Delle “istanze convergenti”. Presente e futuro della scuola italiana
di LA FIONDA (Emanuele Dell’Atti)

Le proteste degli studenti che scelgono di fare scena muta alla prova orale dell’esame di stato, non sono parte di una lotta collettiva che contesta la deriva mercatista della scuola. Anzi, a questa deriva fungono da supporto e con questa tendenza di fondo convergono.
Il gesto individuale di non sostenere parte dell’esame, infatti, non sembra voler prendere di mira il modello, il metodo e il lessico aziendali a cui la scuola si ispira, non intende mettere in discussione la “pedagogia econometrica” che premia e punisce in base a crediti, debiti, indicatori e certificazioni delle competenze.
Chi si è reso protagonista di queste proteste, inoltre, non sembra abbia preso posizione contro l’assurda e intollerabile sottrazione di ore alla didattica a vantaggio di PCTO, Orientamento, prove INVALSI, “ri-educazione civica”, continue e sempre più invadenti iniziative extra-scolastiche che ormai scandiscono l’anno al posto dei cicli didattici.
Nessuna disobbedienza verso quella “scuola manageriale” che – anche negli atti ufficiali – parla la neolingua anglofilo-aziendale e che è divenuta la fucina in cui si deve coltivare una forma mentis solo operativa e produttiva, dove non c’è più molto tempo da dedicare all’ “ascolto” di autori, teorie, modelli di spiegazione della realtà e alla loro ri-elaborazione critica.
Le proteste, invece, si focalizzano sul meccanismo valutativo che non ha premiato gli studenti e sembrano ispirarsi, paradossalmente, alla stessa matrice performativa che vorrebbero contestare.
Polemiche individuali, dunque, la cui sorgente, più che una vitale e benvenuta ribellione giovanile, sembra essere quella stessa antropologia dominante dell’uomo imprenditore di se stesso, quella visione tesa ad atomizzare la società e a favorire dinamiche meritocratiche e rivendicazioniste.
Contestazioni, insomma, più affini all’area dei “diritti dei consumatori” che alle lotte per la giustizia e l’emancipazione sociale.
Alcuni opinionisti, da posizioni “libertarie”, vedono in queste proteste sintomi positivi di “sfida al potere”. Ma basta sentire alcune delle motivazioni che sorreggono le contestazioni per capire che siamo di fronte a ben altro.
Siamo di fronte, cioè, ad una convergenza di questi gesti individuali con l’idea che da almeno due decenni egemonizza l’istruzione pubblica e la società tutta: eliminare il sapere, bandito come nozionistico, per promuovere un saper-fare concreto, spendibile, merciforme.
Prova ne siano alcune dichiarazioni, una che proviene dal basso, l’altra che tuona dall’alto. La prima è della studentessa di Belluno, la quale, intervistata dal Corriere, sostiene che è giunto il momento di cambiare la scuola italiana e per farlo, dice testualmente, bisogna guardare ai “modelli nord-europei” e ai “nuovi sistemi di insegnamento”. La seconda è quella di Rusconi, dell’ANP, secondo cui il problema – chi lo avrebbe mai detto – è il metodo di insegnamento: vecchio, frontale, da abbattere.
Da entrambe le prospettive, insomma, i principali imputati sembrano essere sempre i docenti e i loro vetusti metodi di insegnamento: poco interattivi, laboratoriali, esperienziali, smart. Cioè, ancora troppo legati a delle radici storico-culturali e non ancora ben sintonizzati con il culto dei valori di mercato.
Questa singolare convergenza delle due istanze (dal basso e dall’alto) spiega il risalto che i grandi gruppi editoriali – legati a doppio filo a note fondazioni e gruppi di interesse – hanno dato alle contestazioni. Obiettivo? Riformare (cioè: smantellare) la scuola, facendo evaporare ancor più la didattica e il ruolo dei docenti, dando più peso agli “esperti esterni” (che già oggi invadono la scuola a settimane alterne) e alle attività extra-scolastiche. L’obiettivo, alla fine, è abolire l’esame. Poi forse tutta la scuola pubblica.
Conclusione provvisoria: l’allineamento di fondo, la sostanziale convergenza tra i gesti dimostrativi di alcuni studenti e le posizioni di chi vuole completare la distruzione della scuola pubblica intesa come luogo di circolazione dei saperi e della formazione della persona, stanno qui a dirci che le cose, per i docenti e per l’istituzione scolastica, si metteranno ancora peggio nel prossimo futuro.
All’orizzonte già si vedono maggiori richieste di “agentività facilitante” e nuovi “demansionamenti di fatto” per i docenti, cioè più griglie, schede, tabelle, report da compilare per un corpo docente esausto, che presto non sarà più preposto ad “in-segnare” ma solo ad “accompagnare” il futuro atomo sociale in formazione nella giungla competitiva, valorizzando l’agire proattivo, la resilienza, le capacità autopromozionali e le “soft skills” dello studente-consumatore.
Nota a margine. La reazione del ministro è inefficace: bocciare chi non sostiene l’esame orale è solo una misura emergenziale che accontenta gli pseudo-tradizionalisti e i lodatori dei tempi antichi sul piano retorico dell’autoritarismo. In realtà, è solo un intervento episodico, come altri annunciati, che non intacca minimamente la natura che il sistema scolastico ha ormai assunto. Nulla cambierà, insomma, se la scuola non tornerà ad essere – perché in fondo, con alcuni limiti, lo è già stata nel secondo Novecento – la “palestra dello spirito” e il “tempio della formazione culturale”. Non l’anticamera del mercato. Su questo, ad oggi, nessuna contestazione in vista.





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