Non è colpa mia se la musica di “ieri” è molto meglio di quella di oggi
Contro il nuovismo a tutti i costi.
di ANDREA SCANZI
I social network hanno creato, tra le altre e non sempre negative cose, disastri inauditi. Uno di questi è che ti tocca leggere commenti di persone con cui non hai niente in comune. Tra queste persone ci sono coloro che, se lodi i Rolling Stones o i Pink Floyd, replicano queruli: “Che palle questa musica vecchia, perché non parli di artisti nuovi?”. A tale domanda, di per sé involontariamente idiota, si potrebbe rispondere nella maniera più facile: “Perché parlo di quello che mi pare”. Lapalissiano. Facciamo però finta, adesso, di essere persone educate e timorate di Facebook. Prendiamo in esame la critica nascosta tra le pieghe di tali post piccati: “Parlare sempre della musica di ieri vuol dire implicitamente negare che oggi ci sia musica di qualità”. E’ vero? Sì e no. No, perché ci sono artisti – più o meno nuovi – molto bravi. E magari non li conoscete. Qualche nome: Il Pan del Diavolo, Sergio Marazzi, Luigi Mariano, Filippo Graziani, Alberto Bertoli. Eccetera (sì, eccetera). Dire che il cantautorato è morto, o che nulla c’è più da ascoltare, è una gran sciocchezza. Al tempo stesso, pensate all’ultimo gruppo che secondo voi resterà nella memoria. Non stiamo qui alludendo a chi ha appena indovinato un buon disco: alludiamo a chi durerà davvero nel tempo. I nomi, fatalmente, si assottiglieranno: Radiohead, Wilco, Sigur Ros. Tutta gente nuova, ma non nuovissima. Certo, potreste qui sparare Eddie Vedder, che anche solo per il duetto con Roger Waters in Comfortably Numb o per la colonna sonora di Into The Wild, meriterebbe dodici Nobel, ma mica parliamo di uno nuovo: Vedder e i Pearl Jam c’erano già quando per Kurt Cobain citare Neil Young non era l’anticamera del suicidio ma un approccio artistico. Vale lo stesso in Italia. Nulla di personale contro Motta, ma negli anni Settanta se ne sarebbero probabilmente accorti in pochi. Invece adesso si grida al miracolo, perché lo dice il Club Tenco e forse perché non pare esserci nulla di meglio. Idem per Calcutta, col rischio che tra pochi anni di loro non resterà poi molto più di quel che è rimasto di Vasco Brondi (bravo, ma oggi lo ascoltate ancora?). C’è, in giro e nella critica di settore, un gran bisogno di fare le nozze coi fichi (e coi talenti) secchi. Non è passatismo: è la mera realtà dei fatti. Diceva Goethe: “La vita è troppo breve per bere vini mediocri”. Nulla di più vero, e vale anche per la musica. Come pure per la letteratura. Non si capisce perché io debba perdere tempo a farmi piacere per forza un cantante “giovane”, se posso godere come un riccio con Darkness On The Edge Of Town di Springsteen, Alchemy dei Dire Straits, Graceland di Paul Simon o Sodi Peter Gabriel. Si è qui volutamente citato opere tra Settanta e Ottanta, perché se avessimo preso l’interregno tra Sessanta e Settanta sarebbe stato troppo facile: basta la tetralogia dei Led Zeppelin, o uno Sticky Fingers degli Stones, per uccidere qualsiasi teorico paragone col presente. C’è più talento in una nota qualsiasi di Obscured By Clouds, disco “minore” per antonomasia dei Pink Floyd, che in tutta la discografia di qualsiasi artista di oggi. Ci sono contemporaneità che alimentano talenti e altri no, così come ci sono tempi in cui Pelè ha una “elle” sola e altri che ne hanno due. Per questo e per mille altri motivi, se a fine 2016 un assolo di Jimi Hendrix, Duane Allman, Eric Clapton, Jeff Beck, Ry Cooder o Stevie Ray Vaughan ci emoziona più di qualsiasi gorgheggio odierno, non rompete troppo le scatole: ognuno ha la contemporaneità che si merita, ma nella musica – per fortuna – le fughe all’indietro sono consentite. Più ancora: caldamente consigliate.
fonte: http://www.andreascanzi.it/?p=4516
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