Dick Cheney: il potere al servizio della guerra (e non solo)
di TERMOMETRO GEOPOLITICO (Paolo Arigotti)

Richard Bruce Cheney, meglio noto come Dick, classe 1941, è morto lo scorso 3 novembre all’età di 84 anni.
Segretario alla Difesa (oggi lo chiameremmo alla Guerra) con Bush “padre” e Vicepresidente durante l’Amministrazione di George W. Bush (2001–2009), lascia un’eredità politica tra le più controverse della storia recente. Se per i supporters sarebbe stato un grande stratega che avrebbe contribuito al presidio e rafforzamento della sicurezza nazionale (pensiamo solo al famigerato “Patriot act”, varato all’indomani del crollo delle Torri gemelle), per i critici sarebbe stato il fautore di scelte politiche che hanno contribuito a rafforzare il potere esecutivo, a discapito di diritti e libertà fondamentali, per non parlare delle guerre volute contro Afghanistan e Iraq, che hanno provocato un bilancio di vittime e devastazioni di proporzioni immani.
Se già qualche avvisaglia ci fu quando fu a capo del Pentagono, soprattutto in qualità di vice di “Bush figlio” concentrò nelle sue mani poteri rilevanti, che tradizionalmente non pertengono alla figura del Vicepresidente, disegnato dalla Costituzione statunitense come eminentemente cerimoniale, privo di reali prerogative. Cheney fu determinante in una serie di decisioni di politica estera, difesa, sicurezza interna, che ne fecero uno dei principali strateghi del post 11 settembre.
Se già nelle ore concitate degli attentati al World Trade Center (e al Pentagono) Cheney prese in prima persona importanti decisioni – come lo spostamento in luogo sicuro del Presidente – accompagnate da controversi ritardi nelle misure difensive, resta il fatto che la stessa Commissione parlamentare d’inchiesta sui fatti dell’11 settembre, pur escludendo responsabilità penali del Vice presidente e ogni complicità diretta nei fatti, individuò diversi limiti nella preparazione e condivisioni di elementi e informazioni, che avrebbero quantomeno contribuito ad aggravare il quadro.
Non è un mistero che lo stesso Cheney sia stato il promotore dell’intervento militare in Iraq del 2003, in particolare col pretesto – rivelatosi infondato – del possesso di armi di distruzione di massa da parte del regime di Saddam Hussein (già “pupillo” di Washington ai tempi del conflitto con l’Iran), accompagnato dalla nota esibizione della fialetta da parte dell’allora segretario alla Difesa Colin Powell; lo stesso dicasi per le presunte iniziative di Baghdad di procurarsi uranio in Africa.
Ogni volta la versione ufficiale è stata più o meno la stessa: le notizie erano infondate, ma i decisori politici erano in “buona fede” quando le sostennero. A chi legge farsi un’idea.
Qualunque opinione si voglia sostenere, sia nel caso afgano che in quello iracheno parliamo di iniziative belliche illegittime sotto il profilo del diritto internazionale: un quadro completo in tal senso lo si può ricavare dalla lettura del fondamentale contributo dello storico svizzero Daniele Ganser, Le guerre illegali della Nato, pubblicato in Italia da Fazi. Il tutto senza dimenticare che le conseguenze dei due conflitti furono tragiche, specie per la popolazione civile, che ha subito anni di occupazione e abusi di ogni tipo: basterà citare le prigioni di Abu Ghraib o le cinquecentomila vittime tra i bambini iracheni, definite un “prezzo accettabile” da pagare stando a un’altra “illustre” scomparsa. Circostanze o dichiarazioni che potrebbero (e dovrebbero) sollevare non poche riserve circa il cosiddetto “faro” della democrazia planetaria e i suoi discutibili metodi di esportazione della stessa. E magari sulle possibili iniziative in cantiere nel “cortile di casa”.
A tal proposito, merita un cenno il controverso programma di detenzioni e interrogatori messo in atto dalla CIA dopo l’11 settembre, che includeva tecniche note come “enhanced interrogation techniques” (spinning infernale, isolamento prolungato, simulazioni di annegamento, etc.). Il rapporto del Comitato di Intelligence del Senato (spesso citato come “Senate Torture Report”) ha documentato, sulla base di migliaia di pagine di documenti, abusi di ogni genere, accompagnati da false affermazioni sull’efficacia delle tecniche e prassi adottate al di là (e al di fuori) di ogni controllo giudiziario o parlamentare (alla faccia della democrazia e dello stato di diritto!). Scelte politiche che videro in Cheney un fervente sostenitore.
Le responsabilità attribuite a “Dick” in campo militare e securitario, si accompagnano a quelle di numerosi conflitti d’interesse. Prima (e dopo) il suo ingresso in politica rivestì importanti ruoli manageriali nella Halliburton, gruppo multinazionale del quale fu anche CEO, con interessi nel settore dei lavori pubblici, dei giacimenti petroliferi e militare; e lo stesso potrebbe dirsi per alcune controllate come la KBR, assegnataria di diversi contratti di appalto in Iraq, spesso ottenuti senza gara o grazie a procedure “accelerate”. Per quanto Cheney abbia sempre sostenuto che le decisioni in merito fossero state gestite dalle istituzioni competenti e nel rispetto delle leggi, il sospetto politico non è mai stato fugato.
Inutile aggiungere che nonostante indagini parlamentari, denunce di vari organismi internazionali impegnati nel settore dei diritti umani e inchieste giornalistiche, non si è mai arrivati a imputazioni vere e proprie, se non sotto il profilo politico e dell’opportunità. In un mondo (inteso in senso occidentale) che si riempie tanto la bocca di rispetto delle regole e tutela dei diritti, la vicenda umana e politica di Dick Cheney è emblematica, e può offrire la misura dell’ipocrisia che circonda certe narrazioni, e di coloro che se ne fanno portatori.
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Fonte: https://www.lafionda.org/2025/11/06/dick-cheney-il-potere-al-servizio-della-guerra-e-non-solo/
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