Ordinare il Caos
di GIUBBE ROSSE NEWS (Enrico Tomaselli)
C’è un passaggio, nell’intervista rilasciata da Lavrov a Tucker Carlson, che mi ha colpito [1], ed è quando dice che gli Stati Uniti creano il caos e poi vedono come utilizzarlo. Effettivamente, e soprattutto a partire dalla caduta dell’URSS, la politica estera statunitense sembra assolutamente uniformata a questo principio base, creare il caos (nella più assoluta indifferenza per ciò che poi significa per milioni di persone), e solo successivamente porsi il problema di come trarne concretamente vantaggio. Naturalmente si potrebbe aprire un’ampia riflessione su ciò, sulle ragioni profonde che lo determinano, ma non è ovviamente questa la sede opportuna. Vale qui semplicemente il tenere a mente questa caratteristica della politica imperiale americana, poiché spesso si tende ad attribuirvi una progettualità strategica che semplicemente non c’è, laddove – appunto – c’è invece la convinzione che il caos sia sempre e comunque foriero di opportunità, e che in linea di massima avvantaggi sempre gli USA più che i suoi avversari.
Se guardiamo adesso a quanto sta accadendo in Siria, tenendo presente questo assunto, possiamo provare – in linea puramente teorica ed astratta – ad ordinare il caos, ovvero a cercare di identificare il senso degli avvenimenti.
La premessa necessaria (ma che non implica alcuna spiegazione complottista) è che negli accadimenti di questi giorni c’è, sotto molti aspetti, un margine di inspiegabile – o meglio, di non spiegato, non chiarito.
Guardando ai fatti in ordine cronologico, il primo gap è: come è stato possibile che l’intelligence di tre paesi (Russia, Iran e Siria) non abbia avuto alcuna contezza di ciò che si stava preparando nella provincia di Idlib? O ancora meglio, come è stato possibile che siano stati sottovalutati a tal punto i segnali che, sicuramente, erano stati rilevati? In questo – e sottolineo ancora una volta, senza alcun suggerimento complottista – c’è in fondo una certa similitudine con il 7 ottobre e l’operazione Al Aqsa Flood. Probabilmente un mix di sottovalutazione del nemico e sopravvalutazione di sé stessi.
Il secondo gap, sempre a livello di intelligence, è: come hanno fatto i consiglieri militari russi e iraniani, che pure sono presenti in Siria da un decennio, a non rendersi pienamente conto dello sfaldamento dell’esercito siriano? Sfaldamento che in questi giorni sta emergendo non solo dalla evidente incapacità difensiva, ma anche da tutta un’altra serie di fattori, che ne hanno evidenziato la preesistenza rispetto all’offensiva jihadista.
Il terzo gap è, appunto, l’incredibile velocità con cui l’Esercito Arabo Siriano è collassato, di fronte a quella che – in ogni caso – rimane l’offensiva di alcune decine di migliaia di guerriglieri, privi di copertura aerea, di forze corazzate e di significativo supporto d’artiglieria. Collasso che si è tradotto in un susseguirsi di ripiegamenti senza sostanzialmente mai affrontare il combattimento, e che ha portato due divisioni di tagliagole a conquistare in pochi giorni quasi metà del paese.
Quarto, e forse più inspiegabile gap, è: cosa ha determinato l’evidente incapacità di rispondere tempestivamente alla situazione, da parte sia del governo siriano, sia ancor più da parte russa e iraniana? E come è possibile che questo intorpidimento del pensiero strategico stia addirittura determinando l’insorgere di una qualche divaricazione tra gli alleati? Lo scarto tra l’importanza della posta in gioco, e la lentezza della reazione, è considerevole, ed a tutt’ora privo di una spiegazione pienamente comprensibile.
Per quanto – come sottolineato più volte – la situazione siriana sia, non a caso, una delle più complesse, vuoi per il ruolo strategico ricoperto dal paese, vuoi per la varietà degli attori in campo, a sorprendere è l’arrendevolezza al caos da parte di soggetti altrimenti provatamente capaci di un pensiero strategico profondo. Una qualsiasi reazione sbagliata, o anche soltanto inefficace, sarebbe apparsa più comprensibile di questo sbandamento.
A ben vedere, peraltro, non è nemmeno sicuro se c’è qualcuno che abbia davvero le idee chiare; sembra quasi che in molti siano convinti di giocare la propria partita, mentre in effetti sono a loro volta pedine. Il caos per il caos, appunto.
Di sicuro i turchi, che con il loro laissez faire hanno consentito la preparazione e l’avvio dell’operazione jihadista, pensavano e pensano di trarre vantaggio da questa situazione, probabilmente nella convinzione che possa servire ad ottenere quel che non erano riusciti ad avere tramite il famoso (o forse dovremmo dire famigerato) formato di Astana. Ovvero una buffer zone lungo il confine siro-turco, sotto il controllo delle proprie milizie (l’SNA). Ma l’obiettivo strategico di Ankara è la disattivazione della minaccia curda, ed affinché ciò si realizzi non basta la buffer zone, serve soprattutto mantenere l’integrità territoriale siriana – altrimenti sarà inevitabile la creazione di una enclave curda.
Allo stato attuale, la forza largamente predominante è quella dell’Hayat Tahrir al-Sham di Abu Mohammad al-Julani, che di sicuro non è in controllo turco come il Syrian National Army. Anzi, probabilmente non è in controllo di nessuno, non nei termini così stringenti e automatici cui lo si immagina. Di sicuro, però, è molto più influenzato dagli USA, che non sono esattamente i migliori amici di Erdogan, e di sicuro hanno altri interessi. Uno dei quali è, appunto, usare non una ma due leve: l’HTS e le SDF curde.
In ogni caso, specie nell’eventualità che la prospettiva di un ritiro statunitense dal territorio siriano si concretizzi nell’anno a venire, non se ne andranno senza lasciare sul campo un proprio proxy, la propria pedina. E i curdi sono di gran lunga più affidabili, sotto questo punto di vista. La rottura dell’integrità nazionale siriana, dal punto di vista delle strategie americane, è sicuramente la soluzione più confacente, e quindi la Turchia ne uscirà assai meno vincitrice di quanto creda o speri.
A loro volta, i curdi probabilmente trarranno qualche vantaggio limitato da tutto ciò. Lo sfaldamento dell’esercito siriano, infatti, sta lasciando spazio alle SDF per allargare la propria area di controllo. E – non va dimenticato – i curdi hanno resistito per anni alla pressione dell’Isis, delle milizie turcofone e dello stesso esercito turco, quindi difficilmente subiranno adesso una qualche sconfitta strategica, da parte di alcune migliaia di jihadisti. Che, oltretutto, sembrano più interessati a tenere a bada l’SNA filo-turco che non le SDF filo-USA.
Il gioco degli attori non-statuali è tutto qui.
Israele per il momento sta a guardare, ma ovviamente la destabilizzazione della Siria è un vecchio sogno, che quantomeno porta ad una seria difficoltà nel transito dei rifornimenti dall’Iran verso il Libano. E dunque, anche senza un intervento diretto, ha a sua volta tutto da guadagnare dal come stanno andando le cose. Oltretutto, il jihadismo mai una volta nella storia ha minacciato lo stato ebraico, quindi non è certo di quello che ha da preoccuparsi. Alle brutte, lanciare le brigate Golani e Nahal oltre le alture del Golan, per prendersi un’altra fetta di Siria, servirebbe al triplice scopo di spostare un po’ più in là il confine, soddisfare la brama di territori dei vari Smotrich e Ben Gvir, e soprattutto rivendicare – finalmente! – almeno una vittoria che è una.
La domanda vera, quindi, è che partita stanno giocando gli altri attori, quelli – diciamo così – dall’altra parte? Quale sia l’idea del governo siriano (cosa pensino della situazione sul terreno, e come pensano di uscirne) è forse più semplice da decodificare. A meno che non siano totalmente rimbecilliti in massa, è sin troppo evidente che qui si conclude l’era della dinastia Assad, per la quale la miglior prospettiva è un esilio dorato a Mosca. Ragion per cui, probabilmente, i siriani preferiscono agganciarsi al carro russo, piuttosto che a quello iraniano.
Damasco che rifiuta l’offerta iraniana di due brigate (“chiedetecele e le mandiamo”), e fa un improponibile appello agli Emirati Arabi Uniti, all’Egitto, alla Giordania e persino alla Turchia affinché aiutino a respingere l’attacco jihadista, traccia in modo chiarissimo il quadro: Assad dà per persa la partita, e quindi non è interessato a tentativi di salvare la situazione, ma solo a salvare se stesso.
La percezione di questo stato di cose ovviamente non può non condizionare l’esercito siriano, su cui – in ogni caso – non può che ricadere gran parte dell’onere di reggere l’urto, soprattutto fintanto che gli alleati non saranno in grado di affiancarli sul campo (sempre se). A questo punto sarebbe quasi auspicabile un putsch militare, per esautorare – almeno sostanzialmente – il clan Assad, ed assumere il controllo di ciò che resta del paese.
Mosca, dal canto suo, sembra muoversi a sua volta nella convinzione che non ci sia più tempo per riparare la situazione, e che quindi sia meglio puntare a salvare il salvabile (leggi le basi di Hmemimim e Tartus). Da un lato, infatti, viene detto chiaramente che sono in tutt’altre faccende affaccendati, e che quindi possono dare una mano limitatamente; dall’altro, insistono nel cercare una soluzione all’interno del formato di Astana, anche se la Turchia parla apertamente dell’opportunità che l’HTS arrivi a Damasco. E infatti dall’incontro trilaterale di Doha non è uscito sostanzialmente nulla. Su cosa basino la convinzione che potranno salvare (come? a quali condizioni?) le proprie basi militari non è per niente chiaro.
La posizione più difficile è ovviamente quella iraniana (e, in conseguenza, libanese). Da un lato, la Siria è strategicamente insostituibile, nell’architettura dell’Asse della Resistenza, e la sua perdita rischia di innescare un effetto domino (con Hezbollah in pole position per essere il prossimo obiettivo, e l’Iraq a seguire). D’altra parte si ritrova con le mani legate dalla inerzia siriana, se non dalla sua aperta diffidenza. E rischia non solo di vedere sprecato il tributo di sangue pagato per tenere in piedi la Siria (da Soleimani in giù), ma di ritrovarsi azzoppata rispetto al suo confronto con Israele.
Estremamente significativa, di questo disagio iraniano, è la dichiarazione del ministro degli esteri Araqchi: “L’Iran non ha abbandonato e non abbandonerà i suoi alleati nei momenti difficili, proprio come ci aspettiamo che i nostri amici e alleati restino al nostro fianco”. Il messaggio a Mosca è chiaro ed inequivocabile.
Secondo quanto riportato da Middle East Spectator, un importante analista iraniano (non citato) avrebbe avanzato l’ipotesi (in un post su X) che ci sarebbe una divergenza di valutazione tra Mosca e Teheran, con la prima che vedrebbe l’Hayat Tahrir al-Sham come “anti-americana”, mentre la seconda ne darebbe una lettura opposta. Ovviamente questa è solo un’ipotesi, e francamente risulta difficile capire su che basi i russi vedrebbero l’HTS come anti-americano, ma se non altro da una spiegazione plausibile ad un disaccordo evidente.
Disaccordo che, peraltro, è a mio avviso in realtà ben più profondo, e più antico. L’intervento russo e iraniano in Siria, ai tempi della guerra civile, è stato concorde – e sicuramente ha gettato le basi per lo sviluppo del susseguente partenariato strategico – ma diversamente motivato. Al di là di un generico interesse a contrastare l’azione americana, infatti, per Mosca si trattava principalmente di difendere la base di Tartus (unico approdo mediterraneo), mentre per Teheran di garantire la continuità del transito verso il Libano. Dietro questa diversità, ritengo, si è sinora celato un disaccordo, e proprio sulla questione del confronto tra Israele e l’Asse della Resistenza.
Notoriamente, il Cremlino ha su questo una posizione assai più sfumata, che non mette assolutamente in discussione l’esistenza di israele in quanto stato ebraico (restando fedele alla consunta ipotesi dei due stati), ha condannato l’attacco palestinese del 7 ottobre [2] e, per quanto riguarda il mondo palestinese, mantiene la sua interlocuzione con l’Autorità Nazionale Palestinese (nonostante sia notoriamente una via di mezzo tra un governo coloniale israeliano ed una entità nel pieno controllo statunitense). Da questo punto di vista, quindi, l’alleanza strategica tra Russia ed Iran (che si inquadra anche nella più globale prospettiva della Nuova Via della Seta), vedrebbe nella questione della Palestina un elemento di disturbo; quanto meno per Mosca. Ecco quindi che l’evoluzione della situazione siriana, che minaccia la strategia della Resistenza iraniana, potrebbe anche essere vista – da una parte dell’establishment russo – come una occasione per sganciare Teheran da una dimensione regionale troppo legata alla situazione palestinese, per ricondurla ad una dimensione prevalentemente euroasiatica.
Non va dimenticato, né sottovalutato, che l’accordo di partenariato strategico, simile a quello stabilito tra Federazione Russa e Repubblica Popolare di Corea, per quanto annunciato da tempo (se ne attendeva la firma in occasione del vertice BRICS+ a Kazan), continua a non vedere la luce. Segno che, evidentemente, ci sono degli aspetti ancora insoluti. E non è un azzardo supporre che siano legati proprio all’intreccio delle questioni mediorientali. È sin troppo evidente che un impegno formale di difesa reciproca, in caso di attacco subito da uno dei due partner, potrebbe facilmente trascinare la Russia in un conflitto diretto con Israele.
Le dinamiche siriane, pertanto, vanno lette contestualizzandole in un quadro più ampio.
Tutto ciò, ovviamente, resta per ora in buona misura nell’ambito speculativo, e comunque tutto è ancora suscettibile di mutamenti, anche radicali, sulla base di quanto accadrà sul campo. Il che fondamentalmente significa se Homs cadrà come già Aleppo e Hama, o se le forze siriane (appoggiate da quel poco di forze iraniane e libanesi già presenti in Siria) riusciranno ad imporre uno stop all’avanzata di Hayat Tahrir al-Sham. Così come se l’ormai prossimo isolamento della provincia costiera di Latakia (dove sono le basi russe) si limiterà ad enucleare una sorte di grande enclave sotto controllo di Mosca, o se – come già accaduto – parte delle milizie raccolte sotto l’ombrello HTS non decideranno piuttosto di andare a minacciarla direttamente.
Non tutto, a questo punto, ma molto è ancora possibile.
1 – Lavrov, a mio avviso, è un gigante della diplomazia moderna, ma in questa intervista i passaggi notevoli sono davvero pochi. Oltre quello citato, direi quello in cui dice che dopo il ‘messaggio’ del lancio del missile Oreshnik, apparentemente non raccolto in occidente, ce ne potrebbero essere altri (presumibilmente, altri lanci del medesimo missile). Significativo, ma in negativo, ho trovato l’atteggiamento chiaramente elusivo sulla questione siriana.
2 – Cosa questa ribadita da Lavrov proprio nella citata intervista.
Fonte: https://giubberossenews.it/2024/12/07/ordinare-il-caos/
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