La crisi dell’Occidente
di LA FIONDA (Sara Gandini)

La crisi dell’Occidente non riguarda solo un calo economico o un indebolimento geopolitico, ma è frutto soprattutto di un malessere profondo che tocca le radici stesse della nostra identità, della nostra cultura e del nostro modo di guardare al mondo. A questo proposito inizio ricordando alcune considerazioni del demografo e storico Emmanuel Todd nel suo libro “La sconfitta dell’Occidente” per poi allargare lo sguardo ad alcune questioni che mi stanno particolarmente a cuore e che secondo me hanno a che fare con la crisi dell’occidente, che sono il ruolo ambivalente della tecnoscienza, e in particolare lo svelamento accaduto con la pandemia, e la profonda crisi di senso che vive oggi il movimento femminista.
Tra le varie questioni sollevate da Todd a mio parere c’è un aspetto fondamentale: lui sostiene che il cuore di questa crisi stia nella perdita della capacità di riconoscere “l’altro”. Sostanzialmente l’Occidente contemporaneo è diventato profondamente autoreferenziale, chiuso in una bolla di presunta superiorità, convinto che il proprio modello di società, di economia, di governo, sia non solo il migliore, ma l’unico legittimo, da esportare ovunque e imporre a tutti.
Eppure, non è sempre stato così. Todd ci ricorda che negli anni Cinquanta, grazie anche al lavoro pionieristico di antropologi e scienziati sociali come Margaret Mead ad esempio, riusciva ancora a cogliere e a rispettare la specificità di culture profondamente diverse. C’era un desiderio di apertura al mondo che ora si fatica a vedere.
Questa chiusura culturale si accompagna a una crisi sociale e morale altrettanto profonda. Prendiamo il caso, paradossale e drammatico, degli Stati Uniti. È l’unico paese tra quelli avanzati che negli ultimi anni ha visto la propria aspettativa di vita ridursi drasticamente. Studi fondamentali, come quelli di Anne Case e Angus Deaton sulle cosiddette “morti per disperazione”, confermano l’ampiezza di questo fenomeno: ondate di morti premature tra i bianchi di mezza età, dovute ad alcolismo, suicidi, obesità, armi da fuoco e alla terribile dipendenza da oppioidi come il fentanil.
E in questo stato di malessere interno, cosa fa l’Occidente, guidato dagli Stati Uniti? Si lascia trascinare, o forse addirittura promuove, conflitti infiniti in giro per il mondo. Anche la guerra a Gaza mostra un’élite americana disorientata che sostiene senza alcun ritegno l’uso della forza da parte di Israele con un atteggiamento nichilistico, mentre Europa senza anima, sempre a rimorchio, è incapace di esprimere una voce autonoma e critica. Sulla Palestina così come per la guerra in Ucraina.
A tutto questo aggiunge Todd, dobbiamo aggiungere un’altra trasformazione sociale contradditoria che sta minando le basi della democrazia occidentale: l’espansione dell’istruzione superiore, invece di alimentare l’uguaglianza come si sperava, ha creato una nuova classe che, forte di un titolo di studio, è convinta della propria superiorità e si sente legittimata da un’ideologia del merito spietata. Questa frattura ha portato a un crescente disprezzo verso chi possiede solo un’istruzione di base, acuendo le disuguaglianze economiche già esasperate dalla globalizzazione e dal neoliberismo. Il risultato è una polarizzazione politica tossica, che alimenta il successo di movimenti identitari, populisti e xenofobi, e che trascina progressivamente a destra anche i partiti tradizionali.
Ora se pensiamo al punto di incontro della nostra modernità possiamo nominare tre fenomeni: il colonialismo, il capitalismo e una certa idea di scienza, basata sul linguaggio matematico e orientata all’applicazione tecnologica, in particolare con l’intelligenza artificiale. Non per nulla Francis Bacon affermò “scienza è potenza”. Una potenza di dominio, come spiega bene anche Evelyn Fox Keller nel suo libro “il Genere e la scienza”, in cui ha analizzato il linguaggio di Bacone e mostra come colui che è considerato il padre del metodo scientifico sia mosso non tanto dal desiderio di scoperta e sintonia con la natura ma da un’ansia di controllo. La natura nella concezione di Bacone doveva essere “costretta a servire” e resa “schiava”.
Da biostatistica/epidemiologa so bene come la tecnoscienza moderna sia intrisa sia di logiche quantitative ed economiche che di manipolazione del vivente, con l’AI che domina ogni ambito. La pretesa di oggettivare e presentare come neutri, assoluti, dati e risultati che sono per loro natura in evoluzione, danno al tecnico, presunto soggetto separato dal mondo, l’illusione pericolosa di poter governare la realtà, dando l’impressione che questa postura sia necessaria e indiscutibile.
Ce ne siamo accorti con la pandemia. Le controversie scientifiche sono state gestite mettendo a tacitare le opinioni divergenti e squalificando il dissenso, per sostenere una verità ufficiale, di stato, che non poteva essere discussa. La gestione dell’emergenza sanitaria ha spesso seguito questa logica autoritaria, dalla chiusura delle scuole, contro cui mi sono battuta in prima persona ai ricatti e obblighi vaccinali, cercando di chiudere il dibattito e criminalizzando qualsiasi voce critica o semplicemente prudente.
Questo impoverimento simbolico, associato al potenziamento inarrestabile degli strumenti tecnici, mostra oggi i suoi effetti drammatici su tutti i fronti: ecologico, sociale, dei rapporti internazionali, della salute.
Un impoverimento simbolico che abbiamo visto anche con il recente movimento femminista, anch’esso specchio della crisi dell’Occidente: di fatto il femminismo è stato in gran parte inglobato nel progetto neoliberista. Si è trasformato, in troppi casi, in un movimento che considera le donne semplicemente come un gruppo sottorappresentato e che punta solo ad assicurare a poche privilegiate di conseguire posizioni e paghe pari agli uomini della loro stessa classe. Il femminismo di stato, il femminismo americano, del nord Europa in particolare, quello della schwa, è un femminismo che ha dimenticato la sua anima sociale e collettiva.
Il femminismo liberale dominante si è specializzato sui diritti civili e sulla decostruzione delle identità, dimenticando non solo il tema centrale del lavoro, della giustizia economica e della solidarietà di classe, ma anche la sua carica radicale eversiva.
Le “quote rosa” e le “azioni positive” sono misure perfettamente compatibili con il sistema capitalistico: servono a inserire alcune donne nei consigli di amministrazione, ma non mettono in discussione le logiche di sfruttamento di quel sistema. Alle donne viene posto un bivio: mettere su famiglia accettando un lavoro precario e part-time, o concentrarsi sulla carriera rinunciando alla vita affettiva e familiare. È una libertà che rischia di andare alla deriva dell’insignificanza e dell’imitazione del modello maschile dominante, fino agli eccessi mostruosi delle donne che sono diventate aguzzine nel carcere di Abu Ghraib. Pensiamo anche alla pretesa, tutta occidentale, di “esportare” la libertà femminile in altri paesi e culture. In molti casi è stata pura propaganda, come quando si è giustificata la guerra in Afghanistan come una missione per liberare le donne.
In questa fase di crisi, noi occidentali rischiamo di commettere due errori clamorosi e opposti. Il primo è quello di tentare in ogni modo di rilanciare le logiche che ci stanno conducendo alla catastrofe: il “There Is No Alternative”, lo sfruttamento spietato degli umani e degli ecosistemi, l’uso delle armi come soluzione inevitabile dei conflitti, la privatizzazione dei beni comuni. Il secondo errore, speculare, è buttare via il bambino con l’acqua sporca: cioè considerare l’identità occidentale solo alla luce delle sue innumerevoli colpe e responsabilità, auspicando in pratica il suicidio culturale di un’intera tradizione, senza discernimento.
Allora, cosa fare? Quale potrebbe essere una via d’uscita per un Occidente responsabile di milioni di morti tra imperialismo, colonialismo e guerre? Come scrivevo con Paolo Bartolini sul blog del Fatto quotidiano due potrebbero essere i movimenti necessari.
Il primo è accettare di tramontare, ma di farlo con giudizio. Cedere potenza, non per debolezza, ma per saggezza. Coltivare con pazienza i processi diplomatici a tutti i livelli, aprire veri negoziati con gli altri attori globali per rispondere insieme alle sfide epocali del Terzo Millennio. Questo significa avere il coraggio di ripensare il sistema economico nella sua globalità, senza dare per scontato che il capitalismo neoliberista sia l’unica possibilità. Significa rimettere al centro di ogni discussione le contraddizioni di questo mondo: le diseguaglianze sociali, i flussi migratori, le guerre, il disastro ambientale.
Il secondo movimento è complementare: valorizzare gli aspetti più degni della nostra tradizione e portarli al tavolo dei negoziati, per offrirli anche agli altri popoli e culture. La questione a questo punto è saper comunicare con umiltà ciò che amiamo della nostra storia e adattarlo ai tempi. E penso in primis a quella ricerca filosofica e scientifica che ha l’autocritica e l’autoriflessione come metodo e guida. E la commissione Dubbio e Precauzione ne è un recente illustre esempio.
E includo qui anche il pensiero della differenza, quel femminismo radicale che va da Luce Irigaray a Carla Lonzi e Luisa Muraro, che non cede alla tentazione del neutro, che non si accontenta della lotta per i diritti, e non rinuncia a pensare la differenza tra i sessi, a livello simbolico prima di tutto. Quel femminismo che parte dai corpi, dalle contraddizioni della sessualità, per arrivare a ripensare la società nella sua interezza, partendo dal doppio sì, lavoro e figli, che obbliga a rimettere in discussione tutta l’organizzazione del lavoro.
Da questa capacità di problematizzare l’ovvio deriva quello spirito critico mosso dal desiderio di trasformazione sociale e di giustizia. Certo dobbiamo ammettere che le ultime vicende storiche mostrano che non siamo dei maestri a questo livello. Ma non vedo alternative all’abbracciare il meglio della nostra tradizione, e al tempo stesso chiedere scusa per la moltitudine di prepotenze con cui abbiamo troppo a lungo assoggettato chi la pensava diversamente.
Concludo dicendo che dobbiamo avere il coraggio di tramontare con giudizio, per poter rinascere in una forma nuova, più umile e più aperta al mondo. Un Occidente che non ha paura della complessità, partendo dalla prima differenza, quella tra i sessi. Perché ne va della nostra umanità, oggi più che mai.
FONTE: https://www.lafionda.org/2025/09/16/la-crisi-delloccidente





Commenti recenti