Quale ripresa?
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Gianmaria Vianova)
Per la prima volta dal 1959 in Italia si registra un calo dei prezzi su base annuale. Tra le cause principali la riforma del mercato del lavoro, con la sua flessibilità e compressione dei salari, e la solita austerità: la leva monetaria ha fallito, è ora di riabilitare quella fiscale.
E’ deflazione conclamata: nel 2016, secondo la CGIA di Mestre, l’indice dei prezzi al consumo in Italia scenderà dello 0,1%. Il dato potrebbe non destare stupore in quanto la deflazione si è affacciata da tempo sul nostro Paese (e sull’Area Euro) ma, a differenza delle statistiche finora pubblicate, questa prevede un decremento del livello generale dei prezzi su base annuale, non mensile. Contestualizzando: è la prima volta che accade dal 1959. Lucide a riguardo sono le parole di Paolo Zabeo (coordinatore Ufficio studi della CGIA):
«Solo nel 1959 i prezzi sono diminuiti ma il PIL cresceva del 7 per cento, nel 2016, invece, la crescita dell’economia italiana è inferiore all’1% e la deflazione esiste perché la domanda è debole e i consumi sono troppo lontani dai livelli pre-crisi».
Il Paese nel 1959 era nel pieno del boom economico, l’Italia risorgeva dal conflitto mondiale e si riscopriva magnifica fornace produttivo/manifatturiera. Quel calo dei prezzi, di fatto, non ha nulla a che vedere con l’attuale deflazione. La crescita del PIL al 7% sta a testimoniare proprio la dirompente spinta della domanda di beni sull’economia registrata durante il boom. A fronte di tale disponibilità ad acquistare, però, si attestava una profonda metamorfosi del tessuto agricolo e produttivo della penisola che si era ormai predisposto a soddisfare la domanda in espansione. Allora, l’incremento dell’offerta di beni coadiuvata dal sistema di cambi fissi di Bretton Woods (che anestetizzava l’influenza del cambio) portò al contenimento dell’aumento dei prezzi al consumo. Altra epoca, altra congiuntura: a fronte di guadagni sempre maggiori i prezzi diminuivano e si aprivano al mercato delle masse.
Oggi, nel mezzo della recessione più lunga del secolo divenuta poi stagnazione, tali presupposti non sussistono. La deflazione corrente è figlia di anemia: debole disponibilità di risorse si traduce in debole volume di acquisti. I prezzi salgono solo se c’è un consumatore nelle condizioni di poter sostenere l’aumento. Sintomatico è il fatto che la crescita del PIL, nonostante l’Euro svalutato, il petrolio ai minimi, costo del denaro inesistente e il QE, non sia in grado di oltrepassare l’1% e le stime, progressivamente tagliate al ribasso, non prevedano una ripresa netta nei prossimi cinque anni. La stagnazione però non basta a giustificare la caduta dei prezzi nel Belpaese: nell’Eurozona l’inflazione è risalita, seppur in maniera contenuta, a + 0,6% nel novembre 2016. Il dato italiano ha perso, in sostanza, qualsiasi correlazione con il dato comunitario. Devono essere entrate in azione variabili tutte interne al mercato nazionale.
Tasso di inflazione registrato nell’Eurozona durante l’anno solare 2016: a novembre viene confermata una parvenza di rialzo
Ci ha pensato l’ISTAT a diffondere un dato galeotto:
«A novembre l’indice delle retribuzioni contrattuali orarie aumenta dello 0,1% rispetto al mese precedente e dello 0,5% nei confronti di novembre 2015, segnando l’incremento più basso dall’inizio delle serie storiche, nel 1982».
La compressione dei salari è un fenomeno ampiamente prevedibile e strettamente derivatodell’introduzione di maggiore flessibilità sul mercato del lavoro ad opera del Jobs Act. Obiettivo di tale riforma è ormai noto: osteggiare tempo indeterminato e tutele, favorire precariato, contratti lampo e licenziamenti. Esemplare è il boom del fenomeno voucher che, nei primi 10 mesi dell’anno corrente secondo l’INPS, ha registrato un aumento del 32,3% rispetto al 2015 (ne sono stati venduti 121,5 milioni). Con il diradarsi dell’effetto decontribuzione nel 2016, poi, la creazione di lavoro “buono” è stata compromessa ulteriormente, come testimonia il crollo dell’aumento dei salari su base mensile, passata da +1,3% nel dicembre 2015 a +0,7% nel gennaio dell’anno corrente. L’intento, sin dall’inizio, era quello di copiare le riforme Hartz tedesche: stimolare l’aumento della sottoccupazione per “falsare” il dato sulla disoccupazione. L’ISTAT, infatti, considera occupato nel periodo di riferimento anche chi ha svolto una sola ora di lavoro retribuito in tale periodo. La strategia è far lavorare più persone con stipendi minori, saturare la capacità del mercato del lavoro adattando l’offerta. Lo si può comprendere meglio con un esempio numerico: puoi riempire un metro con cento centimetri o dieci decimetri, ma sempre un metro avrai.
Preferire la creazione di posti di lavoro mal retribuiti (tendenza diffusa nell’era post-2007) a quelli a tempo indeterminato, rassicuranti e tradizionali, comporta necessariamente una iniezione di incertezza all’interno della popolazione. I lavoratori hanno paura di perdere il proprio posto e accettano tutte le condizioni dettate dal datore di lavoro: si diventa merce messa a disposizione del capitale. In quanto merce, si cerca di accaparrarsela al minor prezzo e la merce umana, dato che ci sono pochi acquirenti (datori di lavoro), sottostà forzatamente al taglio del proprio salario. Oggi è la via più facile e apprezzata da mercati, Bruxelles e grande industria perché smantella de facto i diritti sociali conquistati nel corso di decenni. Questa visione rivela in ogni caso la propria fallacia: dopo anni di politica fiscale restrittiva scegliere di drenare ulteriori risorse dai consumatori attraverso la svalutazione del salario comporta inevitabilmente un indebolimento della domanda interna. Non è un caso se pochi giorni fa Federconsumatori ha comunicato che gli italiani durante le Feste, rispetto all’anno scorso, spenderanno il 7% in meno per i generi non alimentari e il 3% in meno per il cenone natalizio. Se non metti soldi in tasca ai consumatori, questi non consumeranno adeguatamente i prodotti del mercato. Il risultato è perfettamente illustrato dalla Curva di Phillips: la correlazione tra salari e inflazione è nota e ormai è stata completamente riabilitata.
La visione monetarista (alla Friedman, per capirsi) sostiene che sia la quantità di moneta in circolazione a determinare il tasso di inflazione (più moneta c’è e meno vale unitariamente) mentre la base teorica della Curva è speculare: l’alto tasso di disoccupazione comporta la cessione di velleità da parte del salariato, con una conseguente perdita del potere d’acquisto, un crollo della domanda e una spinta al ribasso dei prezzi per fare in modo che siano venduti. È questa seconda versione ad essere maggiormente vicina alla realtà, alla luce dei fatti contemporanei. Alta disoccupazione e sottoccupazione nella Curva di Phillips concorrono al medesimo effetto, che poi sarebbe quello di svuotare il conto corrente “collettivo” della popolazione. Si apre quindi un secondo tema cardine: per quanto si potrà ancora sperare in un effetto inflazionistico della leva monetaria? Per quanto tempo si perpetuerà l’oblio di quella fiscale?
La BCE ha sforato a settembre i 1000 miliardi di euro immessi nel sistema bancario attraverso il QE e il costo del denaro è a zero da febbraio (ed è inferiore a 0,05% da quasi 3 anni). Le banche non hanno però speso l’enorme pioggia di denaro nell’economia reale, preferendo investimenti finanziari. Ulteriore creazione di moneta, ad oggi, non provoca più alcun effetto. È pura assuefazione, una dipendenza, necessità di ricevere liquidità soltanto per far sopravvivere il liquidità-dipendente. Si palesa davanti ai nostri occhi una trappola della liquidità delle più classiche e accademiche, teorizzata da Keynes negli anni ‘30, epoca in cui l’economista sosteneva la necessità di un forte intervento statale per far ripartire il ciclo economico dopo il crollo del 1929. Di lì a poco negli USA nascerà il New Deal: altra storia, altri tempi ma medesimi presupposti. È la leva fiscale quella che deve essere attivata, la spesa governativa che sorge da tagli di tasse, irrobustimento del welfare e investimenti pubblici, quindi immessa direttamente nell’economia reale.
I vincoli di bilancio dell’UE, a partire dal Fiscal Compact e dall’anteposizione dello “sviluppo sostenibile”, della “crescita economica equilibrata”, della “stabilità dei prezzi”, della “economia sociale di mercato fortemente competitiva” alla piena occupazione (articolo 3 TUE) e al benessere, stanno diventando fattori sempre più deleteri. Il dogma del contenimento della spesa pubblica a tutti i costi induce all’anemia intere nazioni, anestetizzando le rispettive capacità di ripresa. La stabilità celebrata dall’Unione Europea va intesa nel senso neoliberista, quella che tiene conto del NAIRU, ovvero il tasso di disoccupazione naturale, il livello minimo di disoccupati che deve essere garantito per scongiurare un’accelerazione dell’inflazione. Come brillantemente esposto da Barra Caracciolo nel suo saggio Euro e (o?) democrazia costituzionale, gli eurocrati osteggiano ufficialmente la teoria keynesiana in favore di quella della Commissione Trilaterale, di stampo monetarista (inflazione uguale “male delle democrazie”, si veda il paper “Crisis of democracy). Essi allo stesso tempo però lavorano sottobanco per evitare che economia e salari reali accelerino eccessivamente, anche in periodi che seguono gravi crisi, disattivando i presupposti keynesiani della crescita.
Tornando al caso italiano, è notevole l’occasione che la Corte Costituzionale con la sentenza 275/2016 ci offre:
«La pretesa violazione dell’art. 81 Cost. è frutto di una visione non corretta del concetto di equilibrio del bilancio, sia con riguardo alla Regione che alla Provincia cofinanziatrice. È la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione».
L’articolo 81 è proprio quello che nel 2012 è stato riformato nell’intento di introdurre in Costituzione il principio del pareggio di bilancio. La Corte, con questa preziosa sentenza, pone la garanzia dei diritti incomprimibili davanti ai principi contabili: non viene menzionata l’UE mentre la chiamata in causa dei diritti fondamentali rinnova in maniera convinta la lettura dell’articolo 81. Tra i diritti menzionati nella Costituzione, infatti, vi è quello al lavoro, su cui l’articolo 1 basa la nostra Repubblica e su cui è imperniato l’articolo 4. Non solo è ammesso quindi, è altresì necessario aprire i rubinetti della politica fiscale nell’intento di stimolare la domanda. La domanda di beni si traduce in domanda di lavoro e quindi creazione di posti sani tali da mettere al sicuro il salariato e, complessivamente, l’intera economia italiana. I prezzi per forza di cose subiranno una spinta al rialzo e l’inflazione arriverà da sé. Vero è che la moneta unica obbliga la svalutazione salariale in mancanza di una svalutazione del cambio, rendendo di fatto strutturale la necessità di flessibilità e bassa inflazione, ma è pacifico il bisogno impellente di una nuova mentalità a livello nazionale e sovranazionale: no alla precarietà, sì alla ripresa derivante da politiche anticicliche. È giunto il momento, le scuse sono finite.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/economia/quale-ripresa/
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