cose, nell’indifferenza di massa rispetto agli orrori perpetrati “là fuori” – come il maciullamento di corpi sotto bombe “democratiche” che “Paesi liberi” forniscono a uno stato “amico e sovrano” dedito al genocidio.
In termini sistemici, la logica in atto è tanto semplice quanto perversa: l’odierno “libero mercato” è schiavo di una serie ininterrotta di cortocircuiti globali che fungono da alibi per generare “fondi” dal nulla economico; fondi che poi vengono abilmente incanalati verso i mercati obbligazionari e azionari. La geopolitica è, in questo senso, pura deterrenza finanziaria. Jean Baudrillard fu profetico nel definire l’Occidente ‘uno spazio totalitario – lo spazio di un’egemonia autodifensiva che difende sé stessa dalla propria debolezza’[1]. Il rumore della guerra (contro nemici veri, immaginari, creati ad arte – non importa) dev’essere continuo e assordante per garantire due dinamiche essenziali al prolungamento dello status quo: il supporto a un settore speculativo sempre più autoreferenziale; e la demolizione controllata dell’infrastruttura socioeconomica reale, che fino a mezzo secolo fa era ancora ritenuta essenziale come “società del lavoro”, dunque calibrata sugli ideali della mobilità sociale, del benessere delle classi medie, e del consumismo quale insuperabile orizzonte antropologico di massa. Quell’epoca è definitivamente tramontata. E verrebbe da esserne felici, se non fosse che viene sostituita da un modello capitalistico di signoraggio neofeudale su base tecnologica al cui peggio (inclusa l’eliminazione malthusiana di ampie porzioni di umanità improduttiva) non sembra esserci fine. Ovviamente, il cittadino occidentale pensa sempre di farla franca: non toccherà mai a lui; al limite saranno altri poveracci a lasciarci le penne.
Eppure, nonostante la propria incorreggibile imbecillità, persino il sobrio citoyen europeo, figlio dei valori dell’Illuminismo, comincia a percepire l’odore di bruciaticcio – e del si salvi chi può. Avrà forse intuito che derivati e bombe sono due facce della stessa medaglia, e che chi controlla la galassia dei derivati, e annessa leva finanziaria, di norma decide, come minimo, chi spara per primo? Ridotto a pura finzione speculativa coordinata dalle banche centrali, il capitale non può che devastare il mondo costituzionalmente fondato sul lavoro, fino a rinchiuderlo nella prigione digitale (dal denaro elettronico alle smart cities dotate di telecamere di sorveglianza con riconoscimento facciale) in cui ci stanno già murando vivi. Rimarrà qualche luogo in cui imboscarsi? Magari per progettare forme di socializzazione realmente alternative? Domande consolatorie.
Il punto centrale, intorno a cui affinare ciò che rimane del pensiero critico, è il seguente: le speculazioni a leva su un enorme aggregato di valore fittizio, che deve rimanere perennemente irrealizzato per non manifestare il proprio vuoto, sono un sanguinario gioco di specchi. Il trucco funziona solo nella misura in cui il denaro senza sostanza – mandato a gonfiare, in primis, i mercati del debito – non viene rivendicato come reale riserva di valore. L’enorme onere debitorio, motore ed epicentro dell’estasi speculativa, viene così rimesso alle generazioni future, insieme a tutte le carneficine a venire. È da questo diabolico meccanismo, all’apparenza ineluttabile, che dovremo innanzitutto emanciparci – ricordando però che il capitale virtuale delle bolle finanziarie ha già colonizzato il modo di produzione reale, e che dunque ogni serio tentativo di disfarsene non può non implicare una radicale messa in discussione dell’esistente.
Negazionismo economico
Il criminale Truman Show in cui viviamo sta velocemente accelerando verso il denouement, il punto in cui, come nel film di Peter Weir, la barca a vela sfonda l’orizzonte di cartone. I padroni della globalizzazione affogano in un mare di debito e di consumo improduttivo (il che non è privo di ironia: gli USA stanno morendo di quella malattia che per decenni hanno inflitto ad altri paesi per spolparli vivi). Detto diversamente, la nazione più potente al mondo è impegnata in una inutile e catastrofica lotta esistenziale contro il declino della propria egemonia globale, costruita ormai su una montagna debitoria cresciuta dai 900 miliardi di dollari dell’amministrazione Reagan (1981), agli oltre 35.000 miliardi odierni (mentre il rapporto debito/PIL è passato dal 30% al 122%). Per quanto la questione del debito, considerata nel contesto delle umane passioni, non siagià di per sé piuttosto stupida, la parte più ridicola della vicenda è che la superpotenza super-indebitata e super-improduttiva ha ora bisogno dell’inflazione per continuare il suo sporco gioco. Gli Stati Uniti necessitano di tassi reali negativi: l’inflazione dev’essere superiore al rendimento del debito se si vuol provare a monetizzare i sempre meno amati Treasuries (soprattutto T-notes e T-bills, titoli di debito a breve e medio termine). Per quanto noiosa, la matematica del debito ci conferma che il sistema è già in bancarotta. E i negazionisti di tale insolvenza spingono il sistema verso “soluzioni estreme”.
Oggi, il capitale può continuare a macinare profitti solo impedendo che la massa montante di cambiali riveli il proprio status di spazzatura. Tale necessità richiede numerosi mazzi truccati, insieme a strategie distruttive. E poiché gran parte dei giri d’affari globali sono in un modo o in un altro ancora “garantiti” da titoli del Tesoro USA – debito negoziato h24 in ogni sede finanziaria del mondo – sembra legittimo concludere che siamo tutti immersi nella medesima “necessità”. Da qualche anno, però, il declino dell’Occidente sta convincendo diversi attori geopolitici a chiamarsi fuori da una mano di poker in cui il banco è palesemente moroso. La de-dollarizzazione in corso non può che apparire logica in termini di pragmatismo capitalista, ma evidentemente ha già innescato conflitti intra-sistemici (Ucraina, Medio Oriente) che potrebbero espandersi fino a soddisfare pulsioni apocalittiche. Tutto ciò sempre nell’ambito delle “magnifiche sorti e progressive” – i falsi idoli del progresso occidentale già scherniti da Giacomo Leopardi.
Il negazionismo economico del “tutto s’aggiusta” si esprime attraverso varie metriche fuorvianti, tra cui il famigerato PIL. Oggi il PIL di un Paese, nei pochi casi in cui si suppone registri ancora una qualche timida crescita, riflette semplicemente la quantità di credito impiegata in quell’economia. Ingegnerizzare e poi propagandare una qualsivoglia crescita dello “zero virgola” sulla base di oceani di credito creati dalla banca centrale di riferimento è una tattica puerile che riassume lo stato di regressione cerebrale della nostra civiltà. Inoltre, la continua estensione di linee di credito ha come effetto cumulativo la distruzione di quelle unità di debito che sono le valute fiat. La storiella ancor’oggi venduta al pubblico che, nonostante le voragini fiscali, si tornerà presto a una “nuova età dell’oro” (D. Trump), è tanto assurda quanto disperata. È come eseguire un intervento di chirurgia estetica sul corpo di un nonagenario affetto da tumore al quarto stadio. È quindi una menzogna, il cui unico scopo è sostenere il capitale fittizio dei mercati azionari.
Mentre l’attuale manipolazione finanziaria continua a spingere ricchezza e privilegi verso l’alto, la “libertà” di intere popolazioni viene presa in consegna da un “capitalismo di crisi” inevitabilmente votato all’autoritarismo (la famosa “ascesa della destre”, di cui ci piace tanto stupirci), ma ancora spacciato per insuperabile modello democratico di crescita e sviluppo; davanti al quale – scrivevano Adorno e Horkheimer già nel 1944 – i dominati ‘si credono impotenti’: ‘Impenetrabile a ogni singolo è la selva di cricche e d’istituzioni che, dai supremi posti di comando dell’economia agli ultimi rackets professionali, provvedono alla continuazione infinita dello status quo.’[2]
No global, no party?
Lo status quo si autoalimenta ancora grazie alla globalizzazione dollaro-centrica, le cui basi furono poste proprio nel 1944 a Bretton Woods (New Hampshire), quando le principali valute vennero ancorate al dollaro USA, che a sua volta fu fissato all’oro ad un tasso di 35 dollari l’oncia. Nel corso della seconda metà delXX secolo, quest’ordine monetario si è dovuto adeguare alle esigenze del capitale, tra cui la nascita di un “ciclo di deficit” tra gli Stati Uniti e paesi dell’Asia orientale. A partire dagli anni ’70, gli Stati Uniti hanno 1) ridotto drasticamente la loro base industriale; 2) iniziato a sostenere ampi deficit commerciali; 3) permesso ai propri capitali di penetrare paesi con enormi riserve di manodopera a basso costo, come la Cina. La fabbrica mondiale si è silenziosamente spostata da un luogo all’altro del pianeta, seguendo la naturale inclinazione del capitale a sfruttare la forza lavoro più povera e meno regolamentata.
Il 1971 fu l’anno in cui il presidente Nixon svincolò il dollaro dall’oro per poter “liberare” le valute dall’ultimo ancoraggio nella realtà sostanziale, inaugurando così l’epoca della svalutazione strutturale (dai 35 dollari del tasso fisso, l’oncia d’oro ha recentemente superato i 2.700 dollari). Sempre nel 1971 Nixon revocò l’embargo commerciale contro la Cina comunista, che durava da 21 anni (un nuovo accordo commerciale bilaterale entrò in vigore nel 1980). Se a inizio anni ’70 la Cina rimase perlopiù un immenso mercato in cui vendere piuttosto che produrre merci, le politiche riformiste introdotte da Deng Xiaoping nel dicembre 1978 (Mao era morto nel 1976) iniziarono a invertire la direzione di marcia di produzione e commercio globali. Deng, in altre parole, aprì le porte della Cina ai capitali statunitensi, in specie con la creazione di Zone Economiche Speciali (inizialmente a Shenzhen, Zhuhai, Shantou e Xiamen). Da allora, molte corporations con sede negli Stati Uniti – tra cui Nike, Apple e Walmart – iniziarono a incrementare i loro profitti spostando la produzione in Cina, che così divenne il nuovo centro transnazionale di creazione di valore.
Il risultato è da tempo davanti ai nostri occhi: la Cina, nuova “fabbrica del mondo”, sforna beni a basso costo che gli Stati Uniti importano e consumano grazie alla loro “industria” finanziaria. Gli USA hanno quindi potuto estendere le catene di debito e deficit grazie a uno storico do ut des: da un lato hanno delegato la produzione manufatturiera alla Cina (e altri paesi asiatici), e dall’altro hanno risucchiato gran parte dei profitti reali globali grazie al combinato di Wall Street e dollar dominance. Poiché anche i nuovi paesi produttivi continuavano a dipendere dal biglietto verde per il commercio internazionale, non avevano altra scelta che 1) vendere le loro merci sui mercati statunitensi (e dell’Occidente collettivo); e 2) investire i loro surplus in azioni e obbligazioni denominate in dollari.
Una parte sostanziale dei ricavi dei partner commerciali degli Stati Uniti si è dunque riversata sui mercati finanziari americani. Negli anni ’90, questo afflusso di capitale estero ha alimentato l’espansione a deficit dell’industria militare statunitense (che ha trasformato gli Stati Uniti nel “poliziotto globale”), gonfiando al contempo enormi bolle obbligazionarie, azionarie, e immobiliari, che a loro volta hanno sostenuto un nuovo boom dei consumi (il 70% del PIL statunitense si basa tuttora sulla spesa interna). In sostanza, gli Stati Uniti hanno in buona parte basato la loro crescita economica di fine millennio su quei capitali stranieri cui avevano demandato la produzione reale. Nei primi anni 2000, questa globalizzazione costruita sul potere di suzione del dollaro, ha determinato una co-dipendenza relativamente stabile tra il consumo sempre più improduttivo degli Stati Uniti e la produzione asiatica trainata dall’export – grazie anche al fatto che l’esercito statunitense sosteneva la propria valuta attraverso le guerre assassine del post 11 settembre 2001. Tuttavia, dopo il crash del 2008, il compromesso si è rapidamente deteriorato in un vortice globale di espansione monetaria fittizia, ora ingestibile con la sola politica economica convenzionale.
Queste semplici osservazioni dovrebbero da sole convincerci ad abbandonare l’idea che le economie nazionali coordinino i loro rapporti in modo autonomo. È invece il movimento transnazionale e impersonale del capitale a determinare la maggior parte delle scelte dei singoli paesi. Solo oggi il capitale è all’altezza del proprio nome: una totalità anonima, metafisica, e tirannica che sovrintende quasi tutto ciò che avviene sul (e intorno al) pianeta. Ma a causa della miopia positivistica della scienza economica, si continua a ignorare come la condizione attuale sia il rovinoso risultato dell’erosione interna dell’accumulazione capitalistica reale. Anche i volenterosi di spirito faticano a comprendere che non esiste più alcuna sana dinamica di accumulazione reale. Nessun meccanismo di crescita basato sull’estrazione di plusvalore dal lavoro può salvarci dalle sabbie mobili dei programmi simulati di creazione monetaria su base emergenziale. È in rapporto a questa elementare costatazione che gran parte della cosiddetta sinistra continua a mancare clamorosamente il bersaglio. Sia rispetto alla crisi del 2008 che alla sua seconda recente ondata – mascherata dalla cosiddetta “pandemia” – i movimenti della sinistra tendono perlopiù a imputare l’implosione socioeconomica all’avidità finanziaria, ribaltando così il rapporto tra causa ed effetto; o tra malattia e sintomo.
Il precario equilibrio di una globalizzazione costruita sul loop tra consumo USA ed export cinese si è dunque fatalmente corroso. Questo sia perché il PIL cinese sta raggiungendo il modello occidentale della dipendenza da capitale fittizio (creditizio); sia, soprattutto, perché l’asset di riserva mondiale (il dollaro USA) rappresenta un debito di tale entità da mettere in discussione la solvibilità dell’egemone. Dopo la recente confisca di 300 miliardi di dollari di attività russe in Occidente, ormai anche i più devoti filoatlantici cominciano a rendersi conto di quanto sia pericoloso fidarsi del dollaro.
Pozzi avvelenati
Quali sono, allora, le prospettive per il prossimo futuro? (Domanda evidentemente retorica). L’attuale rally del mercato azionario statunitense sembra il classico fuoco di paglia di matrice neoliberista (deregulation bancaria e monetaria), che minaccia un collasso di tali dimensioni da dover essere tamponato da applicazioni sempre più estreme di manipolazione e totalitarismo – ovvero, dalla “gestione” biopolitica di popolazioni impoverite (tra cui l’introduzione di una nuova infrastruttura monetaria basata su asset digitali tokenizzati controllati centralmente). Altrove, si fa incetta di beni durevoli, tra cui oro, argento, petrolio e terre rare. Se la bolla azionaria dovesse scoppiare, Cina, Russia, India e altri Paesi BRICS avrebbero almeno una copertura parziale (al netto delle difficoltà oggettive di battere nuova moneta comunitaria). Ma poiché la causa ultima della crisi è che il valore totale prodotto si sta riducendo velocemente, i capitali individuali, o nazionali, possono tenere la testa sopra il pelo dell’acqua solo per un breve lasso di tempo, e nessuno può sfuggire al proprio destino socialmente interconnesso.
In altre parole, la svalutazione – manifestazione esteriore del collasso del capitale – si presenta come fenomeno globale irreversibile, ovvero coinvolge l’intera riproduzione delle società capitalistiche nel quadro di una generale espansione compensativa del credito. E poiché il capitalismo a leva finanziaria ha già consumato il proprio futuro (le speculazioni finanziarie, come anticipato, sono illusioni di futura valorizzazione reale), non rimane che prolungare l’agonia del presente, whatever it takes. Ciò vale soprattutto per gli Stati Uniti, che cercano la rissa geopolitica anche per contrastare il deleveraging di Treasuries, potenzialmente contagioso, da parte di detentori di primordine come Cina e Giappone. Di certo, davanti al quadro di un generale smarcamento dal dollaro, gli USA non resteranno fermi a guardare. Teniamo dunque a mente che dietro ogni escalation bellica c’è una guerra finanziaria, che nel nostro caso metterà a dura prova la fedeltà degli alleati, anche in Europa.
Chi punta sulla guerra scommette sull’inflazione (sul suo potere taumaturgico rispetto al debito) e sulla deriva totalitaria: più un conflitto è distruttivo, più fornisce giustificazioni per stampare moneta e implementare regimi di controllo fisico e razionamento di beni e servizi. Il Covid è servito anche a questo – a addestrare le popolazioni a segregazione e sudditanza civile. Dopo il grande esperimento della psico-pandemia, il villaggio globale è sempre più popolato da strane creature programmate per combattere, inter alia, la grande guerra dei pronomi inclusivi di genere piuttosto che comprendere e contrastare i processi della macchina di morte chiamata capitale. C’è ancora tempo? Parafrasando Kafka: “c’è un’infinità di tempo nell’universo, ma non per noi”.
[1] Jean Baudrillard, The Agony of Power (Los Angeles: Semiotext(e), 2010), p. 105. Traduzione mia.
[2] Theodor Adorno e Max Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo (Torino: Einaudi, 1966, p. 47). Oggi, evidentemente, persino filosofi del calibro di Adorno e Horkheimer verrebbero additati come complottisti.
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