Solo gli italiani possono salvare l’Italia. Il “decennio lungo” e la riconquista della sovranità
di GIANLUCA BALDINI (FSI Pescara)
“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.”
(Tancredi Falconeri, “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, 1958)
Il “decennio lungo” che viviamo, il cui inizio possiamo far coincidere con le dimissioni rassegnate dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi il 12 novembre del 2011 e che si snoda in una successione di Governi tecnici e pseudopolitici (Monti-Letta-Renzi) che intervengono – senza legittimazione elettorale – sugli organi vitali della democrazia, si caratterizza per l’ossessione riformista delle istituzioni europee, espressa attraverso le raccomandazioni del Consiglio dell’UE sui Programmi nazionali di Riforma (PNR), che traducono in interventi operativi a livello nazionale gli obiettivi della strategia Europa 2020.
Questo assillo riformista, che persegue l’obiettivo di armonizzare le discipline nazionali facendole convergere a un corpus indefinito di norme-monstre in linea con i principi fondativi dell’Unione Europea (concorrenza e libero mercato, stabilità monetaria), ha prodotto l’effetto desiderato di mettere in crisi gli assetti democratici dei paesi più restii a stravolgere gli equilibri esistenti, generando un’ondata di movimenti politici di resistenza e la tendenza ormai diffusa in ogni paese a creare “grosse koalition” di scopo, il cui compito diventa quello di fare il lavoro sporco in tempi rapidi.
Numerosi osservatori economici hanno sottolineato che l’entità della crisi che stiamo affrontando non ha precedenti, avendo già sorpassato, in termini di persistenza e di “magnitudo”, il crollo di Wall Street del 1929. Le politiche di austerità allora imposte dagli Stati generarono un aggravamento della crisi che produsse un esercito di disoccupati e disperati. In pochi anni questi avrebbero imbracciato le armi per combattere il conflitto mondiale più sanguinoso della storia. Se è vero che la storia è maestra di vita, l’insegnamento che dovremmo trarre dal passato è che le politiche di austerità e di compressione salariale attuate nel bel mezzo di una crisi economica generano mostri che possono sfuggire al controllo della storia.
In questo contesto di “riformite” si inserisce il referendum confermativo sulle modifiche costituzionali promosse da Matteo Renzi. Nella narrazione governativa la riforma costituzionale era “un treno che non passerà più”, “l’ultimo appuntamento col futuro”, per un paese che non era riuscito a fare neanche un passo avanti per cambiare lo status quo e che, con un Parlamento più leggero ed efficiente, avrebbe finalmente messo il turbo alle riforme strutturali chieste dalle istituzioni europee per renderci moderni e competitivi.
E’ opportuno, al fine di rendere giustizia alla verità, ripercorrere le tappe che hanno portato alla “Caporetto” referendaria, con le annunciate dimissioni di Renzi, per disvelare la realtà dalle mistificazioni di coloro i quali hanno parlato di necessità di “cambiamento”, motivando questa presunta impellenza con l’argomentazione fasulla che l’Italia sarebbe ferma al palo e che questo immobilismo sarebbe la causa del perdurare della crisi.
Questo articolo si prefigge l’obiettivo di evidenziare che l’aggravarsi della crisi non è conseguenza della inattività istituzionale, ma che, al contrario, in questi anni abbiamo stravolto l’identità del nostro paese in ogni espressione dell’ordinamento istituzionale, economico e sociale, con una solerzia nell’esecuzione degli ordini imposti dal Moloch UE che ci è stata, tra l’altro, riconosciuta dalla Commissione Europea nel Country Report 2016. La crisi infinita che stiamo vivendo è dunque una conseguenza dell’adozione di queste riforme, che aggravano le già precarie condizioni di salute dell’economia, producendo maggiore disoccupazione nella forma (invisibile alle statistiche) della sottoccupazione e condannando milioni di persone a un lento e progressivo impoverimento e all’esclusione sociale, come certificato dall’ultimo rapporto ISTAT su “Condizioni di vita e reddito 2015”. In Italia dunque cambia tutto perché tutto rimanga come è.
A tal fine è utile ricordare che dal 2011 ad oggi, per ottemperare alle raccomandazioni dell’UE chiamate “riforme strutturali”, le genuflessioni dei nostri governi ai piedi dell’altare della finanza hanno prodotto:
1. una riforma del sistema previdenziale che ha condannato le generazioni future al ricorso all’accantonamento pensionistico privato (per quei pochi che se lo potranno permettere) per scongiurare una vecchiaia in povertà. I trentenni andranno in quiescenza a 75 anni percependo di fatto una pensione sociale, come annunciato dal presidente dell’INPS Tito Boeri. Agli ultrasessantenni, che dovranno lavorare ancora due o tre anni quando dovrebbero essere in pensione da cinque, invece, viene proposto di anticipare il saldo dei contributi restituendolo in 240 rate con l’accensione di un mutuo ventennale. Chapeau! Va riconosciuto tuttavia il merito di aver scartato l’ipotesi di soppressione degli over 65 inserendoli tra le specie infestanti nel calendario venatorio. Un effetto “apparentemente collaterale” di questo provvedimento è stato il mantenimento del tasso di disoccupazione al 12%, sui livelli anti-inflazionistici previsti dall’UE (“The 2015 Ageing Report – Economic and budgetary projections for the 28 EU Member States 2013-2060”).
2. La traslazione della tassazione dai redditi ai consumi, in evidente contrasto con il principio costituzionale della progressività dell’imposizione fiscale, in ossequio al quale chi dispone di maggiori risorse contribuisce in maniera più che proporzionale alla raccolta dei tributi. Questa scelta ha prodotto anche l’effetto “apparentemente collaterale” di contrarre i consumi contribuendo ad amplificare la crisi di domanda. Come noto, in realtà la contrazione dei consumi costituisce l’effetto desiderato, funzionale a mitigare il deficit delle partite correnti attraverso la distruzione della domanda interna. Anche questa misura, al pari della riforma della previdenza pubblica, produce l’effetto di scaricare il costo della crisi sulle fasce più deboli: essendo l’IVA un’imposta uguale per tutti è ragionevole considerarla una sorta di “flat tax”. Questo provvedimento produce quello che in finanza viene definito “reverse Robin Hood effect”: l’azione del Governo, che “ruba ai poveri per dare ai ricchi”, si concretizza in un meccanismo redistribuivo inverso.
3. La costituzionalizzazione del principio del “pareggio di bilancio” in attuazione del “Fiscal Compact”, con la quale si è resa de facto inattuabile tutta la prima parte della carta costituzionale, quella che piace a tutti, ma di cui non parla nessuno. La legge costituzionale 1/2012 è stata licenziata in tempi record con passaggi plebiscitari in entrambi i rami del Parlamento e quindi scavalcando il rebus del referendum confermativo. Con questo principio lo Stato italiano diventa un’azienda che deve fare utile e agli enti locali tocca lo sgradevole compito di esattori. E’ il primo vero enorme passo verso la retrocessione dello Stato nella vita economica del paese. Il primo enorme passo verso la privatizzazione di tutti i servizi pubblici essenziali. E’ questo l’effetto “apparentemente collaterale” della riforma, che comunque ad oggi resta una peculiarità tutta italiana. Infatti nessun altro paese aderente all’UE ha elevato tale disposizione al rango di principio costituzionale.
4. Una riforma del lavoro che ha portato indietro di un secolo le garanzie dei lavoratori, decretando per legge la fine del diritto del lavoro. Le “tutele crescenti” sono l’escamotage per definire stabile un lavorare precario ed esibire dati statistici sull’occupazione falsati dall’uso creativo della locuzione “tempo indeterminato”. La modifica dell’art. 18 dello Statuto del lavoratori è un ossequio ai potentati economici che facilita il compito alle multinazionali che adottano politiche di crescita esterna predatoria (fusioni e acquisizioni finalizzate a fagocitare la concorrenza) il cui epilogo è sempre il medesimo: “ristrutturazioni”, ovvero licenziamenti in massa e delocalizzazioni. La locuzione “mercato del lavoro”, entrata ormai nel dire comune, sottintende l’ideologia liberista insita nel riformismo europeo, che tratta le persone come fossero merce, meri fattori produttivi che devono circolare rapidamente e senza vincoli (dunque in primis senza tutele riguardo la stabilità del lavoro, che deve essere “liquido”), perché questo vuole il capitale. Il lavoro “usa e getta” dei voucher è diventato una scelta preferenziale (nel 2016 si supereranno abbondantemente i 140 milioni di buoni-lavoro) e l’ISTAT si impegna a infiocchettare la narrazione entusiastica del Governo sui risultati ottenuti con questa misura di “flessibilizzazione” dichiarando occupato qualunque soggetto percepisca un voucher alla settimana. L’effetto “apparentemente collaterale” di compressione salariale ha compromesso oltremodo la qualità del lavoro, poiché la miscela esplosiva costituita da elevata disoccupazione, contratti sempre più precari e ingresso nel mercato di una quantità incontrollata di soggetti disposti a lavorare per redditi decrescenti (ricordiamo che l’offerta di lavoro è perfettamente anelastica) è foriera di moderne forme di schiavitù, che il legislatore ha “responsabilmente” deciso di istituzionalizzare.
5. Una riforma del sistema scolastico che ha fornito un contributo determinante al processo di dissoluzione dell’istruzione pubblica in un paese che non molti anni fa assurgeva a “best practise” da imitare dai paesi più avanzati. Nella “Buona scuola” l’autonomia scolastica si è realizzata imitando i modelli aziendalistici, promuovendo l’ingresso del capitale privato e assegnando pieni poteri ai presidi-manager che hanno, tra le altre prerogative, la facoltà di scegliere per chiamata diretta i collaboratori più “graditi”, generando distorsioni clientelari e incentivando la selezione tramite raccomandazione, meccanismi che certamente non hanno giovato alla qualità dell’insegnamento. L’obbligo dell’alternanza scuola-lavoro esteso ai licei si è rivelato un fallimento e l’accordo siglato tra il MIUR e la catena di fast food McDonanld ha mostrato a tutti il vero volto di un sistema distorto e malato.
6. La nuova normativa sul salvataggio bancario, in attuazione della direttiva europea n. 2014/59/EU BRRD (“Bank Recovery and Resolution Directive”), per mezzo della quale i costi di salvataggio degli istituti di credito che attraversano crisi finanziarie si scaricheranno su azionisti, possessori di titoli subordinati, obbligazionisti e correntisti. Questa nuova disciplina sulla gestione delle crisi bancarie, che prevede l’internalizzazione delle perdite (il cosiddetto “bail-in”) costituisce l’ennesimo tassello di un mosaico di norme che annullano lo Stato, in questa fattispecie anche nella sua funzione di tutore del risparmio, facendo pagare alle famiglie e alle imprese le perdite generate dalla mala gestio dei manager, allegra nella migliore delle ipotesi e criminale nella peggiore.
Questi provvedimenti legislativi, adottati sotto la spinta propulsiva delle istituzioni europee, hanno modificato profondamente l’identità del paese, determinando un arretramento dello Stato in favore del capitale. La logica conseguenza di queste scelte è la creazione di nuovi spazi di intervento privato nei settori della previdenza sociale, dell’assistenza, dell’istruzione e dei servizi pubblici erogati dagli enti territoriali, incapaci di gestirli in economia per via della progressiva riduzione dei trasferimenti statali e dei vincoli imposti dal patto di stabilità interno.
L’Italia è dunque cambiata molto e la narrazione che vede il paese immobile e incapace di riformarsi è controfattuale. Le azioni dei governi che si sono succeduti dal 2011 in poi hanno accelerato questo cammino verso un modello di riferimento, quello statunitense, che prevede uno Stato ridotto ai minimi termini e il massiccio intervento del capitale privato che si insinua nel welfare, un “mercato” dal profitto garantito e in cui la domanda non flette mai. Il nostro paese cambia adottando leggi imposte da organismi sovranazionali che sono chiaramente rappresentativi di quello stesso capitale, quello dei grandi operatori finanziari istituzionali, costituito da banche di investimento, assicurazioni, società di gestione del risparmio, istituti di credito. In altre parole i governi europei, in osservanza dei desiderata dell’Unione Europea, del Fondo Monetario Internazionale e dei grandi operatori di mercato, si adoperano per vendere le garanzie di benessere conquistate in anni di lotte sociali ai peggiori offerenti.
Che fare, allora? Siamo al giro di boa, le condizioni socio-economiche di un numero crescente di persone sono in progressivo peggioramento e la sensazione di aver preso una sonora fregatura con l’adesione all’UE e con l’ingresso nella moneta unica è sempre più diffusa. Tra 5 o al massimo 10 anni un numero consistente di persone avrà pagato sulla propria pelle i primi effetti di queste politiche e nell’opinione pubblica sarà dominante l’idea di aver imboccato una via sbagliata.
La strada maestra per risollevarsi è la partecipazione, che si realizza attraverso la militanza politica in una formazione decisa a cambiare rotta e a riportare l’Italia sui binari del progresso economico e sociale che ha percorso per trent’anni dopo la seconda guerra mondiale e che poi ha abbandonato. Il suo programma è sintetizzato nella nostra Costituzione del 1948, nei principi fondamentali, nei rapporti economici, politici e sociali, nell’azione del Parlamento che nei “trenta gloriosi” ha legiferato applicando quei principi e portando l’Italia dal baratro della povertà a modello internazionalmente riconosciuto di prosperità economica e di giustizia sociale. Un partito che mette al centro del proprio indirizzo politico l’autodeterminazione di un popolo che ormai ha superato l’adolescenza della storia unitaria e si avvia alla maturità. Questo partito è sovranista e quindi antiglobalista, patriottico e antepone l’interesse della collettività alle ambizioni individualistiche di narcisi ed esibizionisti. Un partito con un’identità, che si fonda sui solidi pilastri di valori condivisi da una collettività che ci si riconosce perché su questi valori è stata generata. Che combatte le distorsioni economiche e sociali del globalismo con l’orgoglio patriottico dell’appartenenza ad un popolo che ha una storia nobile, fatta da uomini valorosi, ma che al contempo rifiuta le ignobili rivendicazioni nazionaliste di chi ignora che il tricolore è un vessillo di libertà, fratellanza, solidarietà, coraggio. Questo partito esiste e si chiama Fronte Sovranista Italiano e segnerà il futuro del paese, una nuova liberazione.
Sovranisti di tutta Italia, unitevi a noi!
Molto bello, esaustivo, entusiasmante!