Il palazzo di cristallo: Dostoevskij tra libertà e felicità
DA GAZZETTA FILOSOFICA (Di Domenico Marra)
Cosa può insegnarci uno tra i più grandi conoscitori dell’animo umano, Dostoevskij, di nuovo e di utile per la nostra contemporaneità? Come è stato recepito al suo tempo e perchè la Leggenda del grande inquisitore, che sembra essere relegata al mondo della religione e del passato, è invece ancora terribilmente attuale? Questi sono gli obiettivi che l’articolo si propone di raggiungere, attraverso la lettura e il confronto di alcune tra le più grandi opere del Maestro russo, trattando temi di estrema attualità, come il rapporto tra libertà e felicità, coscienza e sofferenza, ma anche tra l’uomo e il divino.
All’interno di uno dei massimi capolavori della letteratura russa e mondiale, i Fratelli Karamazov, è contenuto un racconto filosofico talmente conosciuto e studiato, da aver raggiunto quasi la fama di un’opera a sé state: si tratta de Il grande inquisitore. La fama di cui gode quella che poi, grazie al saggio Leggenda del grande inquisitore del 1894 di V. Rozanov, è passata alla storia come “leggenda del grande inquisitore”, è anche dovuta alle numerose interpretazioni che le sono state dedicate e alle riflessioni a cui ha condotto, tanto da essere ancora oggi oggetto di studio in ambito filosofico per indagare il rapporto tra felicità, libertà e potere.
La Leggenda si situa nel quinto libro del romanzo, in un dialogo tra i fratelli Ivan e Alëša Karamazov; il primo incarna la figura del filosofo nichilista, portatore di uno sguardo disincantato nei confronti della realtà, mentre il secondo rappresenta l’uomo di fede, personificazione della carità cristiana. Il racconto, ideato ed esposto da Ivan al fratello, è ambientato nella cattolica Siviglia dei tempi della Santa Inquisizione, in cui un giorno Gesù Cristo scende sulla Terra, venendo immediatamente riconosciuto e acclamato dal popolo, che lo incita a compiere dei miracoli, fino a quando non irrompe sulla scena il cardinale Grande inquisitore che, con il tacito assenso del popolo, cattura Cristo e lo fa arrestare. Qui è già presente il primo paradosso del racconto: la folla si dimostra più timorosa del cardinale, rappresentate di Cristo sulla Terra, che di Cristo stesso, più del potere ecclesiastico, che di quello autenticamente divino.
Una volta reso Cristo prigioniero, il cardinale inizierà a discutere con lui, rinfacciandogli tutti gli errori di cui si sarebbe macchiato rendendo l’essere umano libero: Cristo ha rifiutato le tre tentazioni di Satana di Mistero, Autorità e Miracolo, pur di garantire l’assoluta libertà all’uomo, che però, date le sue debolezze, non è capace di gestire questa libertà e preferisce cederla a qualcuno in cambio di un relativo benessere materiale. Chi si farà carico di garantire il benessere, per mezzo anche delle tre tentazioni che Cristo aveva rifiutato, in cambio del potere e della libertà è proprio la Chiesa, nella figura del grande inquisitore. L’uomo, secondo il cardinale, non è in grado di gestire la propria libertà, preferendo al “pane celeste” un “pane terreno”, e la colpa di Cristo starebbe proprio nell’aver fondato una religione aristocratica, per i pochi che hanno la forza di vivere secondo la propria libertà, invece che una religione per le masse. Nella ricostruzione dell’inquisitore solo pochi eletti sono a conoscenza dell’effettiva realtà, possiedono la capacità di “conoscere il bene e il male” e si fanno carico di mantenere il segreto, per rendere felici «milioni e milioni di creature, tranne quel centinaio di migliaia che le governa» (F. Dostoevskij, in Fratelli Karamazov): in questa frase si può comprendere il motivo della rabbia del cardinale nei confronti di Cristo: i pochi eletti, che detengono il potere, rendendo la popolazione felice, non sono altrettanto felici, ma anzi sono costretti a portare sulle loro spalle il peso di quel ruolo, che invece non sarebbe stato necessario se Cristo non avesse concesso la libertà agli uomini, ma avesse instaurato un dominio a cui tutti avrebbero dovuto credere e assoggettarvisi in maniera inevitabile. Il racconto si chiude con Cristo che, senza dire una parola per tutta la durata del dialogo, bacia il cardinale che, attonito, lo lascia andare. Un elemento fondamentale del racconto, che si basa sullo scambio della propria libertà con la felicità, è che la felicità ottenuta è una «felicità dei bambini» (ivi), che rende le masse mansuete e dominabili:
«A quel punto daremo loro una felicità placida e mansueta, la felicità dei deboli quali sono stati creati. Oh, e li convinceremo finalmente a non insuperbirsi, perché superbi li hai resi tu, esaltandoli. Dimostreremo loro che sono deboli, che sono come bambini, ma che la felicità dei bambini è la più dolce che ci sia. Si faranno timorosi, allora, e nella paura guarderanno a noi, e per la paura a noi si stringeranno come pulcini alla chioccia. Per noi proveranno meraviglia e timore, ma anche orgoglio per la forza e l’arguzia con cui siamo riusciti a pacificare le migliaia di milioni di un gregge tanto turbolento.[…] Li costringeremo a lavorare, certo, ma nelle ore libere dalla fatica faremo si che la loro vita sia come un gioco di bambini, con canzoni, coretti e innocenti passi di danza. Oh, e concederemo loro anche di peccare, perché sono deboli, esangui; e per questa nostra concessione al peccato come bambini ci ameranno anche.» (F.Dostoevskij, I fratelli Karamazov).
Il rapporto che si crea tra chi comanda e chi è comandato, nella proporzione di poche “migliaia” in confronto a “milioni e milioni”, mostra una dinamica simile a quella espressa nei Demoni, romanzo dello stesso autore, dal rivoluzionario Šigalëv, il quale:
«propone, come soluzione finale del problema, la divisone dell’umanità in due parti disuguali. Una decima parte riceverebbe la libertà della personalità e un diritto illimitato sugli altri nove decimi. Questi dovranno perdere la personalità, trasformarsi come in una specie di gregge e per mezzo d’un’illuminata obbedienza raggiungere, attraverso una serie di generazioni, l’innocenza primordiale, qualcosa come il paradiso primordiale. […] Le misure proposte dall’autore […] si basano sui dati delle scienze naturali e appaiono assai logiche» (F.Dostoevskij, I demoni).
Anche qui è presente la divisione della società in pochi eletti che comandano e in una “gregge” che, attraverso una rieducazione, possa raggiungere una sorta di “paradiso primordiale”. Questa tesi, sempre all’interno dello stesso romanzo, è riproposta anche da Pëtr Verchovenskij, per il quale, attraverso questo ordinamento si raggiungerebbe l’uguaglianza e si eviterebbe «il desiderio e la sofferenza» (ivi), che sarebbero invece destinati solo ai “dirigenti”.
«Livellare le montagne è una idea bella e non ridicola. Io sono per Sigalëv! Non occorre l’istruzione, basta con la scienza! Anche senza la scienza abbiamo materiale per mille anni, ma bisogna adattarsi all’obbedienza. La sete di istruzione è già una sete aristocratica. Non appena sorge la famiglia o l’amore, ecco già anche il desiderio della proprietà. Noi faremo morire il desiderio: diffonderemo le sbornie, i pettegolezzi, le denunce; spargeremo una corruzione inaudita, spegneremo ogni genio nelle fasce. Tutto allo stesso denominatore, l’eguaglianza perfetta.[…] È indispensabile solo l’indispensabile, ecco il motto del globo d’ora innanzi. […] nello Šigalëvismo non ci saranno desideri. Il desiderio e la sofferenza saranno per noi; per gli schiavi c’è lo Šigalëvismo.» (Ivi).
È chiaro quindi come questo topos si ripresenti più volte nell’opera di Dostoevskij, seppur in cornici narrative diverse, ma con gli stessi elementi costanti: il rapporto tra i detentori del potere e il popolo, lo scambio della libertà con una felicità sempre bambinesca o fondata sull’inconsapevolezza; elementi che porterebbero in ogni caso all’affermazione dell’uguaglianza tra il popolo: bisogna notare, infatti, come l’operato dei “dirigenti” non sia motivato da puri interessi o tornaconti personali, ma da una sorta di benevolenza nei confronti dei popolo, ritenuto però bisognoso di qualcuno che lo domini e soprattutto che scelga e pensi per lui. Ciò che emerge in tutto questo è che il solo modo, secondo Dostoevskij, di raggiungere questi ordinamenti sociali è la disumanizzazione degli uomini, ovvero la privazione degli uomini di ciò che li rende tali: la “coscienza” e, in ultima analisi, la propria personalità. L’importanza e il ruolo della “coscienza” è analizzato dall’autore in un’opera precedente ai due romanzi di cui si è trattato fino ad ora, ovvero nelle Memorie del sottosuolo, pubblicato da Dostoevskij nel 1864 in aperto contrasto con il romanzo Che fare? di Černyševskij, in cui si portavano avanti idee di chiara matrice positivista e progressista. Nelle Memorie, il protagonista si fa carico di un monologo in cui si scaglia contro una società che si muove sempre più verso la razionalizzazione dell’uomo e l’affermazione di un sistema che non tiene conto dell’umanità dell’uomo: nella società qui descritta si pone l’attenzione solo sull’aspetto razionale dell’uomo, non considerando la personalità di ognuno, mossa non da semplici interessi prevedibili, ma da una volontà libera e imprevedibile:
«Tutta la lista degli interessi [in base a cui agirebbe l’uomo] è stata compilata secondo […] formule della scienza economica. […] Ma al momento di elencare gli interessi umani ne trascurano uno, […] eppure da esso dipende tutto il calcolo. […] Questo così strano interesse noi rientra in nessuna classificazione. […] Ecco, vedete: la ragione, signori miei, è una buona cosa, questo non si discute, ma la ragione è pur sempre soltanto ragione e soddisfa soltanto le facoltà razionali dell’uomo; la volontà invece è manifestazione di tutto il nostro essere, cioè di tutta la vita umana, con la ragione e tutto il resto. E sebbene la nostra vita, nelle sue manifestazioni volitive, si presenti spesso sotto un aspetto piuttosto miserabile, essa è pur sempre vita e non soltanto un’estrazione di radice quadrata. Infatti, è assolutamente naturale che io intenda vivere allo scopo di soddisfare tutte le mie facoltà vitali e non unicamente la mia facoltà raziocinante, che forse è soltanto una ventesima parte di tutte le mie facoltà vitali. Che cosa sa la ragione? La ragione sa soltanto ciò che ha avuto il tempo d’imparare […], mentre la natura umana agisce invece nella sua integrità, con tutto ciò che è in lei, sia coscientemente che incoscientemente, e anche se mentisce, essa però vive.» (F.Dostoevskij, Memorie del sottosuolo).
Secondo “l’uomo del sottosuolo”, l’essere umano non agisce sempre secondo degli interessi calcolabili, ma passa la vita cercando di «convincersi continuamente di essere un uomo e non un tasto [di pianoforte]!» (Ivi), il che significa che gli elementi dell’imprevedibilità e della personalità nell’uomo rivestono un ruolo fondamentale, che ne definisce l’essenza e che non è possibile sradicare, pena la disumanizzazione dell’essere umano. Un altro elemento fondamentale, forse il più importante per l’uomo, è la “coscienza”, la quale si rende colpevole di provocare all’uomo sofferenze e dolori anzi, scaturisce direttamente dalla sofferenza, ma contemporaneamente è ciò a cui l’uomo non rinuncerebbe mai:
«l’uomo non rinuncerà mai alla vera sofferenza, e cioè alla distruzione e al caos. Giacché la sofferenza è la vera origine della coscienza. E sebbene io abbia dichiarato fin dal principio che la coscienza, secondo me, è la più grande disgrazia per l’uomo, tuttavia so bene che essa sta tanto a cuore all’uomo che egli non la scambierebbe con nulla al mondo» (ivi).
La coscienza, che si potrebbe intendere come “consapevolezza del proprio essere” è ciò che rende l’uomo tale, ed è proprio ciò che deve essere eliminato per poter instaurare i sistemi politici espressi precedentemente; e poiché la coscienza scaturisce dalla sofferenza, è fondamentale, proprio come espresso nella Leggenda e da Verchovenskij nei Demoni, eliminare la sofferenza, garantire un benessere generalizzato, che faccia così assopire la coscienza, e renda gli uomini “tasti di pianoforte” da poter suonare a piacimento. A prima vista però, leggendo Memorie del sottosuolo e la Leggenda si può notare una totale contraddizione: nella prima opera si afferma che l’uomo non rinuncerebbe mai alla propria libertà e alla propria personalità in cambio del benessere, infatti:
«l’uomo ha bisogno soltanto di una volontà autonoma, qualunque sia il prezzo e quali che siano le conseguenze. […] Provate a seppellirlo [l’uomo] sotto tutti i tesori terrestri, affondatelo nella felicità; […] concedetegli un tale benessere che non gli resti nulla da fare se non dormire[…]; ebbene, anche in tal caso l’uomo, per mera ingratitudine, unicamente per il gusto di sbagliare, sarà capace di commettere una mascalzonata» (ivi).
Mentre nella seconda opera è apparentemente espresso tutto il contrario, infatti gli uomini «deporranno la libertà e [ci] diranno: “Rendeteci schiavi, ma dateci da mangiare”». E riguardo alla necessità di estirpare la sofferenza e la coscienza: «una mente e la scienza li cacceranno [gli uomini] in labirinti tali e li porranno di fronte a prodigi e misteri talmente insolubili, che alcuni di loro, indomiti e feroci, si suicideranno, laddove altri si uccideranno fra loro, e altri ancora strisceranno ai nostri piedi e intoneranno: ”[…] salvateci da noi stessi!”» (F. D. Fratelli Karamazov). In realtà, per provare a sciogliere questo nodo interpretativo, è necessario tener conto di colui che sta riportando la situazione. Nel primo caso, l’uomo del sottosuolo è un uomo emarginato ed escluso dalla società, un uomo che ha mantenuto la propria libertà e la propria individualità in una società che, lungi da quanto da lui auspicato, ha accettato il compromesso, ha ceduto la propria umanità, per vivere nel «palazzo di Cristallo», ovvero il risultato dell’affermazione di un sistema basato sula ragione e sul calcolo statistico:
«[la società crede] nel palazzo di cristallo, indistruttibile nei secoli dei secoli, cioè in qualcosa a cui sia impossibile mostrare la lingua di soppiatto o fare un gesto osceno nascondendo poi la mano. E io invece ho paura di quel palazzo, forse proprio perchè è di cristallo, indistruttibile per l’eternità e perchè mi sarà impossibile mostrargli la lingua, magari di soppiatto» (Memorie del sottosuolo).
È un uomo che parla avendo in mente un’altra società , che però sembra non essere più attuale, altrimenti non sarebbe un uomo del sottosuolo, ma un uomo della società. Nella Leggenda invece, chi parla è colui che incarna l’altro lato del compromesso, è colui al quale gli uomini hanno ceduto la libertà in cambio del benessere; allo stesso tempo la concezione antropologica alla base è la stessa: l’uomo è dotato naturalmente di libertà; nella prima opera è riportata la testimonianza di un uomo che l’ha mantenuta a sue spese, mentre nella seconda si trova descritta proprio quella società che l’uomo del sottosuolo ripudia, ma che sembra ormai essersi attualizzata. La lettura della Leggenda, tendendo in considerazione anche Memorie del sottosuolo e la teoria politica espressa da Šigalëv, è sufficiente quindi a darne un’interpretazione che rimuova la cornice del cattolicesimo e che permetta di utilizzare il racconto come critica ad altri fenomeni sociali. Uno tra tutti, coerentemente con il pensiero di Dostoevskij, è proprio il l’ideale del socialismo che, in diverse sue sfumature, era ormai presente in Russia già da tempo e a cui lo stesso autore si era avvicinato in giovane età. In età matura però, dal ritorno dalla prigionia in Siberia, Dostoevskij si avvicina alla religione russa, rifiutando il socialismo, che lui concepisce come naturale continuazione del cattolicesimo, e che, nel romanzo L’idiota, affermerà essere scaturito dalla disperazione a cui ha condotto la perdita della forza morale della religione e che vede come obiettivo la realizzazione della libertà, non per mezzo dell’amore in Cristo, ma per mezzo della violenza. Il socialismo è inteso quindi come violento e privo di dio. Questo non significa che l’autore sia contrario ad ideali tipicamente socialisti o, meglio, umanitari, ma auspichi al loro raggiungimento non per mezzo di una ideologia atea e materialista che vede l’uomo farsi Dio, sostituendolo (umano-divinità nei termini di Solov’ëv), ma per mezzo dell’amore autenticamente cristiano e nell’esempio di Cristo (divino-umanità, sempre seguendo la terminologia di Solov’ëv). La divinizzazione dell’uomo infatti porta al fallimento dell’uomo stesso, dovuto alla sua intrinseca debolezza, e proprio la presa di questa consapevolezza, senza una fede stabile, può portare ad aberrazioni come il suicido o l’omicidio, temi ricorrenti nei suoi grandi romanzi. A riprova di ciò, è utile sottolineare come proprio il socialismo sarà una delle più frequenti chiavi di lettura nelle prime interpretazioni della Leggenda, da parte di filosofi russi. Le interpretazioni che si muovono in questa direzione sono molteplici, ma una di quelle che ha riscosso più successo è sicuramente quella di N. Berdjaev, ex marxista e filosofo della religione. Berdjaev si confronta più volte con la figura di Dostoevskij, tanto da dedicargli un’opera, uscita nel 1923, e tradotta e pubblicata in italiano con il titolo La concezione di Dostoevskij. Lo scritto che verrà preso qui in considerazione non è però questo, ma il saggio presente all’interno della raccolta del 1918 De profundis (Iz glubiny), ideata da Struve all’indomani della rivoluzione russa del 1917, con lo scopo di raccogliere scritti di opposizione di alcuni intellettuali russi contro la rivoluzione bolscevica. Tra questi intellettuali è presente anche Berdjaev, che dedica il suo scritto proprio a Dostoevskij e alla Leggenda del grande inquisitore. Secondo Berdjaev, tra i meriti di Dostoevskij vi è certamente quello di essere stato un profeta della rivoluzione russa, essendo questa un evento metafisico e religioso: il socialismo russo infatti è occupato del problema sia Dio esista o meno. Dostoevskij, nei suoi scritti avrebbe predetto i frutti del socialismo russo, mettendo a nudo il nichilismo e l’ateismo presenti in Russia – si tenga presente come Ivan Karamazov incarni proprio queste idee. La rivoluzione russa, secondo Berdjaev, va intesa come un fenomeno di ordine religioso, che si pone l’obiettivo di risolvere il problema di Dio: i russi infatti crearono un Dio dal socialismo e lo sostituirono al Dio cristiano, volendo trasformare tutta l’umanità secondo un ordine nuovo e videro in ciò un compito assoluto:
«Il socialismo rivoluzionario russo non fu mai pensato come uno stato transitorio […], ma sempre come uno stato definitivo, il regno di Dio sulla terra, la soluzione del problema dei destini dell’umanità . Non è una questione economica né politica, ma è prima di tutto una questione spirituale, religiosa. […] Respinto Dio, [i ragazzi russi] crearono un Dio dal socialismo. […] Rimase come scopo la beatitudine sulla terra» (N. Berdjaev, Dostoevskij e la rivoluzione russa, in D. Steila, Il Grande inquisitore. Interpretazioni nel pensiero russo).
È qui che si situa la dinamica, teorizzata da Solov’ëv, della divinizzazione dell’uomo, il quale però è destinato a fallire, se non accoglie dentro di sé la fede per un Dio superiore. Solo così, può avvenire con successo qualsiasi attività liberatrice:
«[l’uomo] si ritiene forte, ma è in potere di forze estranee, è superbo della sua libertà, ma è uno schiavo del mondo esteriore e del caso. […] Il primo passo verso la salvezza è per noi sentire la nostra debolezza e la nostra schiavitù: chi sente ciò pienamente non potrà mai essere un assassino; ma se egli si ferma in questo sentimento di debolezza e di mancanza di liberà egli sarà spinto al suicidio, […]agendo come un giudice supremo, […] egli non soltanto sente il male, ma crede nel male. […] Egli però non deve fermarsi al primo passo, il riconoscimento del proprio male, ma fare un secondo passo e riconoscere il vero Bene che è sopra di lui. […] Con la fede nel Bene sovrumano, cioè in Dio, ritorna anche la fede nell’uomo, che non è più un solitario schiavo abbandonato, ma appare come un libero cooperatore della divinità e rappresentate della forza di Dio» (V. Solov’ëv, Tre discorsi in memoria di F. Dostoevskij). Concezione questa che in Berdjaev si trova espressa con l’affermazione secondo cui i tratti principali del grande inquisitore consistono nella «rinuncia alla libertà in nome della felicità degli uomini, a Dio in nome dell’umanità. Con questo, il Grande Inquisitore seduce gli esseri umani, li costringe a rinunciare alla libertà, li distoglie dall’eternità» (N. Berdjaev, Il grande inquisitore, in D. Steila, Il Grande inquisitore. Interpretazioni nel pensiero russo).
In Dostoevskij, il filosofo del nichilismo è Ivan Karamazov, che inaugura la ribellione contro Dio e contro il mondo di Dio per motivi che possono sembrare in totale accordo con il cristianesimo, come il tema della sofferenza di innocenti e deboli; tuttavia, Ivan pone il problema partendo da una concezione ateistica, negando il senso divino della vita e vedendo soltanto assurdità e ingiustizia dal punto di vista umano limitato. È proprio la leggenda del grande inquisitore a svelare questa dinamica: per Berdjaev il fatto che:
«Dostoevskij abbia dato al racconto una veste cattolica alle seduzioni dell’Anticristo non è essenziale e deve essere annoverato tra i suoi difetti e debolezze. Lo spirito del grande inquisitore può apparire e agire in aspetti e forme diverse, è capace di reincarnarsi al massimo grado. […] Nel socialismo rivoluzionario agisce lo spirito del grande inquisitore. Il socialismo rivoluzionario […] pretende di essere una religione opposta alla fede cristiana […], che accetta tutte e tre le tentazioni respinte da Cristo nel deserto in nome della libertà dello spirito umano» (N. Berdjaev, ivi).
Il socialismo, a differenza del cristianesimo, è la religione delle masse, la religione del “pane terreno”, che concede il “benessere” in cambio della libertà dell’uomo. Questo, per Berdjaev, si è concretizzato in Russia, dopo la rivoluzione, con l’annientamento della personalità e dell’individualità e, proprio come riportato dalla teoria di Šigalëv, «il pensiero è diventato perfettamente impersonale, di massa”, fondato su “un livellamento forzato universale» (ivi). È chiaro come l’interpretazione di Berdjaev legga la Leggenda del grande inquisitore in continuità con gli scritti citati finora, staccandola da una interpretazione che ne faccia una mera critica al cattolicesimo.
Il motivo per cui il pensiero di Dostoevskij continua però ad essere studiato e a suscitare riflessioni non è soltanto di carattere storico, infatti tutto questo discorso potrebbe essere facilmente applicato alla nostra contemporaneità, alla nostra società secolarizzata, in cui parlare di concetti come umano-divinità e divino-umanità potrebbe apparire obsoleto e anacronistico.
Se si adotta però uno sguardo più ampio sulla realtà, la dialettica del grande inquisitore è facilmente riscontrabile nella nostra società, una società che ha reso gli individui dei numeri, considerati solo in base alla loro utilità concreta nel meccanismo di produzione e consumo, per alimentare una macchina ormai incontrollabile, che non si fa scrupoli ad assoggettare per i propri scopi l’ambiente, gli animali e gli uomini stessi, che però sembrano assuefatti dall’idea di “progresso” e dall’apparente benessere in cui si ritrovano oggi le nostre società “evolute”; degli esseri umani che stanno sempre più perdendo la loro umanità, soggetti ad una strana dialettica che prima li ha divinizzati, facendo credere che all’uomo tutto è permesso, in quanto padrone della Terra, e che ora li ha resi dei meri strumenti, utili al grande inquisitore del nostro tempo, il consumismo.
È forse con questa lente che si può leggere oggi la Leggenda del grande inquisitore, così come l’auspicio di Dostoevskij e di Solov’ëv per l’uomo di abbracciare la divino-umanità non deve oggi sembrare necessariamente qualcosa di relegato unicamente alla religione, ma può essere letto come l’invito per l’uomo di non considerarsi unico abitante della terra, unico depositario di dignità e potere, al pari di una divinità, ma esser consapevole della propria “umana debolezza” e riconoscere la sua intrinseca dipendenza, non necessariamente nei confronti di un qualsiasi dio, ma nei confronti della Natura: la divino-umanità di Dostoevskij può oggi diventare l’auspicio dell’avvento di una natural-umanità, di un uomo che si riconosca parte integrante della Natura e che, salvandola, salvi se stesso.
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