Monti e gli investimenti pubblici
Si riporta questo intervento ufficiale di Mario Monti all’ultimo ECOFIN per evidenziare l’importante svolta retorica e programmatica dell’ex presidente del consiglio sul tema degli investimenti pubblici, naturalmente a fini tutto meno che sociali o sovranisti, ma tattici, laddove la strategia rimane la solita: garantire la sopravvivenza dell’Unione Europea a trazione economica liberista, in una fase in cui il rigore tedesco rischia seriamente di metterla a repentaglio.
* Monti è stato invitato dalla Presidenza ECOFIN a titolo personale quale ex presidente del Consiglio ed ex ministro dell’Economia e delle Finanze
di MARIO MONTI
Un impegno condiviso per sostenere l’integrazione e la crescita nella UE
Crescita insufficiente; rischi per la sicurezza interna ed esterna; sfiducia dei cittadini nelle istituzioni nazionali ed europee; Stati membri in aperta contrapposizione tra loro; primi segni di una possibile disgregazione della Ue. Di fronte a queste difficoltà, è necessario modificare l’impostazione delle politiche economiche condotte a livello comunitario. Malgrado i rafforzamenti introdotti negli anni della crisi finanziaria, l’adeguamento che a mio parere oggi si impone non potrà ottenersi con piccoli miglioramenti al margine, ma non richiede neppure una “rivoluzione”.
Occorre invece rivisitare alcune fondamenta dell’impostazione attuale, identificare con chiarezza i punti che sono alla base delle divergenze sempre più evidenti tra le visioni, le culture politiche dei nostri paesi.
L’ « ambiguità costruttiva » , sempre più spesso utilizzata da voi, ministri dell’Ecofin, e dai capi di governo nei Consigli europei e nei Vertici dell’Eurozona per dare l’impressione di accordi raggiunti, non basta più. Se manca un minimo di visione realmente condivisa, i compromessi ai quali arrivate con tanta fatica non sono più credibili, né per i cittadini né per i mercati. Le vostre narrative diverse, a volte inconciliabili, tolgono valore, lo dico con rispetto, a quanto volete far credere di avere deciso insieme. Al punto in cui siamo arrivati, l’ambiguità può diventare distruttiva.
So per esperienza che le discussioni tra voi sono spesso di alto livello tecnico. Ma è raro, credo, che vi chiediate quali divergenze di cultura politica creino certe contrapposizioni; se nella realtà di oggi abbiano ancora senso; e se non vi siano soluzioni che potrebbero avvantaggiare entrambe le parti contrapposte, oltre che l’economia europea, senza creare vincitori e vinti ma senza ricorrere a compromessi di facciata. È soprattutto in questo senso, a mio giudizio, che la Commissione dovrebbe intendere la propria vocazione a essere una “Commissione politica”. Sarebbe invece preoccupante se la natura più “politica”, che vari governi nazionali rivendicano di avere impresso alla Commissione al momento della nomina, si riducesse nelle loro attese a una maggiore “comprensione” delle esigenze politiche dei vari governi quando si tratta di far osservare le regole.
Lo sforzo che andrebbe fatto per capire meglio, e cercare di superare, le divergenze tra Stati membri riguarda in particolare tre pilastri delle politiche economiche, oggetto di forti tensioni: il mercato unico, il patto di stabilità, il bilancio Ue. I tre temi riguardano tutti l’intera Ue a 28 (27 dopo Brexit), anche se il persistere delle tensioni può comportare conseguenze particolarmente gravi nell’Eurozona.
Mercato unico: tensione tra integrazione di mercato e suo rigetto per motivi sociali e nazionali
L’Ue vuole essere, come dice il Trattato di Lisbona, «un’economia sociale di mercato». Ma alcuni Paesi, ad esempio il Regno Unito, hanno una sensibilità più “di mercato”; altri, come la Francia e per certi aspetti la Germania, una sensibilità più “sociale”. Negli ultimi anni, in molte parti del mondo ci sono state reazioni a una globalizzazione molto più attenta alle esigenze del mercato che alle preoccupazioni sociali o legate alle identità nazionali. L’apertura economica segna il passo o arretra, il protezionismo e il nazionalismo avanzano. Ciò avviene anche in Europa, dove tuttavia un mercato unico pienamente realizzato sarebbe essenziale per una crescita più dinamica.
Perché il mercato unico si completi, come nei servizi e nel digitale, vanno allora superate forti resistenze di quanti non a torto vedono in una Ue integrata nei mercati ma non nelle politiche sociali un fattore che accresce le diseguaglianze. Un modo per evitare ciò è avere un maggiore coordinamento delle fiscalità nazionali. Tra gli oppositori di tale coordinamento si è sempre distinto il Regno Unito, Paese che peraltro ha dovuto constatare che una buona parte del voto pro Brexit ha avuto origine nelle diseguaglianze, attribuite all’appartenenza alla UE. Ciò dimostra che, come avvertivo in una relazione del 2010 alla Commissione, i “falchi” di un mercato scevro di sociale alla fine avrebbero portato al rigetto, non al successo, del mercato unico.
Forse, quando il Regno Unito (purtroppo, sotto tanti altri profili) avrà lasciato la Ue, il coordinamento fiscale risulterà un po’ meno difficile e il mercato unico sarà più accettato. A questo riguardo mi permetto di mettervi in guardia, come ministri delle Finanze, che l’ipotesi talora avanzata di una continuazione della partecipazione britannica al merca- to unico pur dal di fuori della Ue, se non fosse sottoposta a condizioni simili a quelle che ha la Norvegia, determinerebbe conseguenze nocive e insostenibili per il mercato unico e per la concorrenza.
Patto di stabilità: duplice tensione, geografica (Nord/Sud) e culturale (Anglosassoni, Keynes/Germanici, Hayek).
Bilanci pubblici che presentino, una volta corretti per il ciclo, un disavanzo non superiore agli investimenti pubblici (“veri”, certificati magari proprio dalla Ue) non sono pericolosi né per il paese che li effettua né per gli altri Stati membri. La Germania ha torto a opporsi a un principio economico che ha avuto nella sua Costituzione fino a pochi anni fa e che le ha permesso di realizzare il grande miracolo economico post-bellico.
Ha però ragione la Germania, e con essa altri Paesi dell’Europa centro-settentrionale, a non amare il ricorso sempre più frequente alla “flessibilità” nell’applicazione del patto di stabilità, anche se recentemente sembra un po’ rassegnata.
A mio parere, l’Europa ha bisogno di una forte espansione di investimenti seri (privati, misti e anche pubblici). Proprio nella logica della sussidiarietà cara ai tedeschi, tale espansione non può essere affidata solo a uno strumento centrale, pur molto importante, come il Piano Juncker. Occorre allora che, nelle regole per presidiare la buona gestione dei bilanci nazionali – nell’interesse di un’Europa senza tensioni finanziarie ma con una crescita maggiore di oggi, senza la quale la stessa Ue potrebbe non sopravvivere – si lascino entrare dalla porta i buoni investimenti, anziché lasciarne entrare un po’ dalla finestra della “flessibilità”, che peraltro lascia passare anche eccessi di disavanzo nocivi perché causati non da investimenti, ma spesso da trasferimenti che hanno scopi a volte marcatamente politici.
Dunque, si introduca una regola più convincente, quella sugli investimenti, e in pari tempo si riduca a zero o a poco la “flessibilità” ammissibile. L’unico aumento di spesa pubblica che deve piacere sia a un francese keynesiano (perché stimola la domanda), sia a un tedesco hayekiano (perché espande la capacità produttiva ed è perciò una politica dell’offerta e osserva il principio etico del rispetto delle generazioni future) è quello che consiste in veri investimenti pubblici produttivi. (In un documento di Marcel Fratzscher, Enrico Giovannini, Sylvie Goulard e del sottoscritto, scritto per il Council on the Future of Europe, il tema è approfondito, anche negli aspetti operativi). La regola, più rispettabile, sarà anche più rispettata.
Bilancio Ue: tensione tra “contribuenti netti” e “beneficiari netti”
Un’altra tensione che avvelena la vita europea scaturisce da un bilancio comunitario obsoleto nella struttura della spesa, non trasparente, non democratico e regressivo nelle modalità di finanziamento.
Con i profughi, gli immigrati, il terrorismo, le esigenze di lavorare per una sicurezza interna ed esterna, gli Stati membri ultimamente hanno invocato dal livello Ue che si provveda a fornire “beni pubblici europei”, che gli Stati non sono in grado di assicurare da soli ai loro cittadini.
È necessario che la Ue si metta in grado di fornire questi beni pubblici europei e che a queste nuove funzioni corrispondano nuove risorse, mentre una buona parte della spesa attuale potrebbe essere risparmiata con la soppressione di certi programmi o con la devoluzione di certe attività al livello nazionale.
Il Gruppo che voi, cioè i governi nazionali riuniti nel Consiglio, il Parlamento europeo e la Commissione avete istituito per fare proposte sulla riforma del bilancio Ue, affidandomene la presidenza, presenterà in dicembre il rapporto finale. Perciò non mi dilungo qui.
Faccio solo presente che anche in questo campo l’uscita del Regno Unito avrà effetti rilevanti. Dovrebbe venire meno un afflusso netto di risorse. Potrebbe d’altra parte semplificarsi un aspetto che è diventato sempre più intrattabile: senza Regno Unito, non ci sarà lo “sconto Regno Unito” («I want my money back», disse Margaret Thatcher nel 1984) e dovrebbero in conseguenza scomparire gli “sconti” che altri Stati hanno ottenuto nel tempo per mitigare gli effetti dello “sconto” al Regno Unito sui loro contributi.
fonte: https://www.facebook.com/MarioMonti.ufficiale/posts/1031375260310047
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