Che cosa il governo dice e non dice sul Recovery Plan. L’analisi di Giuseppe Liturri
In attesa che si conosca l’esito del Consiglio dei Ministri previsto per la sera del 12 gennaio e si sbrogli (o intrecci ancor più) la matassa politica, quali sono le maggiori criticità dal punto di vista tecnico che riguardano il Recovery Plan (Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza, PNRR) richiesto dalla Commissione?
Il pomo della discordia è rappresentato dal Regolamento che disciplina il Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza (RRF) che, dopo la chiusura del negoziato tra Consiglio, Europarlamento e Commissione lo scorso 22 dicembre, ieri ha cominciato il percorso all’Europarlamento per essere definitivamente approvato in aula ai primi di febbraio.
Quel Regolamento, che disciplina la gran parte dei fondi del Next Generation UE (672,5 su 750 miliardi) ieri è stato approvato in Commissione Ecofin con 78 voti favorevoli, 5 contrari e 13 astenuti (tra cui tutto il gruppo della Lega e Raffaele Fitto).
Il tema è di quelli altamente divisivi: quel regolamento condiziona i pagamenti delle rate dei sussidi e dei prestiti al puntuale rispetto di tutto lo strumentario che – a partire dal 1997 con l’approvazione del Patto di Stabilità, proseguendo con Six pack, Fiscal Compact e Two Pack del 2011-2013 – governa i bilanci degli Stati membri. C’è un ciclo di coordinamento, chiamato Semestre Europeo, che comincia ad ottobre/novembre con la presentazione del Documento Programmatico di Bilancio e termina a giugno/luglio dell’anno successivo con l’adozione da parte del Consiglio delle raccomandazioni Paese proposte dalla Commissione.
Un sentiero quasi obbligato in cui gli spazi di manovra dei Parlamenti e dei Governi nazionali sono oggettivamente ridotti.
Uno strumentario oggi parzialmente sospeso che però potrebbe presto tornare a danneggiare il nostro Paese. Ma questo non lo diciamo noi; lo lasciamo dire ad un autorevole intervento dell’economista Szolt Darvas sul sito Bruegel.org seguito, quasi in contemporanea da un ancor più autorevole intervento della capo economista dell’OCSE. In sintesi: quegli strumenti hanno fatto male in passato, provocando la seconda recessione del 2011-2012 (il famoso “salvataggio” di Mario Monti), e rischiano di fare altrettanto male in futuro.
Di fronte a questo scenario, il Regolamento è infarcito di riferimenti al Semestre Europeo, con tanto di rispetto delle raccomandazioni Paese (quelle del 2019 per l’Italia sono il solito elenco di tagli alle spese ed aumenti di tasse, soprattutto sulla casa) e richiamo alla procedure per eccessivi squilibri macroeconomici. Con l’essenziale avvertenza che fino a ieri un’inadempienza su questo fronte sarebbe costata una procedura d’infrazione (mai scattata), domani potrebbe costare decine di miliardi di sussidi e prestiti che potrebbero essere sospesi o cancellati.
Comprensibile e quindi auspicabile una posizione di voto non favorevole (tale è tecnicamente l’astensione). A chi ha votato a favore, torneremo a chiedere tra qualche anno – in presenza di richieste di avanzi primari nell’ordine del 2/3% del PIL, ottenuti con tagli di spese ed aumenti di tasse – su quali basi abbiano fondato il proprio consenso. Quali considerazioni li hanno portati a finanziare un piano di investimenti, pur benvenuto e necessario per l’Italia, con sussidi e prestiti della UE che comporteranno maggiori contributi futuri al bilancio della UE e condizioni macroeconomiche che tutti gli economisti considerano dannose? Se perfino il deputato di Italia Viva, Luigi Marattin, è arrivato a certe conclusioni, forse è il momento di valutare l’effettiva convenienza per il nostro Paese di tale Piano?
Ma, a prescindere dalle modalità di finanziamento, è il piano in sé che sta per andare all’esame del Consiglio dei Ministri a destare numerose perplessità. Si potrebbe discutere del peso relativo delle diverse 6 missioni su cui è articolato, ma ciò che preoccupa è la necessità di rispettare la parte che sta più a cuore alla Commissione e cioè il rispetto delle regole del Semestre Europeo e delle raccomandazioni Paese. Infatti con riferimento al percorso di rientro del deficit e del debito pubblico, che secondo l’articolo 15 del Regolamento, deve essere ben esplicitato nel PNRR, è disegnato un percorso di guerra che porterà solo al rallentamento della crescita. Perplessità sorgono anche in ordine alla compatibilità del PNRR con le altre richieste della Commissione (fatte sia nel Regolamento che nelle linee guida del 17 settembre) e con le ormai mitologiche e sempiterne riforme chieste da Bruxelles.
Vorremmo sbagliarci, ma abbiamo il timore che quando quel documento giungerà sulle scrivanie dei burocrati di Palazzo Berlaymont desterà parecchie perplessità.
Ma non è il solo aspetto poco convincente. Il Piano del Governo è ora giunto alla fantasmagorica cifra di 310 miliardi di investimenti, perché pensa di finanziarli con i 209 miliardi del NGEU (193 di RRF e 16 di altri strumenti) con 20 miliardi di anticipi del Fondo per la Coesione e lo Sviluppo (FSC), che ci sono sempre stati e dei quali vi avevamo già riferito qualche giorno fa, ed altri 80 miliardi di finanziamenti del bilancio pluriennale 2021-2027 in fase di stesura. Soldi che avremmo comunque ricevuto ma che vengono schierati per “fare ammuina”.
Tutto bellissimo, se non fosse per due decisivi dettagli che ribaltano tutto. I fondi del bilancio pluriennale (99 miliardi complessivamente) non scendono dal cielo e né sono reperiti sui mercati dalla Ue (come avviene per i fondi del NgEU), ma è denaro versato dagli Stati membri. Si dà il caso che l’Italia, su un bilancio di 1.085 miliardi, dovrebbe contribuire per almeno 141 miliardi (il 13% in base al PIL, post Brexit), con un saldo negativo nei sette anni pari a circa 42 miliardi. Tutto sommato in linea con il saldo negativo del precedente bilancio (37 miliardi). Si conferma quindi, ed anzi peggiora, il saldo di contribuente netto per l’Italia.
Se sommassimo algebricamente questo saldo negativo a quello sperabilmente positivo del NGEU (30 miliardi, cioè 81 miliardi di sussidi meno 51 miliardi di contributi futuri), avremmo il saldo netto totale del nostro rapporto con la UE nei prossimi 7 anni: -12 miliardi. E questo nella più rosea delle previsioni.
Di tutto questo, incredibilmente, nel PNRR non c’è traccia. Come se nel rendiconto del vostro condominio ci fossero scritte solo le spese e non anche i contributi a vostro carico.
Ci auguriamo solo che nelle prossime settimane ci sia un dibattito trasparente ed equilibrato sui veri numeri di questo viaggio verso l’incognito (ma nemmeno poi così tanto) che il nostro Paese sta per intraprendere.
Fonte: https://www.startmag.it/economia/ecco-i-numeri-del-recovery-plan-che-il-governo-nasconde/
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