Cresce la tensione tra Stati Uniti e Cina, accusata ancora una volta di spiare le aziende tecnologiche statunitensi con l’obiettivo di sottrarre prezioso know how. Dopo il ban da alcune gare pubbliche, le dirette accuse della Casa Bianca a Pechino in tema di interferenze e l’inchiesta di Reuters sui chip spia cinesi, questa volta è una innovativa startup della Silicon Valley, Cnex Labs – supportata da Microsoft e Dell – a puntare l’indice contro il gigante delle telecomunicazioni cinese Huawei.
ACCUSE RECIPROCHE
Cnex Labs – società specializzata in semiconduttori – e il suo co-fondatore Yiren “Ronnie” Huang, racconta il Wall Street Journal, hanno presenziato questa settimana presso la corte federale del Texas sostenendo che Huawei e la sua unità “Futurewei” avrebbero cercato (e starebbero ancora cercando) di rubare alcune sue tecnologie. Un avvocato del colosso cinese ha negato le accuse, rimarcando il fatto che queste arrivano dopo che un anno fa la stessa Huawei aveva accusato Cnex di aver compiuto l’illecito attraverso uno degli ex dipendenti della compagnia della Repubblica Popolare passato poi a Cnex.
LA FIGURA DI HUANG
Il riferimento è a Huang, cittadino statunitense nato in Cina, che è al centro delle accuse delle rispettive compagnie. Dopo aver frequentato le università di Shanghai e Michigan, il signor Huang ha lavorato nella Silicon Valley per quasi 30 anni. Nel 2011 Futurewei aveva ingaggiato il signor Huang per lavorare negli uffici di Santa Clara grazie alla sua esperienza nell’industria dei semiconduttori. Dopo aver lasciato Futurewei, Huang ha co-fondato Cnex.
L’OGGETTO DEL CONTENDERE
L’oggetto della disputa è la proprietà intellettuale sulla tecnologia di storage Ssd (dispute-solid-state drive), la quale consente a enormi data center di gestire il volume sempre crescente di informazioni generate dall’intelligenza artificiale e da altre applicazioni avanzate.
UNA QUESTIONE POLITICA
Gli attriti tra Washingon e Pechino sono ormai all’ordine del giorno. Nell’ultimo mese, un’inchiesta di Bloomberg ha rivelato l’esistenza di microchip “Made in China” all’interno dei server di alcuni dei principali colossi tecnologici americani. Nonostante le smentite e le dispute ancora aperte, il comitato per gli investimenti esteri negli Stati Uniti, il Cfius (ma anche numerose altre realtà americane), hanno mostrato crescenti preoccupazioni per la sicurezza nazionale legate alle aziende cinesi. Dopo che il Pentagono ha vietato qualsiasi prodotto Huawei all’interno delle basi militari, due senatori hanno, proprio in questi giorni, inviato una lettera al primo ministro canadese Justin Trudeau chiedendogli di non lasciare che la rete 5G venga sviluppata da Huawei. Gli Stati Uniti stanno utilizzando il Comitato stesso per esercitare un costante aggiornamento delle leggi sul controllo delle esportazioni, al fine di proteggere le tecnologie critiche dall’acquisizione da parte della Cina.
LE MOSSE DI TRUMP
Questa notizia giunge dunque in un clima teso e di grande sospetto americano nei confronti di Pechino, soprattutto sul versante tecnologico, ritenuto strategico da entrambe le nazioni. L’amministrazione Trump ha inserito hardware per computer e reti, incluse schede madri, al centro del suo ultimo ciclo di sanzioni commerciali contro la Cina, con l’obiettivo di spingere le aziende a spostare le catene di approvvigionamento in altri Paesi ritenuti più sicuri. Mentre pochi giorni fa si era scagliato contro le presunte ingerenze della Repubblica Popolare per mettere in difficoltà l’attuale amministrazione Usa – ritenuta ostile – alle vicine elezioni di midterm a novembre.
I PRECEDENTI
Dal suo insediamento, il presidente americano Donald Trump ha bloccato il tentativo di Broadcom – produttore di microprocessori con sede a Singapore – di comprare la rivale americana Qualcomm in un’operazione da 142 miliardi di dollari. Nonostante Broadcom sia basata a Singapore (e avesse, tra l’altro, intenzione di spostare il suo domicilio negli Stati Uniti anche per far piacere a Trump), Washington temeva che con l’operazione Pechino avrebbe raggiunto la supremazia nel campo dei semiconduttori e nello sviluppo delle tecnologie per la prossima generazione delle reti mobile (5G). Un simile genere di timori aveva spinto al recente stop dell’acquisizione di MoneyGram per mano di Alibaba e dell’accordo tra AT&T e Huawei, per citare altri casi.
LO SCENARIO
Ma la contesa non è solo economico-commerciale. Più in generale l’attivismo di Pechino nel cyber spazio – forse più che quello di Mosca – viene osservato con grande attenzione da Washington, che considera la Cina un forte competitor – anche di sicurezza – in campo tecnologico, come dimostrano le tensioni con i colossi Huawei e Zte ma anche le crescenti preoccupazioni sullo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Nelle circa trenta pagine del nuovo “Worldwide Threat Assessment of the US Intelligence Community”, documento di analisi strategica presentato a febbraio dinanzi al Comitato Intelligence del Senato da Dan Coats, direttore della National Intelligence (che racchiude 17 agenzie e organizzazioni del governo federale), si evince la preoccupazione per i piani di Pechino e di altri Paesi (compresa la Russia), che – a differenza di singoli gruppi – possono contare su organizzazione e ingenti risorse, utili a mettere in atto strategie diverse sempre più aggressive.
La Repubblica Popolare, secondo lo studio, continuerà ad utilizzare lo spionaggio informatico e a rafforzare le sue capacità di condurre attacchi cyber a sostegno delle priorità di sicurezza nazionale (anche se in misura minore rispetto a quanto avveniva prima degli accordi bilaterali siglati nel 2015). La maggior parte delle operazioni cibernetiche cinesi scoperte contro l’industria del Stati Uniti, si sottolinea, si concentrano su aziende della difesa, di It e comunicazione.
Non è un caso che l’argomento sia anche oggetto di uno specifico report annuale del Pentagono al Congresso, che si concentra sui progressi e i pericoli delle operazioni informatiche di Pechino in ambito militare.
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