Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti
Come ci ricorda Nancy Fraser nel suo ultimo saggio, “la contraddizione ecologica del capitalismo non può essere nettamente separata dalle altre irrazionalità e ingiustizie costitutive del sistema” [Fraser N. (2022), p. 100], quali l’espropriazione coloniale, il patriarcato, lo sfruttamento del lavoro e la sottrazione di democrazia. Per questo la teoria critica deve tentare di analizzare queste contraddizioni all’interno di un quadro interpretativo che provi a dar conto delle loro interconnessioni. In questo approfondimento, proviamo a mettere insieme alcune dimensioni di questo quadro interpretativo che riguardano il ruolo dell’energia e delle tecnologie di uso generale (“General Purpose Technologies” – GPT) nel produrre e consolidare la transizione a diversi regimi socio-ecologici di accumulazione. [ivi, p. 103]
L’applicazione della tecnologia energetica su vasta scala attraverso l’architettura delle sue infrastrutture è un passaggio essenziale da un regime di accumulazione all’altro. L’importanza delle infrastrutture, infatti, risiede proprio nella loro capacità di istituzionalizzazione del reale [Borghi e Leonardi, 2024, p. 18]. Per comprendere, quindi, i nodi storici e sociali della transizione energetica attuale è necessario mettere in luce il ruolo storico svolto dall’innovazione tecnologica, in particolare in campo energetico, e il ruolo giocato dai processi di infrastrutturazione del fossile nel risolvere le crisi dei precedenti regimi socio-ecologici di accumulazione. Di questi problemi si sono occupati alcuni autori centrali per la riflessione sulle fonti fossili, come Timothy Mitchell e Andreas Malm.
Quest’ultimo si è occupato in particolare del nesso tra innovazione tecnologica e conflitto sociale. Nel suo saggio Long waves of fossil development: Periodizing energy and capital del 2018 si rifà al lavoro di Nikolai Kondriatef che aveva individuato delle fasi cicliche di accumulazione capitalistica della durata di circa 60 anni. Questi cicli, definiti onde lunghe di accumulazione, sarebbero caratterizzati da una fase iniziale di boom, cioè di rapida crescita di produzione e profitti, che cede il posto ad un periodo di stagnazione. Sulla scia di Kondriatef, Malm individua cinque cicli di accumulazione tra la fine del Settecento e il 2008 [Malm, 2018, p. 18]. Dal ciclo legato alla forza dell’acqua si passa a quello del vapore-carbone, poi dell’elettrificazione, del petrolio e infine, quello dell’informatica. Ogni onda lunga può essere identificata con l’introduzione massiccia di una nuova fonte energetica primaria e/o di modi nuovi di distribuirla. Osserva Malm che, anche se l’innovazione tecnologica è già presente, per far sì che questa novità prenda piede è necessario che il regime precedente sia entrato in crisi, così dar dare spazio a quello successivo. [ivi, p. 19]
Questa correlazione tra cicli di accumulazione e innovazioni tecnologiche era stata notata già a suo tempo anche da Schumpeter che l’aveva declinata nella formula della distruzione creatrice del capitalismo. Questa narrazione, nella sua accezione tecnocratica, è anche alla base dei transition studies [Geels, 2002; Mazzucato, M., & Perez, C. (2023)].
Malm, invece, opera uno scarto rispetto alla versione tecnocratica seguendo l’interpretazione di scuola marxista. Innanzitutto, precisa che questi cicli non vanno intesi nel senso di una transizione per sostituzione delle fonti energetiche e delle loro infrastrutture, perché ogni innovazione costruisce sulle successive in un processo di accumulazione ed espansione continua [ivi p. 20]. In secondo luogo, sottolinea che queste fasi non dipendono solo da fattori interni alla produzione, ma corrispondono a epoche storiche, che prevedono avvenimenti esterni al sistema economico, come guerre e rivoluzioni, cambiamenti di mentalità e appunto di regimi politici, all’interno dei quali sono riscontrabili le linee di frattura di diversi conflitti di classe. Il fatto è che, se anche gli investitori hanno sviluppato nuove tecnologie, queste non verranno applicate finché per i privati i costi di investimento sembreranno troppo alti rispetto ai possibili guadagni. Le cose cambiano nel momento in cui si presenta la possibilità di abbattere alcune barriere sindacali, oppure quando gli stati decidono di investire. In quel caso si possono creare le condizioni per l’introduzione massiccia delle nuove tecnologie. [ivi, p. 22]
Non si tratta, quindi, per l’autore di fattori intrinsechi alla logica economica. Il capitale può gettare le basi per una nuova epoca di espansione solo se è riuscito a prevalere contro tutti i nemici e gli impedimenti sociali, incluso il lavoro organizzato. Questa vittoria si manifesta proprio con una rivoluzione tecnologica. L’introduzione di una nuova fonte energetica è, spesso, la chiave per avviare la fase di espansione economica del nuovo ciclo di accumulazione. [ivi, p. 25]
La nuova fonte di energia è usata, essenzialmente, per rimuovere le barriere a profitti più elevati, principalmente quelle erette dal lavoro. Essa si diffonde nel momento in cui il ciclo di accumulazione entra nella sua fase di stagnazione e il potenziale di trasformazione rimane latente finché non interviene qualche rottura storica. Il processo accelera dopo aver consolidato una nuova posizione dominante, così l’innovazione può diffondersi man mano che i profitti aumentano con un meccanismo di feedback positivo che realizza la crescita esponenziale. Infine, realizzata l’infrastruttura necessaria la stessa tecnologia tenderà ad essere utilizzata il più a lungo possibile per cavalcare la fase di rialzo dell’onda, stimolando l’accumulo su una scala più grande. [ibidem]
Ad esempio, l’introduzione massiccia del carbone-vapore avviene solo dopo il 1825 perché permette di spostare le fabbriche nelle città dove si trova abbondanza di manodopera a basso costo. La tecnologia è sviluppata e nota dalla fine del Settecento, ma è solo la crisi del cotone con la rinascita di movimenti operai che convince i proprietari ad investire in questa fonte energetica. [ivi, p. 29] L’introduzione di una energia fossile disponibile in quantità crescente e trasportabile permette ai capitalisti di svincolarsi dai legami prodotti dalla fonte energetica tradizionale, ovvero l’acqua. Questa fonte, infatti, è strettamente legata agli andamenti stagionali e al territorio in cui si riproduce e aveva dato forma anche ad una forza lavoro ben radicata e localizzata. D’altra parte, delocalizzare la produzione nelle città dove è possibile trovare abbondanza di manodopera a basso costo, fa crescere anche l’esigenza di costruire le infrastrutture che colleghino i territori dell’estrazione e del consumo.
Una dinamica simile si può riscontrare in ogni passaggio da una fase di accumulazione all’altra. In particolare, Malm si sofferma sulla quinta ondata; quella cioè che dalla rottura del patto keynesiano ha portato all’attuale regime neoliberista. In questo caso, l’innovazione tecnologica che ha permesso l’aprirsi della nuova fase, ovvero l’informatica, non ha a che fare con la produzione energetica, ma ha prodotto la maggiore accelerazione di emissioni di CO2 della storia del capitalismo. Ciò è stato possibile perché la capacità di coordinare le produzioni su scala mondiale ha permesso tra la fine degli anni ‘70 e ‘80 del Novecento di far entrare nel sistema capitalistico fossile aree del pianeta che ne erano ancora escluse (in particolare l’Asia). In questo modo, il capitale è riuscito a spezzare la forza organizzata dei lavoratori che beneficiavano del patto keynesiano e di rimandare la crisi fiscale dello stato [Arrighi, Silver, 1999, p. 273 e s.]. In questa ottica, dobbiamo aspettarci che lo sviluppo delle energie rinnovabili in ambito capitalistico potrebbe essere funzionale a superare le strettoie della crisi di accumulazione che stiamo attraversando. [Malm, 2018, p. 34]
L’introduzione di nuove fonti energetiche prevede, quindi, la costruzione di infrastrutture che, come la rete elettrica o quella informatica, presuppongono la crescita dei consumi energetici. Nello stesso tempo, la relazione tra energia e infrastrutture è il processo che istituzionalizza il passaggio al nuovo ciclo di accumulazione, in quanto mette in forma il sociale in un particolare regime socio-ecologico. La stessa origine della parola “infrastruttura”, che nel XIX secolo indicava i lavori preparatori per la costruzione delle linee ferroviarie, rimanda a quei processi di terraformazione che permettono di collegare luoghi distanti in unico sistema di relazioni [Borghi e Leonardi, 2024, p. 12]. Ricostruendo brevemente la genealogia del termine ritroviamo che i lavori di costruzione delle infrastrutture nel XIX secolo, l’epoca del regime liberal-coloniale, sono già a carico della spesa statale, mentre la “soprastruttura”, come le stazioni, sono affidate ai privati. [Carse, 2016, p. 31] Si tratta ancora della preistoria del termine, perché esso entrerà nell’uso comune in Europa nel secondo dopoguerra con la pianificazione militare della NATO che dà avvio nel 1949 al programma “Common Infrastructure”. [Carse, 2016] In quei documenti fondativi del quadro geopolitico che ancora ci riguarda, si stabilisce chiaramente il nuovo ruolo svolto dal petrolio nel garantire le risorse necessarie alla difesa europea, in particolare, all’epoca, per i consumi dell’aviazione. Anche in questo caso, la costruzione della nuova infrastruttura aveva motivazioni non strettamente economiche. Si trattava innanzitutto di implementare un programma di difesa comune rispetto alla minaccia sovietica. Ma anche di dare avvio alla fase espansiva del ciclo keynesiano che ha il suo boom proprio dal 1945 al 1973. In questo passaggio, oltre alle motivazioni geopolitiche, esistevano delle ragioni politiche e sociali di cui si è occupato Timothy Mitchell, in particolare nel suo saggio Carbon Democracy.
La tesi principale del libro è esplicitata in apertura. Secondo l’autore, le fonti fossili e in particolare il petrolio hanno creato le condizioni di possibilità e stabilito anche i limiti delle nostre carte costituzionali. [Mitchell, 2011, p. 1] Questi limiti riguardano l’esito dello scontro tra due accezioni diverse di democrazia, quella radicale che si basa sui principi dell’uguaglianza formale e sostanziale e quella che intende la democrazia come un regime politico che governa con il consenso popolare [Ivi, p. 9].
Va considerato, quindi, che gli equilibri raggiunti attraverso le lotte sui confini [Fraser, 2022, p. 23] che hanno stabilito i limiti del nostro regime democratico saranno rimessi in discussione nel momento dell’uscita dall’attuale regime socio-ecologico. Per cui, data questa interdipendenza, l’eventuale dismissione delle fonti fossili dovrà comprendere anche un ripensamento dei modelli democratici che diamo per scontato. Il che comporta il fatto che siano possibili molteplici esiti del processo, sia quello verso forme di governo autoritario che quello verso forme di maggiore o diversa democrazia. Ripercorriamo in breve gli snodi principali dell’argomentazione di Mitchell.
Per ripercorrere la storia dal punto di vista del rapporto tra infrastrutture del fossile e democrazia è fondamentale comprendere i conflitti sociali che si sviluppano negli snodi e interconnessioni che rendono possibili i regimi socio-ecologici di accumulazione del fossile. In particolare, il lavoro che si concentra nelle strettoie di questi sistemi infrastrutturali possiede una forza contrattuale enorme perché è in grado di bloccare l’intero flusso di accumulazione. [ivi, p. 19] Nel corso del XIX secolo, a mano a mano che vengono implementate le infrastrutture del carbone (miniere, ferrovie, depositi, rete elettrica) aumenta il reclutamento della forza-lavoro che amplia le occasioni di organizzazione di questi lavoratori e, quindi, ne accresce la agency sul sistema. Sul finire del secolo saranno proprio gli scioperi organizzati in questi settori e la loro capacità di bloccare il flusso di energia che convincerà le élite europee a concedere le prime forme di tutela sociale e ad allargare il coinvolgimento di queste masse attraverso il suffragio universale. Per esempio, è dopo un prolungato sciopero dei minatori del 1889 che in Germania Bismarck decide di dare avvio alle prime forme di protezione sociale [ivi, p. 22].
È in questo momento che il sabotaggio e lo sciopero generale diventano la forma principale di mobilitazione del sindacalismo rivoluzionario. Si tratta di una modalità di lotta tipicamente anarchica che diventa sempre più efficace perché le interconnessioni infrastrutturali si fanno più ampie e dense. Infatti, l’infrastruttura del carbone aveva bisogno di tantissima manodopera per renderne possibile l’estrazione, la distribuzione e l’utilizzo. È questa minaccia costante di interruzione da parte dei lavoratori che convince gli industriali ad accettare la presenza di sindacati che siano più malleabili rispetto a quelli rivoluzionari. Per cui lentamente si passa dal rifiuto totale delle organizzazioni dei lavoratori alla nascita dei sindacati aziendali. [ivi, 26]
In questo senso, il passaggio al petrolio ha a che fare con la necessità di industriali e governi di spezzare la forza contrattuale di quei lavoratori dell’infrastruttura del carbone. Per esempio, il primo oleodotto viene costruito in Pennsylvania nel 1860 per aggirare la capacità di sciopero dei camionisti incaricati del trasporto che all’epoca avveniva in botti [ivi, p. 36]. In generale, poi, l’estrazione di petrolio richiedeva minore manodopera rispetto all’energia prodotta e per di più i lavoratori rimanevano in superficie; quindi, erano più facilmente controllabili rispetto ai minatori che dovevano necessariamente scendere nelle miniere dove avevano ampi spazi di autonomia nell’organizzare il lavoro e, quindi, preparare gli scioperi. Inoltre, il trasporto su scala internazionale del petrolio era più semplice del carbone, sia con la costruzione degli oleodotti che con il trasporto via nave. Si poteva, quindi, fare ricorso a rifornimenti alternativi quando si presentavano delle azioni di sabotaggio. [ivi, p. 39]
Per questo, non è un caso che l’introduzione massiccia del petrolio in Inghilterra comincia nella marina militare poco prima dello scoppio della Prima guerra mondiale. In questo modo Churchill, che ne fu il promotore, intendeva aggirare il rischio di approvvigionamento dovuto agli scioperi di minatori e ferrovieri inglesi. Sottolinea Mitchell che l’effetto di questa scelta politica fu quello di dare una nuova forma di agency in mano alle compagnie multinazionali del petrolio con le quali lo Stato firmava un contratto i cui costi rimanevano segreto di stato. [ivi, p. 61]
D’altra parte, si è trattato di un processo lungo, tanto che ancora dopo la fine della Seconda guerra mondiale i sistemi economici dei paesi europei erano sostanzialmente basati sul carbone. Non si spiega altrimenti il primo degli accordi economici che diede vita all’Unione europea, ovvero la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) nel 1951. Questo accordo aveva lo scopo dichiarato di ridurre il potere di contrattazione dei minatori del Nord Europa facendo arrivare dall’Italia una massa di lavoratori immigrati. Una manodopera sfruttata e ricattabile contro cui cresceva l’odio razzista delle popolazioni locali (anche questa è una strategia di lungo periodo dei paesi europei). In ogni caso, è importante notare che la costruzione su larga scala degli oleodotti ad uso civile che portarono il petrolio dal Medio Oriente in Europa rientrava all’interno del quadro politico di questi accordi. Fu, infatti, nell’ambito del European Recovery Plan (ERP), ovvero il piano Marshall, che furono trovate le risorse per l’implementazione delle infrastrutture del petrolio per l’Europa. Gli USA finanziarono la costruzione di raffinerie e progettarono la costruzione degli oleodotti che portavano in Europa il petrolio estratto dalle compagne saudite che avevano una diretta partecipazione economica statunitense. Inoltre, finanziarono la costruzione di strade e fabbriche di automobile in Italia e Francia. [ivi, 29]
L’introduzione del petrolio, quindi, è stato uno degli elementi fondamentali del passaggio al regime socio-ecologico di accumulazione non tanto perché ha sostituito il carbone (di cui in realtà ha sostenuto l’aumento dei consumi [Fressoz, 2024]), ma perché ha permesso di aggirare la capacità di agency dei lavoratori del carbone fornendo delle fonti di approvvigionamento alternative. Il sistema delle infrastrutture del petrolio è, però, significativamente diverso e produce strettoie differenti affidando ad altri soggetti questa agency. Innanzitutto, la dimensione mondiale delle infrastrutture richiede un aumento degli investimenti in infrastrutture. Il sistema si articola in estrazione, trasporto, raffinazione e distribuzione al dettaglio. Le ultime due fasi sono quelle che richiedono maggiore manodopera e, quindi, sono anche quelle maggiormente sottoposte al contropotere operaio. La prima e la seconda, invece, sono quelle che permettono di determinare il prezzo e, quindi, i profitti dei soggetti che ne detengono il controllo. Uno dei motivi di conflitto internazionale diventa, quindi, il controllo dei governi dei paesi estrattori, i quali, a partire dalla nascita dell’istituto del protettorato dopo la Prima guerra mondiale [Mitchell, 2011, p. 78], sono normalmente guidati da élite strettamente collegate agli interessi delle potenze egemoni (Inghilterra, Francia, USA). Non è un caso se queste élite si trovarono d’accordo con i loro protettori nell’evitare che si sviluppasse l’industrializzazione dei propri paesi, in particolare dell’industria legata alla raffinazione del petrolio. Alcuni dei principali conflitti post-coloniali furono proprio legati alla capacità di mobilitazione dei lavoratori in questo settore in crescita, come per esempio nell’Iraq del 1948 [ivi, p. 103].
Di conseguenza, la mancata industrializzazione dei paesi estrattori e la concentrazione della ricchezza estratta dal petrolio nelle mani di élite locali, determinarono una crisi di accumulazione di capitali che non trovava investimento, in particolare dopo l’aumento dei prezzi del petrolio negli anni ‘70. Questa massa di capitale mobile depositato nelle banche europee o nei paradisi fiscali sarà una delle cause dell’esplosione della speculazione finanziaria che negli anni ‘80 aprirà la strada al neoliberismo [Arrighi, 1996, p. 328].
Una strategia utilizzata dagli USA per rientrare in possesso di parte di questi capitali e governare la situazione internazionale senza intervenire direttamente negli scenari di guerra fu quella di aumentare la vendita di armi ai governi autoritari affidati alle élite filoccidentali. Le armi come il petrolio sono una voce di spesa che può aumentare continuamente e accumularsi nei depositi in attesa di utilizzi futuri. Gli accordi con dittatori e il sostegno a situazioni di conflitto che non trovano soluzioni diventeranno dopo la crisi del 1973 una strategia costante del governo USA. [Mitchell, 2011, p 230]
Per quanto riguarda, invece, il punto di vista delle multinazionali del fossile, per tutto il XX secolo la loro preoccupazione maggiore fu quella di evitare che ci fosse un eccesso di offerta di petrolio che avrebbe potuto far crollare i prezzi e, quindi, anche i loro profitti. Infatti, fin dai primi anni della sua implementazione, il petrolio è stata una risorsa sovrabbondante. Il problema principale per le compagnie del fossile e per gli USA è sempre stato quello di governare questa risorsa imponendone la scarsità [ivi, p. 205]. Rockfeller risolse la questione già nel 1860 creando un monopolio di fatto nell’estrazione, trasporto, raffinazione e distribuzione del suo petrolio. Mantenere questo tipo di dominio su scala internazionale, però, era assai più complesso e comportava il pieno controllo di alcuni punti strategici del suo commercio, come il canale di Suez, e imporre contratti per l’estrazione e il trasporto ai paesi produttori. Il rapporto univoco tra imprese multinazionali e stato egemone (gli USA) era, dunque, fondamentale. Per questo le piccole compagnie indipendenti, come l’ENI di Mattei, rappresentavano la maggiore minaccia per questo sistema, in quanto concorrevano a liberare l’offerta [ivi, p. 163]. La domanda globale di petrolio, infatti, non dipende tanto dalla sua offerta, ma dalle trasformazioni socio-tecniche già prodotte nella sua introduzione attraverso il processo di infrastrutturazione. Non è possibile, cioè, alterare questa domanda in considerazione delle variazioni di prezzo, a meno di non causare brusche interruzioni del metabolismo sociale, come avvenuto nel caso della crisi petrolifera del 1973. Ne consegue che una riduzione dei prezzi determinerà il crollo dei profitti delle compagnie che ne gestiscono l’importazione e viceversa. [ivi, p. 176]
Anche quella crisi del 1973, argomenta Mitchell, non fu mai una vera crisi di approvvigionamento. E a ben vedere non fu scatenata dai meccanismi di mercato della domanda e dell’offerta. Essa fu la reazione a due decisioni vicine nel tempo e correlate, ma che seguivano due logiche molto diverse. Da un lato l’organizzazione dell’OPEC, i paesi produttori di petrolio, stavano contrattando da tempo un aumento della loro quota di guadagni con le compagnie multinazionali del fossile, dato che queste continuavano a incassare almeno quattro volte tanto rispetto ai paesi estrattori grazie alla raffinazione del petrolio [ivi, p. 169]. Avendo mancato l’accordo gli stati dell’OPEC decisero un aumento dei meccanismi di calcolo che avrebbe dovuto recuperare il terreno perso negli ultimi due anni. [ivi, p. 184] Il che spinse le compagnie ad aumentare il prezzo di vendita dei prodotti raffinati.
Dall’altro, i capi di stato dei paesi arabi, riuniti in Kuwait il giorno successivo a questo incontro dell’OPEC, decisero di ridurre la loro produzione di petrolio di un modesto 5% per fare pressione sugli USA affinché costringessero Israele a ritornare nei confini precedenti al 1967 (la cosiddetta guerra del Kippur). Queste due diverse decisioni non sono necessariamente implicate l’una all’altra e non avevano di per sé un carattere così dirompente da causare la crisi di approvvigionamento e l’aumento repentino dei prezzi del petrolio che si verificò, invece, nei paesi consumatori. L’embargo agli USA in particolare era una forma di sabotaggio politico messo in atto dagli stati arabi per ottenere un risultato politico in Palestina. Mentre il mancato accordo tra OPEC e multinazionali del fossile aveva una sua logica nel governo monopolistico della risorsa. Pertanto, in entrambi i casi non si trattava di una dinamica di mercato e la risposta successiva (l’aumento vertiginoso dei prezzi e il razionamento alle pompe di benzina) sono da considerarsi il frutto di una serie di scelte coerenti delle compagnie del fossile e degli USA per piegare la situazione internazionale a loro vantaggio data la crisi di egemonia che gli USA stavano vivendo in quel delicato momento [ivi, p. 185]. All’opinione pubblica fu offerta invece, la spiegazione della crisi di mercato dovute alle leggi ferree dell’offerta e della domanda. L’evento fondatore del senso comune neoliberista fu proprio questa spiegazione fuorviante di quanto era successo [ibidem].
Per quanto riguarda, invece, le fasi della raffinazione, la capacità di sabotaggio dei lavoratori rimane un aspetto centrale della loro agency. Una ricerca del 1958 di Mallet nella raffineria di Bec d’Auber in Francia mostra la nascita di una nuova classe lavoratrice più simile al manager, perché incaricata di supervisionare i processi industriali della chimica. La capacità di controllo del processo permette, però, anche una diversa possibilità di agency legata alla disorganizzazione di questi processi produttivi che negli anni successivi i lavoratori utilizzeranno nelle loro lotte sindacali e contro la nocività [ivi, p. 153]. Va notato, però, che allora come oggi queste lavorazioni erano per lo più collocate nei paesi consumatori del centro e i loro lavoratori appartenevano già al patto keynesiano, con il suo corollario di tutele sindacali.
La struttura di fondo dell’infrastruttura del fossile, quindi, secondo Mitchell comporta l’afflusso di una risorsa energetica sovrabbondante e fluida, che può apparire come immateriale perché può essere trasportata con scarso apporto di manodopera. Gli stati del centro capitalistico, gli USA e l’Europa, che ne guidano il consumo detengono sul loro territorio il controllo della raffinazione. Il sistema deve rimanere in mano ad un cartello di compagnie che agisce su di una base monopolistica perché ne garantiscono la scarsità relativa controllando di fatto tutte le fasi dall’estrazione al consumo. Questo afflusso continuo di energia a basso costo determina la possibilità di aumentare la produttività del sistema garantendo l’approvvigionamento militare, la crescita dei profitti e il consenso delle popolazioni (siamo in contesto di guerra fredda). Nei paesi estrattori questo sistema monopolistico è tenuto sotto controllo da una élite legata ad un governo di tipo neocoloniale. Mentre nel centro le richieste di maggiore democratizzazione sono tenute sotto controllo attraverso alcune concessioni alla protezione sociale. Nello stesso tempo, però, i margini di questa democratizzazione sono stati ristretti e tenuti a bada attraverso l’intervento militare e di sicurezza.
“Quando l’Europa è passata dal carbone al petrolio, i precedenti successi dei suoi minatori e ferrovieri si sono rivelati molto più difficili da replicare per i lavoratori petroliferi di Dhahran, Abadan e Kirkuk, o ai terminali del gasdotto e alle raffinerie sulle coste della Palestina e del Libano. Come abbiamo visto, il petrolio si muoveva per oleodotti piuttosto che per ferrovia, era abbastanza leggero da trasportare attraverso gli oceani, seguiva reti più flessibili e creava una grande separazione tra i luoghi in cui veniva prodotta l’energia e quelli in cui veniva utilizzata. Le richieste dei lavoratori petroliferi per i diritti del lavoro e le libertà politiche vengono trasformate in programmi di nazionalizzazione, mentre i cartelli della produzione limitano l’offerta in modo che i pozzi di petrolio per la maggior parte del XX secolo vengono trasformati in una “risorsa strategica” vulnerabile che aveva bisogno di eserciti imperiali e stati vassalli per proteggerla. Queste e molte altre caratteristiche socio-tecniche dell’industria petrolifera hanno reso sempre più difficile costruire meccanismi di politica più democratica dalla produzione di petrolio.” [ivi, p. 237]
Nel momento in cui questo equilibrio entra in crisi nel 1973 l’introduzione di due dispositivi discorsivi permette di governare “l’eccesso di democrazia” del sistema. [ivi, p. 194] Da una parte le spiegazioni legate alle leggi di mercato e dall’altra quelle ambientali legate ai “limiti dello sviluppo”. Entrambe le spiegazioni trovano appiglio nella crisi petrolifera e fanno ancora parte del discorso sulla transizione energetica.
Il concetto stesso di crisi energetica nasce, infatti, in quel momento. La spiegazione viene fatta risalire alle leggi di mercato. Si suppone che l’aumento dei prezzi dopo la crisi del 1973 sia dovuto da un lato all’eccesso della domanda che cresce al di sopra dei limiti del pianeta e dall’altro all’esaurirsi dell’offerta. Fioriscono in questo momento le teorie sulla previsione del picco del petrolio. Nascono nuove agenzie che devono prevedere il futuro: negli USA nasce l’Energy Information Administration, l’OCSE dà vita all’International Energy Agency (IEA), nasce il mercato dei future del petrolio [ivi, p. 197].
D’altra parte, l’idea dei limiti della crescita e le crescenti richieste di protezione ambientale permettono di giustificare l’aumento dei prezzi della materia prima con l’illusione di ridurre il consumo rendendolo meno conveniente. In realtà, il volume della domanda non dipende dalle regole del mercato, ma dal processo di infrastrutturazione sociale, per cui la domanda non può diminuire spontaneamente. Quindi, a patto di non limitare davvero la produzione e il consumo del petrolio attraverso processi di ristrutturazione collettiva, questi dispositivi discorsivi producono proprio l’effetto voluto dalle compagnie del fossile: mantenere alti allo stesso tempo i prezzi e i consumi di petrolio [ivi, p. 189]. Non deve stupire, quindi, se in seguito all’enorme crescita dei profitti di queste aziende esse cominciarono a finanziare i think tank negazionisti della crisi climatica [ivi, p. 197]. Alcuni di questi, come l’Heritage Foundation sono oggi tra i principali sostenitori del presidente Trump e ne guidano le scelte politiche.
Ripensare, quindi, la transizione energetica nel contesto dei regimi socio-ecologici di accumulazione implica ripensare le questioni del governo democratico dell’energia e quella dei rapporti post-coloniali, nonché la collocazione italiana nello scenario internazionale.
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