Consigli di classe. Scuola, democrazia e società, rubrica a cura di Mimmo Cangiano
Una delle lamentele più frequenti che si possano ascoltare nelle sale insegnanti di tutto lo Stivale è che a scuola, in classe, non si riesca più a fare quello che si riusciva a fare solo cinque o sei anni fa, nonostante ci si senta sempre più carichi di lavoro: c’è chi attribuisce questa difficoltà alle diverse caratteristiche delle nuove generazioni, chi invece alle mutate condizioni dei dispositivo scolastico, che negli ultimi venticinque anni ha attraversato non meno di quattro grandi processi di riforma e revisione (Berlinguer, Moratti, Gelmini, Renzi) e una serie di continui “aggiustamenti interni”, che, pur mantenendone immutata la struttura portante, hanno modificato profondamente quello che si fa (o si riesce a fare) nelle aule.
Vorrei provare a dimostrare che la percezione di un tempo-scuola che sembra sfuggire tra le mani, sempre più ridotto e frammentato, a cui corrisponde, paradossalmente, un aumentato carico di lavoro non retribuito, non è solo una laudatio temporis acti, ma è l’effetto delle politiche che negli ultimi anni si sono abbattute sulla scuola.
Da docente di Lettere, comincerò da ciò che mi è più noto.
L’erosione del tempo-scuola dedicato alle materie umanistiche
Innanzitutto è possibile osservare, con l’unica eccezione degli istituti tecnici, una diminuzione generalizzata delle ore dedicate alle materie umanistiche, come dimostrano due casi esemplari.
Il primo è quello della scuola secondaria di I grado: dal 1979 (D.M. 9 febbraio del 1979, Ministro Pedini) il quadro orario dell’allora scuola media prevedeva, per ciascun anno del triennio, sette ore di Italiano, due di Storia ed Educazione civica, due di Geografia; con la Legge 75/2005, la cosiddetta “Riforma Moratti”, è rimasto inalterato il monte-ore di Storia e Geografia, mentre le ore di italiano sono state ridotte da sette a sei. Quindi, in un’età cruciale come quella della fascia 11-14 anni, i ragazzi e le ragazze hanno letto, scritto, parlato, riflettuto sulla lingua per quasi cento ore in meno nell’arco del triennio: ciò significa non solo che gli insegnanti hanno, giocoforza, “fatto” meno (meno argomenti, o in modo meno approfondito), ma che gli studenti hanno avuto meno tempo a disposizione per sviluppare competenze di lettoscrittura, lessicali, espressive…
Si aggiunga il fatto che, di queste sei ore rimaste, una è stata scorporata e rinominata “Approfondimento di italiano” (buffo che si dedichi un’ora ad approfondire quello che è stato affrontato in maniera più superficiale nelle restanti cinque ore), e può essere affidata ad un docente diverso da quello delle altre cinque ore, aggravando così la dispersione di energie e frammentando ulteriormente la disciplina, che già (e ne è testimone la recentissima discussione sulle Nuove Indicazioni Nazionali) fatica a trovare una ratio tra i due fuochi dell’educazione linguistica e di quella letteraria.
Il secondo caso, ancora più lampante, è quello che è accaduto in alcuni indirizzi superiori, ad esempio il liceo scientifico: se nel triennio il monte ore delle materie umanistiche (italiano, latino, storia, filosofia), nel passaggio dalla scansione prevista dal D.M. 24 aprile 1963 (ministro Gui, quello della riforma della scuola media unica, per intenderci) a quella delle Leggi 133 e 169/2008 (Ministri e Gelmini) è stato riorganizzato, ma è rimasto sostanzialmente invariato, così non si può dire per quello del biennio. Infatti, la drastica riduzione delle ore di Latino e l’accorpamento della Storia e della Geografia, anche in questo caso con una riduzione, nella nuova disciplina di Geostoria, ha fatto sì che il monte-ore di materie umanistiche scendesse da 13 a 10 nella classe I e da 11 a 10 nella classe II. Ciò equivale, nell’arco del biennio, a ben 264 ore di lezione in meno. Ora, lungi da chi scrive l’idea che il latino (o qualsiasi altra materia scolastica) abbia capacità taumaturgiche (se n’è scritto qui), ma è innegabile che eliminare quasi duecento ore di lavoro in classe su una disciplina linguistica (più tutto il corrispondente lavoro a casa) non può non avere un impatto sullo sviluppo di competenze linguistiche, espressive e testuali, anche trasversali, che poi risultano necessarie per affrontare il triennio in modo adeguato. Per inciso, le ore di italiano sono diminuite anche nel biennio degli istituti tecnici, da cinque a quattro a settimana (benché compensate, poi, da un corrispondente aumento nel triennio).
È da sottolineare, poi, che il taglio delle ore delle discipline umanistiche è concentrato negli anni dell’obbligo scolastico (secondaria di I grado e primo biennio del II grado): di fatto, uno studente o una studentessa che oggi arriva al terzo anno di un liceo scientifico lo fa con oltre 350 ore di lezione (di italiano, storia e geografia, latino) in meno di un suo coetaneo di quindici anni fa. Non si dimentichi, poi, che nelle ore di italiano si lavora in modo specifico su competenze trasversali di comprensione del testo e produzione orale e scritta, che hanno poi ricadute anche su tutte le altre discipline. Non c’è da stupirsi, dunque, se anche docenti che non sono direttamente investiti da questo processo di contrazione facciano fatica a lavorare con classi che di certo non hanno (non possono avere, e sicuramente non per colpa di studenti e insegnanti) gli stessi prerequisiti di quelle di qualche anno fa, e che invece avrebbero il diritto di raggiungere i medesimi obiettivi di apprendimento, se non più alti.
L’erosione del tempo-scuola dedicato alle discipline
Alla una diminuzione, negli anni terminali dell’obbligo, delle ore dedicate ad alcune discipline, prima fra tutte l’italiano, si è accompagnata, a partire almeno dal 2015, una diminuzione delle ore complessive dedicate alle discipline curricolari, che devono essere reindirizzate verso altre attività:
– Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento (PCTO, ex Alternanza Scuola-lavoro, Legge 107/2015 “La Buona scuola”), istituiti dalla Legge 145 del 30 dicembre 2018, che prevedono attività obbligatorie (e requisito d’accesso all’Esame di Stato) nel corso del triennio: 210 ore negli Istituti professionali, 150 ore negli Istituti Tecnici, 90 ore nei Licei.
– Educazione civica, insegnamento trasversale pluridisciplinare istituito dalla Legge 92 del 20 agosto 2019 e attivato dall’a.s. 2020-2021, che impone lo svolgimento di almeno 33 ore annue della disciplina, con valutazione periodica e finale, per tutti gli ordini e gradi di scuola.
– Orientamento, istituito dal D.M. 328/2022, che prevede almeno 30 ore annue, anche extracurricolari, per la secondaria di I grado e il primo biennio del II grado, e 30 ore curricolari nel triennio della secondaria di II grado (sulle criticità legate alla didattica orientativa e, in particolare, della formazione prevista per i tutor, si veda qui).
Basta un rapido calcolo per rendersi conto che, nel triennio della scuola superiore, non meno di un centinaio di ore l’anno (circa il 10% del monte-ore complessivo, a seconda degli indirizzi) vengono impiegate in attività differenti da quelle normalmente richieste dalla didattica disciplinare in classe, che ovviamente ne soffre e deve continuamente rimodulare contenuti e obiettivi.
A margine, si noti che tutte queste attività hanno bisogno di tempo per essere progettate e rendicontate, ed eccoci dunque al terzo punto, poiché on è solo un tempo-scuola disciplinare progressivamente eroso e frammentato a generare nei docenti la costante sensazione di essere in affanno, di non avere più tempo per dedicarsi alla didattica.
L’erosione del tempo dedicato all’otium dei docenti
È in atto infatti, da almeno vent’anni, un processo opposto che concorre a limare via via l’otium degli insegnanti (ovvero il tempo dedicato allo studio, all’aggiornamento, alla pianificazione e progettazione delle attività in classe), saturando all’infinito quella “funzione docente” i cui limiti non sono mai stati stabiliti in fase di contrattazione del CCNL.
Infatti, a partire gradualmente dal 2002 e poi, obbligatoriamente, dal 2009 (sempre per la famigerata Legge Tremonti-Gelmini), tutti i docenti hanno 18 ore settimanali effettive di lezione in classe: tali provvedimenti hanno eliminato le cosiddette “ore a disposizione” che (soprattutto nella secondaria di I grado) venivano utilizzate non solo per le sostituzioni dei colleghi assenti, ma anche per le sorveglianze nella pausa-mensa, le attività alternative all’IRC, le compresenze, il supporto linguistico agli studenti non italofoni, ma hanno avuto un impatto notevole sulla composizione delle cattedre stesse, intaccando anche l’aureo principio della continuità didattica per “incastrare”, come a tetris, il monte orario delle singole discipline nelle 18 ore (caso esemplare, quello dell’insegnamento di storia e filosofia nei licei che non siano il classico, in cui, spesso, non si riesce a garantire che lo stesso docente porti le classi dalla terza alla quinta). Il 2009, inoltre, è anche l’anno in cui viene stabilito l’innalzamento a 27 del numero minimo di alunni per le classi prime, sia nel I che nel II grado.
Il “combinato disposto” di questi provvedimenti ha fatto sì che, rispetto a quindici anni fa, i docenti abbiano più classi (almeno una, se non due, in più) e più numerose. Ciò comporta, ovviamente, un aumento del numero dei consigli di classe (pur sempre all’interno del tetto delle 40 ore annue, ma esclusi gli scrutini), un aumento delle ore per i colloqui con le famiglie (attività funzionale all’insegnamento non quantificata nel CCNL), e spessissimo, per ovvi motivi pratici, un maggiore ricorso alle prove scritte rispetto alle prove orali, con un conseguente maggiore dispendio di tempo ed energie per la preparazione e la correzione delle verifiche.
Si aggiunga, negli ultimi anni, un crescente processo di burocratizzazione della funzione docente: non solo la progettazione e la rendicontazione di attività come quelle già elencate (PCTO, Educazione Civica, Orientamento), ma anche di uscite didattiche e viaggi di istruzione (che richiedono modulistica e preventivi che scoraggerebbero viaggiatori del calibro di Marco Polo e Magellano) o di attività progettuali curricolari ed extracurricolari finanziate con fondi PON o PNRR; tute queste attività e progetti necessitano di referenti e responsabili, con una moltiplicazione e sovrapposizione di incarichi (coordinatore di classe, tutor PCTO, referente di Educazione Civica…) a cui spesso vengono riconosciuti compensi nettamente inferiori all’impegno e al tempo profuso – non dimentichiamo, anche, che la diminuzione degli organici ATA ha fatto sì che spesso i docenti debbano farsi carico di compiti che prima erano svolti dalle segreterie didattiche (modulistica, compilazione piattaforme online, controllo dei pagamenti…).
Inoltre, è sotto gli occhi di tutti la mole abnorme di rendicontazione burocratica richiesta soprattutto quando si tratta di procedure valutative (griglie di valutazione delle prove scritte e orali, recuperi trimestrali e quadrimestrali, relazioni, debiti estivi), finalizzata, perlopiù, non ad una valutazione efficace degli apprendimenti, quanto alla tutela di istituti scolastici, dirigenti e docenti da eventuali ricorsi delle famiglie. Negli ultimi anni, poi, l’aumento di diagnosi e certificazioni per BES e DSA (dati Associazione Italiana Dislessia qui) ha comportato, per moltissimi insegnanti, la compilazione di un numero sempre crescente di Piani Didattici Personalizzati (spesso più di uno per classe) e la predisposizione di adeguati strumenti didattici compensativi.
Dunque, appare chiaro come, rispetto agli anni Novanta e ai primi anni Zero, non solo siano diminuite le ore che i docenti riescono a dedicare al lavoro in classe, ma siano aumentate quelle impegnate in attività di progettazione, documentazione e rendicontazione delle più svariate attività. Ad aggravare tale situazione è anche la diffusione del registro elettronico e delle comunicazioni via mail o chat, che spostano l’adempimento di una serie di compiti inerenti la funzione docente dallo spazio e dal tempo trascorso a scuola (come accadeva quando circolari e registri, cartacei, non potevano essere portati all’esterno) a quello personale e domestico, ponendo il problema del diritto alla disconnessione, non ancora adeguatamente regolamentato.
Da quanto detto, emerge con chiarezza che l’impressione di avere sempre qualcosa da fare ma di non fare mai abbastanza; la percezione di non avere più tempo da dedicare alle proprie discipline, alla didattica in classe, allo studio e alla formazione; la crescente sensazione di stanchezza e sovraccarico mentale, che colpisce sempre più il corpo docente non sono una sterile lamentela dei “fannulloni statali”, ma un grido d’allarme purtroppo trascurato di una categoria ad altissimo rischio di burnout, il cui benessere dovrebbe essere invece uno degli elementi chiave per il benessere di chi la scuola la frequenta, ovvero gli studenti.






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