La turistificazione come dispositivo di governo neoliberale
di LA FIONDA (Thomas Fazi)

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo la prefazione del libro di Antonio di Siena, Turisti a casa nostra (LAD, 2025). Buona lettura!
Questo è un libro che si distingue per molti motivi, a partire dalla capacità di mescolare sapientemente racconto e analisi, esperienza vissuta e teoria, storie e storia, immagini – vivide, vividissime – e numeri. È come un lungo piano sequenza in cui la macchina da presa si muove tra le strade, le case e le persone che le abitano, si sofferma sui loro volti e sulle loro sofferenze, ci catapulta all’interno delle loro lotte, per poi librarsi in cielo e mostrarci dall’alto gli ingranaggi invisibili che stanno lentamente trasformando – o, in larga parte, hanno già trasformato – le nostre città. In questo modo riesce nella rara impresa di restituire, in tutta la sua carnalità, un fenomeno che altri avrebbero affrontato unicamente con i freddi strumenti dell’analisi, sociologica, economica o politica che sia.
Il risultato è ancora più ammirevole se si considera che il fenomeno in questione – la turistificazione – è tuttora in corso: esattamente come fotografare un oggetto in movimento è molto più difficile che catturare qualcosa di statico, anche analizzare dei processi storici mentre si stanno svolgendo – e nei quali siamo direttamente coinvolti – è assai più complesso che studiare dall’esterno processi già compiuti. Ma è proprio questo, in ultima analisi, a rendere così appassionante la lettura: Di Siena non è un osservatore distaccato e tantomeno imparziale – e tantomeno fa finta di esserlo – ma è egli stesso uno dei protagonisti del proprio racconto, essendo quest’ultimo, in molti casi, il frutto di esperienze da lui vissute in prima persona: un racconto, dunque, fatto dall’interno, e il cui finale, come vedremo, è ancora da scrivere.
In questa sede non mi dilungherò troppo sulla natura del processo di turistificazione in sé, anche perché, da non specialista della materia, potrei aggiungere ben poco alla brillante analisi di Di Siena. Piuttosto, mi concentrerò su alcune delle dinamiche storiche – economiche e politiche – che lo hanno determinato. Prima di farlo, però, può essere utile tratteggiare alcuni degli aspetti più salienti del fenomeno. Per turistificazione, nell’analisi di Di Siena, si intende un processo sistemico di colonizzazione ed espropriazione delle città da parte del capitale finanziario, che trasforma lo spazio urbano, la casa, la vita stessa dei cittadini in una merce da cui estrarre valore.
Non indica, dunque, semplicemente la crescita del turismo, ma una vera e propria metamorfosi economica, politica e culturale delle città contemporanee, soprattutto nel Sud Europa. Ci troviamo, in sostanza, di fronte a un processo attraverso cui le città vengono progressivamente riconfigurate secondo la logica del turismo e della rendita, smettendo di essere luoghi di riproduzione sociale – con comunità e identità stabili, servizi, lavoro – per diventare “città-merce” o “quartieri-piattaforma”, come scrive Di Siena: spazi orientati al consumo e al ricambio continuo di visitatori.
La turistificazione è da intendersi, in sostanza, come una strategia di estrazione di valore in un contesto di bassa crescita, quale quello dell’Europa meridionale, in cui ormai vi è ben poco da estrarre dall’economia reale. In tale contesto, le abitazioni diventano la “materia prima” di un’economia renditiera che lavora su affitti brevi, consumo continuo e servizi turistici.
Questo processo di estrazione di valore si articola su due livelli complementari. Da un lato, i proprietari di casa vengono incentivati a privilegiare gli affitti brevi – spesso presentati come un modo per “integrare il reddito” – ma che in realtà spostano una quota crescente dei profitti verso le grandi piattaforme digitali che gestiscono le prenotazioni e impongono le proprie regole, tariffe e commissioni. In questo modo, la piccola proprietà viene inglobata in una catena del valore dominata da attori globali che ne drenano la redditività.
Dall’altro lato, si verifica una progressiva concentrazione della proprietà immobiliare. Attraverso l’imposizione di condizioni di rimborso dei mutui sempre più onerose, famiglie e piccoli proprietari vengono spinti verso l’insolvenza, aprendo la strada all’espropriazione sistematica degli immobili da parte di banche, società immobiliari e grandi fondi d’investimento. Ciò che inizia come indebitamento individuale si traduce in un trasferimento collettivo di ricchezza reale – case, quartieri, interi centri urbani – verso i vertici del capitale finanziario. In sintesi, la turistificazione agisce come un meccanismo di estrazione a doppia mandata: da un lato mercifica l’uso dell’abitazione, dall’altro ne finanziarizza la proprietà, convertendo lo spazio urbano in una miniera di rendita per il capitale globale. Una vera e propria forma di colonizzazione finanziaria.
Si tratta di un fenomeno per molti versi globale, che però, nel Sud Europa, come detto, sembra aver assunto connotati specifici, determinando uno strisciante processo di “secondomondizzazione”, dice Di Siena, in cui il turismo sta progressivamente diventando una monocultura economica: una dipendenza strutturale fondata sulla rendita, la precarietà e la deindustrializzazione. Ciò è particolarmente preoccupante se consideriamo la natura iper-estrattiva di questo modello, che comporta una duplice espropriazione: non solo economica e materiale ma anche simbolica, nella misura in cui quartieri perdono identità e memoria collettiva, diventando “non-luoghi” pensati per la mobilità e la transitorietà.
Di Siena sottolinea giustamente come quest’ultima non rappresenti un effetto collaterale della turistificazione, ma bensì uno dei suoi obiettivi non dichiarati. La turistificazione, infatti, svolge anche una importante funzione politica: pacifica il conflitto sociale, assorbendo temporaneamente la disoccupazione attraverso lavori precari, stagionali e non sindacalizzati; riduce la pressione per politiche di piena occupazione, sostituendo il welfare con quello che Di Siena chiama un “welfare surrogato”, cioè un sistema di sopravvivenza fondato sulla rendita, l’indebitamento e la precarietà; e, infine, frammenta le comunità, disinnescando alla radice qualunque tentativo di resistenza a cui questo processo potrebbe – dovrebbe – dar vita. Lo svuotamento sociale diventa dunque una forma di controllo politico: un vero e proprio dispositivo di governo neoliberale (“svuotare per dominare”).
E qui arriviamo al nocciolo della tesi di Di Siena: ovvero sia che la turistificazione non è affatto un processo naturale – e neanche la conseguenza inevitabile della crisi o al massimo della sua mala gestione – ma una strategia politica deliberata, promossa e sostenuta dagli Stati dei paesi in questione, finalizzata alla costruzione di “un modello semi-schiavile o – se vogliamo – neocoloniale”, come scrive. Di Siena analizza in profondità le politiche adottate dagli Stati al fine di creare le condizioni strutturali che rendano possibile l’estrazione di risorse attraverso il turismo: dalla precarizzazione del mercato del lavoro alla compressione della spesa pubblica e del welfare, dalla riforma dei contratti di locazione alla facilitazione degli sfratti. Tutti interventi che, lungi dall’essere risposte contingenti alla “crisi”, delineano un vero e proprio modello di governance economica fondato sulla rendita e sull’instabilità sociale.
In questa sede, tuttavia, vorrei soffermarmi sul ruolo — a mio avviso ancor più decisivo — giocato in questo processo dall’Unione europea, intesa non semplicemente come cornice istituzionale, ma come sovrastato neoliberale incaricato di coordinare e standardizzare tali politiche a livello continentale. Lungi dal limitarsi a imporre vincoli di bilancio, come vedremo, l’UE ha agito come un meccanismo di centralizzazione del potere economico e normativo, trasformando la cosiddetta “governance europea” in una vera e propria infrastruttura di estrazione di valore dal basso verso l’alto. Per parafrasare Marx, potremmo dire che l’Unione europea si configura oggi come il comitato che amministra gli affari comuni delle élite finanziarie transnazionali.
Per comprendere appieno il ruolo dell’Unione europea nel processo di turistificazione descritto da Di Siena, occorre tornare alle origini storiche e politiche del progetto di integrazione europea. Fin dall’inizio, l’obiettivo non era soltanto economico, ma profondamente politico: addomesticare le forze del lavoro organizzato, neutralizzando la capacità di conflitto che, nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, aveva costretto il capitale a condividere una parte significativa dei propri profitti – e ad accettare una riduzione del proprio potere di classe – sotto forma di salari, welfare e diritti sociali.
La costruzione europea si configura così dall’origine come una risposta di classe alla crisi degli anni Settanta: una crisi percepita dalle élite non solo come un problema di natura economica – nel senso di una riduzione dei profitti – ma come minaccia politica, poiché l’aumento del potere contrattuale del lavoro – reso possibile dalla piena occupazione e dalla democrazia industriale – metteva in discussione la distribuzione del potere e dei profitti all’interno del capitalismo occidentale. Il cosiddetto “vincolo esterno” – l’idea che la disciplina economica dovesse essere imposta dall’esterno, attraverso regole sovranazionali e mercati finanziari – divenne fin da allora il principale strumento per contenere la sovranità democratica e restaurare il potere del capitale.
Un primo passo in questa direzione fu il Sistema monetario europeo (SME), istituito nel 1979. Esso legò rigidamente i tassi di cambio fra le valute europee, impedendo alle singole economie di utilizzare la leva monetaria per sostenere l’occupazione e la spesa pubblica. In tal modo, la politica economica nazionale venne progressivamente subordinata agli obiettivi della stabilità dei prezzi e della competitività esterna: obiettivi funzionali non alla prosperità collettiva, ma alla tutela dei creditori e degli esportatori. Lo SME rappresentò, di fatto, una prima forma di addomesticamento del lavoro: vincolare la politica monetaria significava togliere ai governi lo strumento con cui, nel dopoguerra, si era garantita piena occupazione.
Con la creazione del mercato unico europeo (1986) e la contestuale liberalizzazione dei movimenti di capitale (1990), questo processo entrò in una nuova fase. Le frontiere economiche vennero aperte non tanto per favorire la cooperazione, quanto per creare concorrenza permanente tra Stati e lavoratori. La libera circolazione dei capitali, in particolare, privò i governi della possibilità di controllare i flussi finanziari, ponendo le economie nazionali sotto il ricatto costante dei mercati. Si trattò di un passo decisivo verso la finanziarizzazione dell’economia europea, che trasformò il credito, l’immobiliare e il debito in nuovi terreni di estrazione di valore – gli stessi su cui oggi si fonda, in larga parte, la turistificazione.
La creazione dell’Unione europea – fondata sulla “libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali” – e l’introduzione dell’euro portarono a compimento questa architettura. Cedendo la loro sovranità monetaria, gli Stati rinunciarono alla possibilità di gestire autonomamente il ciclo economico. L’unico strumento rimasto per correggere gli squilibri tra i paesi dell’area euro – non potendo più svalutare la moneta – divenne dunque la svalutazione interna, cioè la compressione dei salari, dei diritti e della spesa pubblica. Si inaugurò così un modello economico export-led, fondato sulla competizione tra lavoratori europei e sulla riduzione sistematica del costo del lavoro. In nome della competitività, le economie del Sud Europa vennero spinte verso la specializzazione in settori a basso valore aggiunto, tra cui appunto il turismo, mentre i paesi del Nord, e in particolare la Germania, rafforzarono la propria posizione industriale ed esportatrice.
La crisi dell’euro non ha fatto che esasperare queste dinamiche. Gli squilibri strutturali generati dalla moneta unica – enormi surplus commerciali nel Nord e deficit nel Sud –, combinati con gli effetti della crisi finanziaria, esplosero nella cosiddetta “crisi del debito sovrano” – a sua volta generata dall’impossibilità per i singoli Stati di gestire autonomamente le proprie politiche monetarie – che fu usata dalle istituzioni europee come arma politica per imporre riforme neoliberali radicali.
Oggi sappiamo, infatti, che tale “crisi” fu in larga misura “ingegnerizzata” dalla BCE (e dalla Germania) per imporre un nuovo ordine sul continente, in una sorta di “shock economy” autoindotta. L’allora presidente della BCE, Jean-Claude Trichet, non fece mistero del fatto che il rifiuto della banca centrale di sostenere i mercati dei titoli di Stato nella prima fase della crisi finanziaria fosse finalizzato a fare pressione sui governi dell’eurozona affinché consolidassero i loro bilanci e attuassero le cosiddette “riforme strutturali”, in particolare la deregolamentazione del mercato del lavoro.
La BCE e la Commissione sfruttarono dunque la crisi come occasione per trasformare l’Unione in un laboratorio di ingegneria sociopolitica: salvare le banche con denaro pubblico, scaricare i costi sui cittadini attraverso tagli, privatizzazioni e precarizzazione, e imporre un processo di radicale neoliberalizzazione dell’economia europea.
Emblematica, in tal senso, fu la lettera inviata nel 2011 da Jean-Claude Trichet e Mario Draghi al governo italiano, nella quale la BCE imponeva un vero e proprio programma di governo: riduzione della spesa sociale, riforme del mercato del lavoro, deregolamentazione e privatizzazioni su larga scala. Un memorandum di austerità preventiva, concepito per ridurre il potere contrattuale del lavoro e assicurare la disciplina dei mercati finanziari.
Ma la BCE non si limitò a far fare il lavoro sporco ai mercati. In più di un’occasione utilizzò il proprio potere di monopolio della valuta come strumento attivo di pressione finanziaria e monetaria. Un esempio fu la decisione della BCE di ridurre gli acquisti di titoli di Stato italiani, pochi mesi dopo l’invio della famosa lettera, al fine deliberato di provocare un’impennata dello “spread” e costringere così Berlusconi a dimettersi e a lasciare il posto al governo “tecnico” di Mario Monti – un vero e proprio esempio di “colpo di Stato monetario”.
Ma il caso greco rappresentò l’esempio più brutale di questa logica. Nel bel mezzo del negoziato tra le autorità greche e la troika, la BCE destabilizzò deliberatamente l’economia greca, interrompendo il supporto di liquidità alle banche greche, effettivamente portando a uno stop tutto il sistema bancario del paese, con l’obiettivo di costringere il governo di SYRIZA ad accettare le dure misure di austerità contenute nel nuovo memorandum, ricattando così un intero popolo per imporre politiche di tagli, licenziamenti e svendite del patrimonio pubblico. È forse superfluo a questo punto ribadire che il cosiddetto “salvataggio” della Grecia non servì a salvare i greci, ma piuttosto le banche creditrici francesi e tedesche, esposte verso Atene: in nome della solidarietà europea si consumò così un gigantesco trasferimento di ricchezza dal Sud al Nord del continente.
Tutto ciò ha avuto effetti profondi e duraturi: smantellamento dei sistemi di welfare, precarizzazione del mercato del lavoro, aumento delle disuguaglianze e svuotamento della democrazia economica, stagnazione economica e deindustrializzazione. Parallelamente, la politica economica – già pesantemente limitata dall’architettura dell’euro – è stata completamente sottratta al processo democratico e subordinata alle regole del capitale finanziario.
Ed è proprio in questo contesto che matura il terreno su cui attecchisce la turistificazione. Quando il lavoro stabile viene sostituito da lavori precari e stagionali, quando la spesa pubblica è compressa e gli investimenti produttivi si prosciugano, il turismo diventa l’unico settore capace di generare flussi di liquidità immediata, seppure al prezzo di una crescente dipendenza e di un impoverimento strutturale. In questo senso, la turistificazione, in cui la città diventa una piattaforma di estrazione per il capitale globale, è la conseguenza logica – e voluta – del modello economico europeo: un modello nato per favorire gli interessi delle oligarchie finanziarie, in cui la rendita finisce per prendere progressivamente il posto della produzione, soprattutto nei paesi del “secondo mondo” europeo.
La lezione che emerge da ciò – e che attraversa in filigrana tutta l’analisi di Di Siena – è che la turistificazione non è un’anomalia da correggere con qualche politica di settore o con un po’ di “regolazione intelligente” dei flussi turistici, ma il sintomo di una malattia molto più profonda: la subordinazione integrale dell’economia, dello spazio urbano e della vita sociale alle logiche della rendita e della finanza. In questo senso, immaginare di contrastarla semplicemente “cambiando politica economica”, senza mettere in discussione le fondamenta dell’attuale ordine monetario e istituzionale europeo, equivale a curare un’infezione sistemica con un analgesico.
Superare la turistificazione implica, invece, un rovesciamento strutturale: la riappropriazione, da parte degli Stati e delle comunità, degli strumenti fondamentali di gestione e orientamento dell’economia – dalla politica monetaria a quella industriale, dal credito pubblico alla pianificazione territoriale. Significa restituire alla sfera democratica ciò che oggi è stato consegnato ai mercati, alle banche centrali “indipendenti” e alle istituzioni tecnocratiche di Bruxelles.
Solo attraverso il recupero della sovranità economica e politica, cioè della capacità collettiva di decidere come e per chi produrre ricchezza, sarà possibile invertire il processo di deindustrializzazione e precarizzazione che ha reso intere società dipendenti dalla monocultura del turismo. Finché le città saranno governate dalle stesse regole che hanno imposto l’austerità, la compressione dei salari e la privatizzazione dei beni comuni, esse continueranno a trasformarsi sempre più in scenografie da sfondo ai flussi del capitale finanziario.
Spezzare la logica della turistificazione, dunque, non significa solo cambiare modello urbano: significa cambiare paradigma economico e politico. Significa – per usare le parole di Di Siena – “riscopr[ire] la comunità come infrastruttura portante della democrazia e la stabilità come diritto e non come privilegio”, sottraendo le nostre città al destino di colonie interne del capitale globale.
FONTE: https://www.lafionda.org/2025/11/25/la-turistificazione-come-dispositivo-di-governo-neoliberale/





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