Impegnatevi! L’imperativo che viene dal referendum
E’ tra le macerie di una autentica guerra economica che si aggirano i milioni di elettori che il 4 dicembre hanno votato No. Dobbiamo dunque raccogliere il testimone lasciatoci da questa grande giornata, e declinarne il messaggio con parole nuove: lavoro degno, reddito minimo universale, società dei beni comuni, economia sostenibile, Stato innovatore.
di MICROMEGA (Domenico Tambasco)
A dire No al referendum costituzionale sono stati soprattutto giovani, disoccupati e meno abbienti: tra tutte le analisi del post voto referendario, questo dato[1] è quello che meglio rappresenta la valanga abbattutasi sul governo del Principe fiorentino.
Siamo al cuore delle motivazioni di un rigetto di massa che, al netto delle personalizzazioni, sembra avere nelle ragioni economico-sociali la sua più nitida fotografia.
Giovane, disoccupato e impoverito: è il profilo perfetto dell’appartenente alla “nuova classe esplosiva”[2], figlio della “classe media” ormai regredita in un’inarrestabile mobilità sociale verso il basso. E’ un piano inclinato, una discesa agli inferi della società che, in moto da circa trent’anni (dall’avvento del neoliberismo come ideologia unica alla “fine della storia”), ha subito un’impressionante accelerazione negli ultimi cinque anni.
Sono questi, infatti, gli anni della “soluzione finale”, ovvero della scientifica e pervicace applicazione della shockterapia neoliberista[3] anche in Italia: ecco abbattersi sugli inermi cittadini un autentico bombardamento di leggi, motivato dallo stato di emergenza di una crisi economica indotta soprattutto (se non esclusivamente) dai movimenti speculativi finanziari.
Leggi come bombe, che radono al suolo le fondamenta costituzionali della “Repubblica fondata sul lavoro”: il “collegato lavoro”[4] che utilizza subdolamente il tempo come arma spianata contro i diritti dei lavoratori (evaporati in un diabolico sistema di decadenze), la legge Fornero[5] che apre una breccia nel muro della reintegra contro i licenziamenti illegittimi, le leggi del governo tecnico Monti che devastano la garanzia della responsabilità solidale negli appalti[6], il “colpo di mano costituzionale” dell’introduzione dell’obbligo del pareggio di bilancio[7] (approvato in modo quasi unanime allo scopo di evitare il prevedibile giudizio popolare del referendum), che ha fortemente limitato il ricorso alle politiche keynesiane (ovvero la possibilità per lo Stato di praticare politiche economiche anticicliche, spendendo ed indebitandosi nei periodi di crisi al solo fine di stimolare l’economia).
Ed ecco l’arma finale, la madre di tutte le bombe, che reca già nel nome la matrice “anglosassone” della Scuola di Chicago, ovvero la “riforma strutturale” del lavoro coniata dai Milton Friedman di casa nostra: il Jobs Act[8], ovvero la definitiva cancellazione con legge ordinaria delle garanzie costituzionali dei diritti dei lavoratori, come J.P Morgan auspicava[9].
Volgiamo ora il nostro sguardo al panorama del post “trattamento”: al di là di ogni propaganda orwelliana, al di fuori del cono della finzione che si trasforma in “realtà percepita”, la visione è catastrofica[10].
Miliardi di euro (tra 11 e 18 miliardi) letteralmente “gettati dalla finestra” per incentivare un aumento dell’occupazione temporaneo e non strutturale che si prolugherà per il breve spazio di durata degli sgravi contributivi, l’aumento dei licenziamenti (in particolar modo di quelli di natura disciplinare), la deregulation dei demansionamenti, l’esplosione della precarietà nella sua forma più infima, ovvero quella dei voucher, forma di legalizzazione del lavoro “nero” e povero: quanto basta per certificare, nella nuova “costituzione materiale”, l’abrogazione non solo dell’articolo 1, ma anche e soprattutto degli articoli 35 e 36, solenni e ormai beffarde dichiarazioni di principio secondo cui “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” (art. 35 Cost.), avendo il lavoratore “diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36 Cost.).
E’ tra le macerie di questa guerra economica (che, non dimentichiamolo, ha lasciato sul campo un quarto della capacità produttiva del nostro Paese tra il 2008 ed il 2013[11]) che si aggirano i milioni di elettori i quali, il 4 dicembre, hanno fatto sentire in modo così stentoreo la propria voce.
Tragico sarebbe l’errore di chi, obnubilato dai meschini calcoli dell’oligarchica politica di piccolo cabotaggio, considerasse la vittoria del No al referendum come un irresponsabile capriccio del suffragio universale; al contrario, l’ascolto teso verso le urne ci farebbe sentire la voce di milioni di persone che, civilmente, hanno affermato che non c’è libertà senza democrazia, non c’è democrazia senza eguaglianza, non c’è eguaglianza senza lavoro: la difesa della Carta Costituzionale ne è il vessillo.
Dobbiamo raccogliere dunque il testimone lasciatoci da questa grande giornata, e declinarne il messaggio con parole nuove: lavoro degno, reddito minimo universale, società dei beni comuni, economia sostenibile, Stato innovatore. Sono alcuni dei semi gettati dalla discussione delle molte “minoranze” presenti nel paesaggio culturale del nostro Paese che, in questi anni di buia egemonia neoliberista, non hanno rinunciato ad affermare la propria indipendenza critica. E’ il nucleo di una politica nuova che, abbandonato l’imperativo neoliberista “Arricchitevi!”, grida all’intera comunità: “Impegnatevi!”.
NOTE
[1] Il Sole 24 ore on line, 6 dicembre 2016, fonte Info Data.
[2] Si rimanda alla trattazione di Guy Standing, Precari – la nuova classe esplosiva, 2011, Bologna, Il Mulino.
[3] Per una completa e documentata analisi della “shockterapia” neoliberista e delle “leggi utilizzate come bombe”, si rimanda a Naomi Klein, Shock Economy – L’ascesa del capitalismo dei disastri, 2007, Milano, Rizzoli.
[4] Si tratta della legge n. 183/2010.
[5] Legge n. 92/2012.
[6] Art. 21 comma 1 d.l. 9 febbraio 2012, n. 5, conv. in L. 4 aprile 2012, n. 35, che ha radicalmente modificato l’art. 29 comma 2 del dlgs. 276/2003 che prevedeva, in caso di mancato pagamento delle retribuzioni da parte del proprio datore di lavoro, la piena responsabilità solidale dei committenti nel caso di prestazioni lavorative svolte nell’ambito di un appalto d’opera o di servizi.
[7] Art. 81 Cost., modificato da L. cost. 20 aprile 2012, n. 1.
[8] Legge delega n. 183/2014 e decreti legislativi n 22/20015, n. 23/2015, n. 80/2015, n. 81/2015, 148/2015, 149/2015, 150/2015, 151/2015, dlgs. 185/2016.
[9] Si fa riferimento al report redatto dalla banca d’affari J.P. Morgan il 28 maggio 2013, in cui si afferma che “I sistemi politici dei paesi del sud, e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea”, indicando tra i vari limiti anche le “tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori”.
[10] Si rimanda, da ultimo, ai dati dell’Osservatorio sul precariato relativi ai primi otto mesi del 2016; ai dati Inps sui licenziamenti per il periodo 2015-2016; si veda anche il recente contributo di R. Ciccarelli, Un bilancio. Chi ha perso la guerra dei dati sul Jobs Act, Il Manifesto On line, 6 dicembre 2016.
[11] Dossier Istat anno 2014
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