A mezzogiorno, nella piana di Valmy, la nebbia inizia a diradarsi. Le truppe francesi, asserragliate sotto a un mulino e cannoneggiate dal fuoco furioso dell’artiglieria prussiana, intravvedono per la prima volta le colonne del duca di Brunswick. Gli uomini, per due terzi volontari inesperti della guerra, si stringono gli uni agli altri nelle trincee, mentre la più temibile fanteria dell’epoca marcia inesorabile contro di loro. «Viva la nazione!». Il generale francese Kellerman, al galoppo davanti ai soldati, con il cappello piumato issato sulla punta della spada, incita i suoi e ordina di non aspettare il nemico, ma di corrervi incontro baionetta in canna. I francesi si animano e, gridando all’unisono «Viva la nazione!», vanno all’assalto dei prussiani, che, colti di sorpresa, arretrano senza nemmeno ingaggiare battaglia. Goethe, inedito reporter di guerra al seguito del duca di Weimar, annota sul suo taccuino: «Da questo luogo e da questo giorno comincia una nuova era nella storia del mondo».
Fu infatti a mezzogiorno di quel 20 settembre 1792 che nacque simbolicamente l’idea moderna di “nazione”. Se prima la nazione si identificava con i sovrani, che reggevano assolutisticamente le sorti di sudditi spesso interscambiabili fra di loro, vista l’estrema mobilità dei confini, ridisegnati da guerre e politiche matrimoniali, ora la nazione combaciava con il popolo, che con la Rivoluzione francese aveva acquisito una propria soggettività politica. Fin da subito, dunque, il concetto di “nazione” si intrecciò con i primi esperimenti democratici di autogoverno all’interno di un territorio definito e tendenzialmente omogeneo, lo “Stato nazionale” appunto.
Nonostante lo Stato nazionale sia una formazione relativamente recente (ha poco più di due secoli) e nonostante si sia dimostrato un successo a livello planetario (infatti il numero di Stati-nazione è in costante crescita: erano una sessantina un secolo fa, ora sono quasi 200), da più parti, tanto a destra quanto a sinistra dello spettro politico, viene sprezzantemente additato come un modello superato, poiché sarebbe inadatto a sostenere le sfide della nostra epoca. Solo uno Stato sovranazionale, nella fattispecie l’Unione Europea, avrebbe le carte in regola per reggere il confronto nella grande partita contro gli altri attori globali.
Curiosamente, le stesse accuse di arretratezza erano rivolte, a inizio Novecento, a un’entità territoriale che sarebbe oggi paradossalmente elogiata, per la sua estensione geografica e la sua dimensione multietnica, come un esempio di competitività da replicare: l’Austria-Ungheria. Pur essendo ancora vivace sia dal punto di vista culturale che economico, l’Impero asburgico era giudicato un anacronismo inconcepibile per il ventesimo secolo. Secondo le classi dirigenti di Francia e Gran Bretagna, sarebbero stati gli Stati nazionali, più vitali e giovani, a ereditare il mondo, e fu proprio la scarsa considerazione con cui erano tenute in conto le ragioni dell’Austria-Ungheria, ormai data da molti per spacciata, uno dei motivi che provocò un irrigidimento nelle posizioni dei due blocchi di alleanze prima della guerra.
Nell’Impero asburgico, organizzato intorno a un articolato dualismo fra austriaci e ungheresi, entrambi politicamente predominanti sulle altre nazionalità, soprattutto i primi, convivevano cechi, slovacchi, croati, sloveni, polacchi, bosniaci, ruteni, serbi, rumeni e italiani. La vita legislativa del parlamento di Vienna, in cui le divisioni fra i deputati – non diversamente dall’attuale europarlamento – correvano sia per nazionalità sia per ideologia politica, era piuttosto convulsa, al punto che le sue sessioni divennero un’attrazione turistica. È indicativo che, nel momento in cui l’Austria dichiarò guerra alla Serbia, nel luglio 1914, i lavori del parlamento fossero sospesi da mesi a causa dell’ostruzionismo dei rappresentanti cechi.
L’argomento preferito dai sostenitori dell’unità imperiale era che il mercato comune asburgico garantiva a tutte le nazionalità vantaggi economici incomparabilmente maggiori rispetto alla prospettiva che ciascuna di esse fosse rinchiusa in uno Stato a sé. Senza il cappello della monarchia austriaca a proteggerli – si diceva poi -, i cechi, gli ungheresi o i croati sarebbero caduti vittime dell’espansionismo germanico o russo. La tesi, speculare a quella propagandata oggi da svariati commentatori e tecnici pro-Ue, resse finché un evento esterno, la guerra, non fece precipitare l’Impero nel vortice delle proprie contraddizioni: le minoranze etniche che abitavano al fronte, sospettate di tradimento, vennero deportate all’interno, e numerosi leader politici locali furono incarcerati. A nulla valsero gli ultimi, disperati tentativi del nuovo imperatore Carlo I di trasformare l’Impero in una federazione di Stati: fu proprio l’elemento tedesco-austriaco a opporre resistenza, per timore di dover rinunciare ai privilegi economici e politici garantiti dall’assetto istituzionale prebellico.
Fu dunque una crisi a far scivolare quel velo di ipocrisia che occultava la mancanza di democrazia con i progressi in campo economico, sociale e culturale. Gli Imperi centrali e anche quello russo, mastodontiche e posticce costruzioni multietniche, apparvero per quel che erano: degli strascichi moribondi di un passato reazionario. Ad essi si oppose il principio di autodeterminazione dei popoli, che, seppur applicato con amplissimi margini di discrezionalità, rivelò col tempo, soprattutto durante il processo di decolonizzazione, tutta la sua forza progressista.
Da Valmy e dalla Rivoluzione francese nel Settecento fino alle lotte per una Palestina e un Kurdistan liberi oggi, lo Stato nazionale ha rappresentato l’unico scenario possibile per lo sviluppo della democrazia. Anche la narrazione patriottica non sarebbe naturalmente stata possibile senza l’innesto di una mitologia e di un certo grado di artificialità: basti pensare che solo il 2,5% della popolazione della nostra penisola parlava un italiano standard al momento dell’unificazione. Eppure non si può negare una comunanza quantomeno sentimentale fra i cittadini dello Stato-nazione.
Infatti è proprio quando hanno fatto appello alla solidarietà nazionale che i partiti progressisti sono riusciti a mobilitare in misura maggiore le masse. Tre esempi. Il primo: negli anni ’30 e ‘40, mentre in Europa il fascismo dilaga, i socialdemocratici svedesi ricorrono a una retorica patriottica e di unità nazionale e stravincono le elezioni, rimanendo al governo per quasi mezzo secolo. Il secondo: mentre ancora infuria la Seconda guerra mondiale, il liberale William Beveridge stila i piani, che da lui prenderanno il nome, per l’implementazione di un welfare universalistico in Gran Bretagna e li difenderà non agitando feticci ideologici, ma richiamandone il carattere tipicamente britannico. Il terzo: negli anni ‘30 il presidente statunitense Roosevelt giustifica l’aumento della tassazione nei confronti dei più ricchi appellandosi all’americanismo e rafforza così la coesione nazionale attorno al New Deal.
L’idea che il superamento dello Stato nazionale sia associato a un inevitabile progresso e sia addirittura il presupposto essenziale per una pace fra i popoli è quindi smentita dalla Storia. Il progetto di unificazione politica del continente europeo è anzi una secolare e pericolosa fissazione che, dalla caduta dell’Impero Romano, ha ossessionato le menti di Carlo Magno prima, di Napoleone poi e infine di Hitler.
Nonostante se ne siano tutti dimenticati, l’abolizione dei confini è infatti sempre piaciuta al cosmopolitismo di destra e alle classi privilegiate più che all’internazionalismo di sinistra. Ne è la prova la tenace resistenza di molti partiti comunisti al processo di integrazione europeo, visto come il cavallo di Troia per politiche ultraliberiste, o lo scetticismo di un leader laburista come Tony Benn, mentore di Jeremy Corbyn, verso l’adesione della Gran Bretagna alla Cee.
La ragione di questa ostilità è molto semplice: le frontiere degli Stati nazionali, lungi dal rappresentare un aggressivo filo spinato fra i popoli, hanno per decenni permesso alle classi popolari di aumentare il loro potere contrattuale nei confronti delle élite industriali e finanziarie del proprio Paese, costringendo queste ultime a necessari compromessi, come la concessione di diritti sul lavoro o l’ottenimento di uno stretto rapporto tra Stato e banca centrale. Frantumate molte delle facoltà dello Stato nazionale e spalancate le porte delle frontiere, le classi popolari si sono quindi ritrovate indifese al tavolo delle trattative con la grande finanza e le corporation, ora paradossalmente unite in una solida internazionale liberista, e sono state costrette a rinunciare ai diritti conquistati in precedenza. Non è insomma un caso che il processo di globalizzazione, con il conseguente indebolimento dello Stato nazionale, sia stato accompagnato da un progressivo svilimento della democrazia.
Non permettiamo agli inconsapevoli nostalgici dell’Austria-Ungheria di mettere a rischio la pace, la prosperità e la democrazia in Europa.
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