Lo schianto di Milei: fuga dei capitali dall’Argentina e dubbi sul salvataggio americano
di TERMOMETRO GEOPOLITICO (Andrea Muratore)

Settimane turbolente per l’Argentina di Javier Milei dopo il crollo della borsa di Buenos Aires e le turbolenze sui conti pubblici verificatesi a seguito dell’indebolimento dei fondamentali economici del Paese. Dopo un anno di lacrime e sangue e una dura austerità fiscale, il presidente di destra libertaria sperava che l’aggiustamento strutturale del Paese desse i suoi frutti in termini di crescita e di attrattività dell’Argentina. Così non è stato, anzi.
A settembre, dopo che Milei e il suo campo largo “La Libertà Avanza” hanno perso le elezioni locali e si sono visti messi in difficoltà in vista dell’imminente voto congressuale, Buenos Aires ha bruciato 1,1 dei 20 miliardi di dollari di riserve estere per stabilizzare un mercato che ha messo sotto stress il peso e il debito pubblico del Paese.. La Borsa di Buenos Aires ha bruciato un decimo del suo capitale in un mese, anche al netto di un rimbalzo a fine settembre.
La spinta degli Usa per salvare Milei
Milei si è dovuto rivolgere agli Stati Uniti e ha dovuto negoziare con Donald Trump e il segretario al Tesoro Scott Bessent una linea di credito da 20 miliardi di dollari per raffreddare le tensioni. Ai margini dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite è nata un’intesa di massima, ancora non concretizzatasi.
“La pressione sul peso si è intensificata martedì con la fine di una breve sospensione delle tasse per gli esportatori agricoli, che aveva incrementato l’offerta di dollari in Argentina negli ultimi giorni, e con le modifiche alle normative della Banca centrale che hanno aumentato la domanda di valuta statunitense sul mercato valutario ufficiale”, nota il Financial Times.
Trump sta facendo di tutto per aiutare l’alleato latinoamericano, con cui la sintonia è notevole sulla scia di un ruolo preminente di Milei nella costruzione dell’immaginario politico della nuova destra occidentale, libertaria in economia e conservatrice sul piano sociale e politico, dell’ottimo rapporto del presidente con i circoli a lui vicini (e con Elon Musk) e della volontà di Washington di non perdere un importante punto di riferimento nel Cono Sud. Con il Brasile di Lula che fa gioco a sé e la Colombia di Gustavo Petro arroccata su posizioni fieramente antiamericane, l’Argentina è garanzia della proiezione statunitense nell’ex “cortile di casa” latinoamericano. Bessent, in modalità Mario Draghi, ha detto che Washington avrebbe fatto “tutto il necessario” (whatever it takes) per appoggiare Buenos Aires.
L’Argentina tra Cina e Usa
Ebbene, ad oggi fatti concreti devono ancora palesarsi: l’Argentina è reduce di un prestito da 20 miliardi di dollari del Fondo Monetario Internazionale incassato ad aprile e la sensazione è che la sfiducia dei mercati per Milei si appassita. Del resto, il presidente libertario ha fatto di tutto per contenere l’inflazione nel Paese, una politica che sostanzialmente ha depauperato uno dei pochi fattori di attrattività dell’Argentina, gli alti tassi del debito cercati dagli investitori in cerca di rendimento.
Washington ha annunciato ma non ufficializzato la linea di credito, mentre il Ft segnala che “la Cina ha già esteso una linea di swap da 18 miliardi di dollari all’Argentina, di cui 5 miliardi sono stati utilizzati. Hanno affermato che è improbabile che gli Stati Uniti accettino di estendere una linea di swap da 20 miliardi di dollari lanciata da Bessent senza volere che l’Argentina rinunci alla linea di credito cinese”. Sarà questo che Trump chiederà a Milei il 14 ottobre, quando il presidente argentino arriverà alla Casa Bianca? Possibile. Il presidente ha bisogno di respingere l’attacco della sinistra in vista del decisivo voto parlamentare del 26 ottobre. E l’amico Donald potrebbe chiedergli un “do ut des” politicamente rischioso per provare a tamponare la falla sempre più vistosa in atto.
#TGP #Argentina
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