Critica del populismo di sinistra
di SINISTRA IN RETE (Eros Barone)
Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro quello che non hanno. Poiché la prima cosa che il proletario deve fare è di conquistarsi il dominio politico, di elevarsi a classe nazionale, di costituire se stesso in nazione, è anch’esso ancora nazionale, seppure non certo nel senso della borghesia.
K. Marx – F. Engels, Manifesto del Partito Comunista.
In questo articolo mi propongo di esporre alcune considerazioni critiche concernenti le ventidue tesi formulate da Carlo Formenti sul “momento populista” qui . Ritengo infatti che il testo in parola esprima in un modo particolarmente pregnante ed incisivo il succo delle posizioni politiche, economiche e culturali che caratterizzano il movimento dei populisti di sinistra.
- Che cos’è il populismo
Parto quindi dall’‘incipit’, dove, come risposta al quesito sulla natura del populismo, viene offerta una definizione che, essendo negativa, risulta quanto mai debole: “Il populismo non è un’ideologia”. La ragione di tale debolezza va ricercata, come ammette l’autore delle tesi, nella diversità e pluralità con cui, sia nel tempo sia nello spazio, si sono manifestati, assumendo connotazioni di destra o di sinistra, i movimenti populisti: da quelli ottocenteschi a quelli contemporanei. Né contribuiscono a chiarire la reale natura dei movimenti populisti i tratti indicati in questa prima tesi: lo stile comunicativo e l’autorappresentazione in chiave nuovista. Questa incertezza terminologica e semantica è uno dei limiti, peraltro non casuali (come si vedrà), del documento redatto da Formenti.
- Che cos’è il popolo
Nella tesi due spicca la definizione del popolo e della sua genesi attuale: “Il popolo che i populisti aspirano a rappresentare non è un’entità ‘naturale’, preesistente all’insorgenza del loro discorso politico…Si tratta al contrario d’una costruzione politica resa possibile dalla crisi catastrofica di un sistema di potere consolidato.
Il ‘momento populista’ sorge quando una determinata formazione egemonica (come il sistema liberaldemocratico) non è più in grado di far fronte alla proliferazione di domande sociali che restano insoddisfatte”.
Orbene, va osservato che, per quanto Formenti si preoccupi, sottolineandone il carattere ‘fattizio’, di demarcare la sua definizione di popolo da quelle, fondate su presupposti naturalistici, che contraddistinguono le ideologie razziste e fasciste, il populismo è in realtà segnato da un congenito difetto epistemico derivante dalla contrapposizione tra generale e particolare, la quale, se può spiegare la sua momentanea incidenza di massa nella fase attuale segnata dal disorientamento politico-culturale e dall’assenza di visioni complessive della società e della storia dotate di forza mobilitante, ne determina in modo altrettanto necessario quello che è il suo limite intrinseco e insuperabile. Quest’ultimo, segnalato nitidamente da Nicolao Merker nel saggio intitolato Filosofie del populismo (2009), emerge non appena si considera il rapporto inversamente proporzionale che intercorre, nel concetto logico di ‘popolo’, tra l’estensione di tale concetto, che designa la ‘totalità’ degli oggetti che si riferiscono ad esso, e l’intensione, che designa soltanto ‘uno o più’ oggetti che rientrano nella classe logica in parola. Così, in base al primo significato abbiamo il popolo come ‘demos’, mentre in base al secondo abbiamo il popolo come ‘ethnos’. È evidente allora che il ‘demos’, in quanto ha un significato estensivo, è anche inclusivo: ciò implica che una popolazione che ha un’identità comune in forza di un territorio comune, di una storia comune e di una lingua d’uso comune, nonché di istituzioni e di diritti comuni, ‘include’ anche l’‘ethnos’, ossia un popolo che ha caratteri più specifici, quali la razza, la religione e particolari diritti. Al contrario, il popolo in quanto ‘ethnos’ esclude costitutivamente da sé coloro (altri popoli) che non hanno tali caratteri, ossia non appartengono a quella razza, a quella religione ecc. Non per nulla, nella tesi nove viene criticata la “politica di accoglienza illimitata” nei confronti dei migranti, lasciando intendere che tali soggetti non sono integranti della comunità nazionale (e forse neppure integrabili in essa). Di conseguenza, chi vuole comunità aperte opterà per il popolo come ‘demos’, mentre chi le teme sceglierà il popolo come ‘ethnos’. Dal punto di vista economico, sociale e culturale dovrebbe essere tuttavia evidente non solo la superiorità etica ma anche la maggiore utilità politica, rispetto a quella ‘etnica’, della prospettiva ‘democratica’, che è in grado di produrre, soprattutto per la convivenza civile e per le generazioni future, risultati a lungo termine di gran lunga più vantaggiosi. È sufficiente chiedersi: utilità per chi e per quanti? In tal modo risulta palese come un certo concetto di popolo risulti utile a tutti e perché un altro concetto di popolo, quello ‘etnico’ (o, come nel caso in questione, para-etnico), venga adoperato per giustificare il carattere (non universale ma) particolare dei diritti esistenti.
Sempre a questo proposito, vi è poi da fare un’altra considerazione, e cioè che, da quando il genere umano esiste ed opera, la storia ha dimostrato che la strada maestra dell’incivilimento non passa attraverso i recinti e i ghetti, ma attraverso le mescolanze e il meticciato, che è quanto dire attraverso l’universalizzazione dei diritti, contrapposta alla istituzione dei privilegi per questa o quella razza, per questa o quella regione, per questa o quella classe. Asserire che le diversità biologiche tra le razze e le stirpi producono diversità morali e culturali e che l’ordinamento politico-giuridico deve conformarsi ad esse è quindi un modo per ‘naturalizzare’ ed eternizzare le disuguaglianze politico-sociali esistenti. Infine, affermare che il ‘momento populista’ sorge dalla crisi del sistema liberaldemocratico è, sul piano descrittivo, certamente giusto, ma piuttosto generico. D’altra parte, assumere la categoria di popolo come aggregato sociologicamente interclassista e, dal punto di vista politico, meramente antagonista alla ‘casta’, non porta lontano, ma significa, come direbbero i francesi, ‘piétiner sur place’. Né distinguere il carattere delle formazioni politiche populiste in base al “prevalere della domanda di sicurezza (per esempio protezione dai flussi migratori) o della domanda di uguaglianza e giustizia sociali ed economiche (protezione dagli effetti del processo di globalizzazione)” assume un significato diverso dalla proverbiale alternativa del bere o dell’affogare (senza contare quanto sia prossimo all’uso politico-economico delle politiche neoliberiste, pur criticate, il continuo ricorso, per definire i bisogni delle masse popolari, alla nozione marginalistica di ‘domanda’).
- Populista = fascista?
“Le sinistre tradizionali (socialdemocratiche e radicali) negano a priori che possano esistere populismi di sinistra, al punto che fanno un uso spregiativo dell’aggettivo populista come sinonimo di reazionario (o addirittura fascista)”. In questa terza tesi occorre rilevare che al rigetto della equivalenza tra fascismo e populismo si accompagna l’onesto riconoscimento che “esistono zone grigie in cui le visioni [del populismo di destra e di sinistra] si sovrappongono: dall’opposizione fra localismo e cosmopolitismo a quella fra valori comunitari e individualismo borghese, all’atteggiamento critico nei confronti dell’esaltazione del nuovo e della modernità”.
In realtà, sarebbe un grave errore di grammatica teorico-politica dilatare la nozione di populismo e giungere ad affermare, come si evince dalla lettura del documento in parola (cfr. tesi 1, 4 e 18), che è possibile, in una prospettiva gramsciana, conferire un carattere nuovo al populismo, collegandolo alla versione di un socialismo popolare che sposi i valori della democrazia partecipativa, e asserire che nulla esclude che il populismo possa assumere forme davvero progressiste e democratiche.
Nella tesi quattro si giunge poi ad affermare, trasformando in un requisito positivo l’oscillazione pendolare ‘destra-sinistra’ che connota il fenomeno populista, che questo è la nuova “forma della lotta di classe nell’era del capitalismo globalizzato e finanziarizzato” e, in quanto soggetto costitutivamente plurale, coincide con un nuovo tipo di blocco gramsciano costituito dai “tre grandi ‘stati’ postmoderni: oligarchi, classe media e un gigantesco terzo Stato composto da tutti i perdenti della globalizzazione”, laddove, in parte per celia e in parte sul serio, si potrebbe definire il ricorso analogico alla categoria gramsciana del blocco storico come un sottoprodotto ritardato della rivoluzione francese del 1789 e del Termidoro capitalistico del 1989…
Del resto, siamo in presenza di una corrente di pensiero, il populismo per l’appunto, che, data la sua natura proteiforme, si manifesta nei più diversi àmbiti problematici. Sennonché, in un’ottica marxista e comunista, il modello classico, ancora attuale, della critica del populismo (e del connesso romanticismo economico) è quello depositato nel “Che fare?” di Lenin (1902), ove l’autore confuta la tesi secondo la quale nelle classi subalterne, nel popolo in quanto tale, è ìnsita la coscienza rivoluzionaria, una superiore visione del mondo non contaminata dai disvalori borghesi. Al contrario, per Lenin la coscienza rivoluzionaria è una costruzione che implica il contributo decisivo degli “intellettuali borghesi”, categoria a cui appartenevano, “per la loro posizione sociale, gli stessi fondatori del socialismo scientifico contemporaneo, Marx ed Engels”, i quali hanno sempre sottolineato la funzione controrivoluzionaria spesso svolta dal sottoproletariato, dagli “straccioni”, senza indulgere al mito populista in base al quale la coscienza rivoluzionaria, la prospettiva di una società più giusta, sarebbe un dato naturale e costitutivo del popolo (ovvero della classe operaia: in questo senso, l’operaismo della “rude razza pagana”, a suo tempo celebrato da Tronti, non è se non una variante del populismo).
Ma vi è di più: come non vedere, infatti, che il fastidio per la forma-partito e la correlativa tendenza a dare credito ai ‘cesaristi di sinistra’, nonché a sciogliere il partito comunista nella sinistra genericamente intesa, è stata una delle forme in cui si è manifestata quella reviviscenza del populismo di cui il documento in esame è un prodotto? Di quel populismo che, ancorché declinato in direzione progressista e financo rivoluzionaria, non potrà mai surrogare la critica marxista della democrazia borghese, che è il vero compito teorico-pratico da assolvere; di quel populismo che alla conoscenza e alla consapevolezza sostituisce la speranza e la consolazione, come ebbe a rilevare Alberto Asor Rosa nel suo corrosivo saggio, risalente alla metà degli anni sessanta del secolo scorso, su “Scrittori e popolo”(sottotitolo: “Il populismo nella letteratura italiana contemporanea”); di quel populismo che è sempre intimamente reazionario in quanto colloca l’utopia nel passato, non nel futuro. In conclusione, l’equivalenza indicata nel titolo di questo paragrafo appare, per più versi, legittima e, al massimo, si può concedere all’ansia di legittimazione democratica, da cui è pervaso il documento in esame, che la qualifica ‘di sinistra’ è un complemento di denominazione, non di qualità.
- La quinta tesi: un vortice di concetti
“Un altro aspetto del populismo che irrita le sinistre è l’impossibilità di fare a meno della figura di un leader carismatico.” Questa quinta tesi è un guazzabuglio di temi eterogenei e di nozioni esposte in forma talmente ellittica da risultare inintelligibili, poiché giustappone e mescola: a) i modi di concepire il leader da parte della destra e della sinistra; b) la natura fluida del populismo; c) la trasformazione della democrazia in post-democrazia; d) le differenze tra liberalismo e democrazia. Da questo complicato e oscuro vortice di concetti, prodotto nel breve giro di poche righe, il documento approda, non si sa come né perché (forse fidando nella hegeliana astuzia della ragione), alla seguente apodosi, che va comunque riportata per mero scrupolo espositivo: “il populismo, con tutti i suoi limiti e contraddizioni, rappresenta l’unico concreto tentativo di reintrodurre l’elemento democratico negli attuali sistemi rappresentativi”.
- Genesi, natura, ascesa e crisi della globalizzazione
Le tesi sei, sette, otto e nove contengono la parte più viva del documento, poiché delineano, da un lato, la nascita, lo sviluppo e la crisi della globalizzazione e, dall’altro, la rappresentazione mistificante che di ciò ha prodotto “una sinistra intrisa di progressismo”: “Che la globalizzazione sia l’esito di una tendenza di sviluppo ‘oggettiva’ del modo di produzione capitalistico (oltre che portatrice di benefici per tutti) è una mistificazione alimentata dalla narrazione liberal-liberista, nonché fatta propria da una sinistra intrisa di progressismo, la quale pensa che ogni balzo evolutivo del capitale, pur comportando spiacevoli ‘effetti collaterali’, avvicini l’avvento di un mondo migliore. Accettare questa narrazione significa non saper distinguere fra internazionalizzazione della produzione e degli scambi commerciali – processo da sempre associato al capitale – e globalizzazione come strategia di quella ‘guerra di classe dall’alto’ che il capitalismo ha avviato a partire dalla crisi degli anni Settanta del secolo scorso. Il centro di irradiazione del cosiddetto processo di globalizzazione è stato, non a caso, la potenza egemone degli Stati Uniti (…) Ma pensare che ciò comporti la fine dello Stato-nazione è un’idiozia”.
Qui è da osservare che l’interessante non è tanto contrapporre, come fa Formenti, una lettura funzionalista ad una lettura intenzionalista della globalizzazione, ma semmai ricercare quale sia il rapporto che stringe l’una all’altra (il fattore oggettivo al fattore soggettivo). E a questo proposito, è bene sgombrare il campo da due miti diffusi nei primi anni ’90 del secolo scorso. Il primo è quello che afferma che la rivoluzione informatica e microelettronica ha comportato una contrazione spazio-temporale del mondo, rendendo possibili rapidi ed estesi collegamenti informativi e finanziari tra unità produttive e centri decisionali diversi che soltanto trent’anni fa sarebbero stati impensabili. Ciò avrebbe condotto alla nascita delle imprese transnazionali, le quali tenderebbero a compensare con la proiezione nei mercati mondiali i vincoli posti alla crescita dal raggiungimento della fase di maturità nel ciclo di molti prodotti e dal conseguente ristagno della domanda interna. In altri termini, le grandi imprese si sgancerebbero dal radicamento nazionale e tenderebbero ad articolarsi su scala globale, dandosi strutture organizzative di tipo reticolare piuttosto che gerarchico. Questa è, in effetti, la tesi della globalizzazione produttiva (presente, ad esempio, assieme alla sua consorella, nel saggio sull’Impero di Negri e Hardt), cui si affianca la tesi della globalizzazione tecnologica, secondo la quale tali imprese tenderebbero a sviluppare l’attività di ricerca tecnologica nei loro gangli multinazionali, evitando di concentrarle nella casa-madre. Lo “sciame delle innovazioni”, per usare l’efficace metafora di Schumpeter, sfocerebbe così in un processo internazionale policentrico. Orbene, è doveroso osservare che entrambe le tesi sono state invalidate dalla ricerca empirica già negli anni ’90. Gli studiosi che hanno affrontato questo problema, sottoponendo a verifica la tesi della globalizzazione produttiva, hanno studiato le cento più grandi imprese del mondo e hanno scoperto che, con rare eccezioni, i consigli di amministrazione e i modelli di direzione rimangono saldamente nazionali nel loro ‘modus operandi’. Altri studiosi, che si sono interessati al problema della globalizzazione tecnologica, hanno scoperto che nella stragrande maggioranza delle maggiori imprese manifatturiere del mondo le attività di ricerca tecnologica sono concentrate nella casa-madre e restano saldamente incentrate nei paesi della metropoli imperialista (ossia nel Nord del mondo). È vero che diversi paesi emergenti, con la Cina al primo posto, hanno fatto massicci investimenti nel settore della ‘Ricerca e Sviluppo’ e producono una quantità crescente di brevetti, ma si tratta prevalentemente di innovazioni consistenti nel perfezionare, adattare e imitare creativamente tecnologie importate. Il tratto saliente di questi processi, comunque, non è connesso tanto alla concentrazione del ‘management’ e della ricerca tecnologica di punta delle grandi imprese multinazionali in questa o in quella nazione, quanto alla loro dislocazione nei paesi avanzati del Nord del mondo. Le innovazioni vengono poi trasferite con gli investimenti diretti in diversi paesi emergenti e in via di sviluppo, dove danno luogo ad una ricerca tecnologica derivata. Sennonché le imprese in cui questa si svolge, essendo per lo più controllate delle grandi multinazionali, generano, attraverso il processo di espansione degli investimenti diretti esteri, un flusso costante di profitti dalla periferia al centro della metropoli imperialista, dove si concentra il capitale multinazionale.
Nella tesi sei si evoca, fra l’altro, il concetto di ‘guerra di classe dall’alto’, facendola risalire agli anni ’70 del secolo scorso, ma è opportuno precisare che tale concetto si inscrive nella duplice funzione svolta dallo Stato imperialista, il quale, per l’appunto, è lo Stato della controrivoluzione preventiva all’interno (funzione, questa, che esso assolve fin dagli ultimi decenni del XIX secolo, quando avvenne il passaggio dal capitalismo libero-scambista al capitalismo monopolistico) e delle guerre di aggressione all’esterno (aspetto, questo, su cui, data l’opzione sovranista che lo contraddistingue, il documento sintomaticamente tace).
Così, se è vero che “la fine dello Stato-nazione è un’idiozia”, è altrettanto vero che, a mano a mano che la globalizzazione capitalistica si è dispiegata, la contraddizione tra capitale e Stato si è andata palesando sia sul terreno delle politiche economiche interne sia nel crescente contrasto tra le ambizioni geopolitiche delle classi dirigenti dei singoli Stati e gli interessi del capitale multinazionale. Tali classi (perlomeno quelle che, come in Francia e in Germania, meritano di essere definite dirigenti e non serventi ) mirano a consolidare il proprio potere favorendo lo sviluppo economico necessario per garantire la coesione sociale; il capitale globale, invece, mira ad estendere i processi di liberalizzazione e di competizione internazionale, generando in tal modo una tendenza alla depressione produttiva e all’impoverimento delle classi lavoratrici nei paesi avanzati, che contribuisce ad inasprire il conflitto sociale ed esalta la funzione dello Stato in quanto “guardiano notturno”. È pur vero che le funzioni della cosiddetta ‘governance’ globale sono state adempiute con una certa efficienza dagli Stati Uniti fin verso la metà degli anni ’90 del secolo scorso; dopodiché l’accelerazione del processo di globalizzazione, accentuando la concorrenza dei paesi emergenti nei confronti dei paesi avanzati, ha ridotto la capacità di questi ultimi nel governare il mondo e ha determinato, con il risorgere delle ambizioni tedesche, da una parte, e l’emergere di quelle cinesi, dall’altra, un’acutizzazione delle rivalità inter-statali. Sono questi i processi che hanno contribuito all’approfondimento della grande crisi in corso, ponendo in essere quel circolo di ‘rivalità-crisi-rivalità’ che o si risolve nella costruzione di un nuovo stabile assetto delle relazioni tra le grandi potenze o è destinato a sfociare nella guerra. A questo proposito, l’ipotesi kautskiana dell’ultra-imperialismo, pur riconosciuta teoricamente da Lenin come tendenza di lunghissimo periodo, è stata da lui altrettanto giustamente criticata nel suo famoso saggio in quanto apologetica e tendente ad occultare il carattere insanabile delle contraddizioni inter-imperialistiche. Si può dunque sottoscrivere, muovendo da questi presupposti per impostare e risolvere correttamente il problema della rivoluzione socialista, quanto ha rilevato Immanuel Wallerstein: “La contraddizione politica fondamentale del capitalismo in tutta la sua storia è che i capitalisti hanno un interesse politico comune in quanto c’è una lotta di classe mondiale in corso. Allo stesso tempo tutti i capitalisti sono rivali di tutti gli altri capitalisti […] Siamo entrati in un mondo caotico […] Questa situazione di caos continuerà per i prossimi venti o trenta anni. Nessuno la controlla, tanto meno il governo degli Stati Uniti. Il quale è alla deriva in una congiuntura che cerca di gestire ovunque ma che è incapace di gestire”.
- Una sovranità da estinguere
“La difesa della sovranità nazionale è necessariamente di destra?” La tesi dieci si apre con questa domanda, cui segue una risposta, ovviamente in chiave sovranista, che si articola sia in questa che nella tesi successiva, dove si afferma: a) che “il rapporto fra nazioni del centro e nazioni semiperiferiche e periferiche incorpora una relazione di dominio e sfruttamento fra classi straniere e locali”; b) che “questa verità non vale oggi solo per quei Paesi ex coloniali che stanno rapidamente ricadendo sotto il dominio delle potenze imperialiste occidentali (e di altre potenze emergenti), vale anche per la relazione fra Paesi del Nord e del Sud Europa e in alcuni casi – come quello italiano – vale per il rapporto fra Nord e Sud all’interno di un singolo Paese. Ecco perché la riconquista della sovranità nazionale è l’unica strada percorribile per riottenere il controllo collettivo sulle proprie risorse, sulle politiche economiche e sociali e sui flussi di capitali, merci e persone”.
Chiaramente le precisazioni che vengono addotte nascono dalla preoccupazione, che è una costante ricorrente in tutto il documento, di distinguersi dal sovranismo di destra. Quindi, ci si adopera a chiarire che “la nazione (al pari del popolo) è un prodotto storico della vita politica” e che “ la patria…è una società concreta di uomini e donne che lottano per l’autogoverno dei cittadini, l’indipendenza nazionale e la sovranità popolare”. Né può mancare il classico ‘Leitmotiv’ anticomunista di un fugace riferimento alle posizioni tattiche sostenute fra anni ’20 e anni ’30 del secolo scorso, in chiave proto-rossobruna, dal rappresentante della Terza Internazionale nel mondo tedesco, Karl Radek, laddove questi, secondo l’estensore delle tesi, sarebbe stato “assassinato da Stalin” in persona, come si deve presumere dal complemento di agente che viene adoperato… A parte questa stravaganza, vale la pena di precisare, in primo luogo, che il concetto di sovranità, a partire da Rousseau, costituisce l’elemento centrale della definizione moderna dello Stato borghese. Riducendo il raggio di tale concetto a quello di ‘sovranità nazionale’, sono note le vicende (nazionalismo, irredentismo e imperialismo) attraverso le quali il ‘popolo-nazione’, categoria determinata storicamente, geograficamente ed etnicamente, si è venuto configurando come l’essenza culturale del concetto di sovranità, ragione per cui, a partire dalla rivoluzione francese, non si è più data sovranità statuale che non fosse sovranità nazionale. È però attraverso quelle stesse vicende politico-ideologiche che il concetto di sovranità nazionale è giunto anche alla sua crisi. Ciò è accaduto perché esso ha corrisposto ad un tentativo plurisecolare di riorganizzazione delle varie frazioni nazionali della borghesia trionfante, tale però che l’illimitata espansione di ciascuna ha messo in crisi la possibilità della convivenza di tutte. Da questa aporia è scaturita quella cessione della sovranità in particolari campi ad enti o istituzioni internazionali (ONU, UE ecc.) che è finora sembrata essere la caratteristica dell’attuale periodo storico. Va da sé che, come la storia contemporanea dimostra, l’alternativa a siffatta cessione della sovranità è la guerra interimperialista.
In effetti, la contaminazione, oggi più che mai evidente, del concetto di sovranità popolare con il concetto di nazione (“prima gli italiani”) ha l’immediato effetto di svuotare il primo delle sue potenzialità democratiche, coartandolo entro le maglie di un populismo tanto vago quanto isterico. Va quindi seguito con attenzione il processo attraverso cui il concetto di sovranità nazionale svuota di ogni radicale istanza lo stesso concetto di sovranità democratica (o popolare). Ciò è tanto più paradossale perché è proprio nel corso di questo processo di svuotamento del concetto di sovranità popolare che si sviluppa la mobilitazione reazionaria delle masse e la partecipazione di queste alla vita del sistema complessivo diviene, in generale, sempre più decisiva. Ma questo paradosso, va detto, è altresì necessario se il concetto di sovranità deve mantenersi entro l’àmbito del suo uso borghese. In definitiva, è nel movimento congiunto di un concetto di sovranità nazionale che tende al suo superamento nella dimensione sovrannazionale e di un concetto di sovranità popolare che si nega del tutto svuotandosi nello ‘stato di eccezione’, che va vista la crisi del concetto stesso di sovranità in generale. Se si volesse riassumere in una formula questo processo, si dovrebbe dire che l’obsolescenza del concetto di sovranità è del tutto connessa all’obsolescenza dei rapporti reali che registra. In altri termini, la crisi congiunta del concetto di sovranità popolare e del concetto di sovranità nazionale mette a nudo la natura borghese del concetto di sovranità. Pertanto, la sovranità non va “riconquistata”, come affermano sia i populisti di destra che quelli di sinistra, ma semmai condotta al termine della sua traiettoria storica, cioè estinta (ovviamente nel corso della transizione dal capitalismo al socialismo/comunismo).
- Dalla critica aperta della mitopoiesi europeista all’apologia indiretta della mitopoiesi nazionalista
Le tesi che vanno dalla dodici alla sedici delineano a grandi tratti la natura, il ‘modus operandi’ e la parabola storica dell’Unione Europea, demistificandone il carattere artificiale e mettendone a nudo la vera sostanza. Quest’ultima consiste in ciò, che “la Ue crea una superstruttura che opera come una sorta di polizia economica, sfruttando l’euro e il principio di concorrenza per sterilizzare i conflitti e condizionare i comportamenti individuali e collettivi”.
Riguardo poi alla bolsa retorica sulle radici comuni della civiltà europea (cristiane e/o illuministe), ivi compresa la corbelleria spacciata da un filosofo di corte come Jürgen Habermas, il quale è arrivato ad inventare di sana pianta la nozione di “patriottismo europeo”, non si può non condividere il sarcasmo che contrassegna la tesi tredici, dove si rammenta che “la verità è un’altra, ed è contenuta nel celebre detto che definisce l’Europa come una mera espressione geografica. L’Europa non è mai esistita come entità politica e culturale unitaria, e l’utopia di farne un unico Stato (utopia che tanto Marx quanto Lenin denunciarono come il sogno reazionario del capitalismo occidentale, il quale aspirava così a rafforzare il proprio dominio sul resto del mondo) si scontra con barriere sociali, linguistiche e culturali che nemmeno l’istituzione di un sistema fiscale, di un esercito e di una polizia comuni sarebbe in grado di superare”.
Rilevata quindi la natura teratologica della Ue in quanto “esperimento istituzionale che tenta di mettere in pratica l’utopia del fondatore del liberalismo moderno, von Hayek”, Formenti, riproponendo il punto di vista intenzionalista che regge il suo approccio analitico, non manca di indirizzare acuminati strali contro “l’economicismo e l’idea di necessità storica che regnano a sinistra e che si manifestano chiaramente non appena si affronta il problema dell’Unione Europea: ignorando le prove inconfutabili della sua irriformabilità, la palese impossibilità di democratizzarne le istituzioni, gli europeisti ‘critici’ ripetono ottusamente la tesi che la globalizzazione ha prodotto trasformazioni politiche e socioeconomiche tali da non poter essere più gestite dagli Stati-nazione”. Inoltre, come se l’economicismo e l’oggettivismo del TINA non bastassero, “sinistre e settori capitalistici più avanzati convergono nel bollare come conservatrice e reazionaria ogni rivendicazione di indipendenza nazionale”.
Su questa lunghezza d’onda polemica, peraltro ben indirizzata e in sé largamente condivisibile, si giunge al cuore della proposta politica e del progetto strategico che costituisce la ‘pars construens’ del documento. È opportuno riportarla integralmente, anche perché mostra con estrema nettezza quell’uso analogico di concetti marxisti che è un filo conduttore delle analisi svolte nel documento in questione: “L’obiezione più ricorrente al sovranismo di sinistra consiste nell’affermare che, nel contesto dell’attuale sistema capitalistico globalizzato, ogni velleità di sganciamento dal mercato mondiale è illusoria. Tuttavia autori come Hosea Jaffe e Samir Amin hanno contestato questa affermazione, dimostrando che il delinking dal mercato globale è una via percorribile; di più: è l’unica via percorribile per compiere qualsiasi passo verso il socialismo. Solo gli Stati sovrani possono negare agli strozzini della finanza globale il pagamento dei debiti imposti da Fmi, Banca mondiale, Bce e consimili istituzioni sovranazionali, prive di legittimazione democratica. Delinking non significa autarchia: vuol dire ridurre al minimo indispensabile le importazioni, massimizzare e ottimizzare l’uso delle risorse locali, conquistare la sovranità alimentare; vuol dire accentrare il surplus economico nelle mani dello Stato e ridistribuirlo in funzione dei bisogni settoriali di crescita, promuovendo la piena occupazione e la difesa degli interessi delle classi subalterne; vuol dire sfruttare i confini nazionali e la sovranità monetaria per regolare i flussi commerciali e di capitale. Chi sostiene che tutto ciò è impossibile concepisce la storia come un processo lineare e irreversibile, sovradeterminato da ferree leggi economiche rispetto alle quali la politica non può fare altro che adattarsi”.
Leggendo questo ragionamento, si ha una duplice impressione: da un lato, ci si imbatte in un linguaggio e in citazioni di autori che appartengono alla ‘traditio’ marxista (e ciò appare rassicurante); dall’altro, ci si trova qui in presenza di una forma di ‘slittamento’ teorico che sfocia in un uso ‘analogico’ di concetti marxisti, uso che scaturisce dalla trasposizione di un contesto teorico – quello che ha il suo fulcro nella dinamica della guerra interimperialista e nella posizione rivoluzionaria o socialimperialista del proletariato – in un quadro ‘toto coelo’ differente ed opposto, che è quello segnato dalla rivalità interimperialista fra Stati-nazione e dalla posizione imperialista del proprio Stato-nazione. Fatte le debite proporzioni e, come si usa dire, ‘mutatis mutandis’ (Formenti è un valente pubblicista, ma certamente non può essere paragonato né a Lenin né a Corradini), l’impressione inquietante è tuttavia quella di un uso, per l’appunto analogico, del materialismo storico quale arma che tende a disintegrare (non dall’esterno ma) ‘dall’interno’ la scientificità di tale materialismo e quale veicolo di un’ideologia incompatibile con esso e ad esso ripugnante.
Quando, nel 1911, Corradini asserisce che, come il socialismo ha cercato di organizzare la classe proletaria contro i suoi oppressori e concorrenti interni, così il nazionalismo vuole “essere per tutta la nazione ciò che il socialismo fu per il solo proletariato” (cfr. Asor Rosa, Storia d’Italia – La cultura, Einaudi, Torino 1975, pp. 1247-1248), rivela con questo paragone che il ‘ricalco’ di posizioni originariamente socialiste è molto più forte nel nazionalismo italiano di quanto finora non sia stato notato e che, a distanza di poco più di un secolo dalla conquista della Libia ad opera dell’imperialismo italiano, ancor oggi impegnato sullo stesso terreno, sia pure in un quadro di aspre rivalità interimperialiste, vi è pure qualche non trascurabile assonanza con il modo in cui il contesto attuale viene rispecchiato e proiettato nel documento oggetto della presente disàmina.
- L’impostazione leniniana del problema del ‘delinking’
L’ineguale sviluppo della società capitalistica, su cui Lenin giustamente insiste, determina, come è noto a coloro che conoscono il pensiero del grande rivoluzionario russo, il carattere processuale e differenziato della rivoluzione proletaria, il cui radicamento nazionale deriva dal carattere complessivo delle particolarità storiche delle forze produttive e delle classi sociali. L’un aspetto e l’altro della transizione mondiale al socialismo/comunismo discendono, in definitiva, dal movimento delle masse, che costituisce il dato nuovo e il fattore propulsivo di un processo rivoluzionario segnato, peraltro, dal carattere estremamente differenziato e ineguale della storia delle forze popolari e della loro realtà attuale. Al livello mondiale, la rivoluzione proletaria si distende su un’intera epoca storica, aperta dalla guerra imperialistica e caratterizzata dal processo della transizione dal capitalismo al comunismo.
Nella misura in cui tale processo è contrassegnato dall’ineguale sviluppo delle forze produttive e dalle loro particolarità storiche nazionali e di classe, per un verso esso pone ai diversi reparti della classe operaia il compito di conquistare la direzione politica del proprio Stato, nel mentre, per un altro verso, tale compito risulta possibile, ed è possibile mantenere il potere, anche nel caso in cui lo Stato socialista debba rimanere solo e accerchiato per lungo tempo, purché esso Stato mantenga uno stretto rapporto con le masse oppresse e, in primo luogo, con la classe operaia. D’altronde, fin dall’agosto del 1915 Lenin era pervenuto a tale conclusione, elaborando una tesi della tattica bolscevica, che si rivelerà essenziale nella rivoluzione di febbraio, nella rivoluzione d’Ottobre e, da ultimo, nella costruzione dello Stato socialista. Lenin aveva già insistito, nel celebre articolo Sulla parola d’ordine degli Stati uniti d’Europa scritto il 23 agosto del 1915, sul fatto che “d al punto di vista delle condizioni economiche dell’imperialismo…gli Stati Uniti d’Europa in regime capitalistico sarebbero impossibili o reazionari ”. Proseguiva poi rilevando che “l ’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo. Ne risulta che è possibile il trionfo del socialismo dapprima in alcuni paesi o anche in un solo paese capitalistico, preso separatamente. Il proletariato vittorioso di questo paese, espropriati i capitalisti e organizzata nel proprio paese la produzione socialista, si porrebbe contro il resto del mondo capitalistico, attirando a sé le classi oppresse degli altri paesi, infiammandole a insorgere contro i capitalisti, intervenendo. in caso di necessità, anche con la forza armata contro le classi sfruttatrici e i loro Stati. La forma politica della società nella quale il proletariato vince abbattendo la borghesia, sarà la repubblica democratica che centralizzerà sempre più la forza del proletariato di una nazione o di più nazioni nella lotta contro gli Stati non ancora passati al socialismo».
Nel settembre 1916 Lenin ribadirà con forza questa tesi essenziale: «Lo sviluppo del capitalismo avviene nei diversi paesi in modo estremamente ineguale. E non potrebbe essere diversamente in regime di produzione mercantile. Di qui l’inevitabile conclusione: il socialismo non può vincere simultaneamente in tutti i paesi. Esso vincerà dapprima in uno o in alcuni paesi, mentre gli altri resteranno, per un certo periodo, paesi borghesi o preborghesi». Ciò nondimeno, Lenin non nutriva alcun dubbio sul fatto che la rivoluzione proletaria, sia in Russia sia in qualsiasi altro paese, «può essere compresa solo come uno degli anelli della catena delle rivoluzioni proletarie socialiste provocate dalla guerra imperialista».
- Natura e funzione del populismo di sinistra
Nella tesi diciassette del documento vengono sottolineati, in polemica con quella che viene definita “un’ideologia neo-anarchica”, l’importanza politico-sociale e lo spessore storico di due dimensioni fondamentali e costitutive della società: lo Stato e la nazione.
“Lo scetticismo nei confronti della nazione va di pari passo con lo scetticismo nei confronti dello Stato… il concetto stesso di presa del potere è sparito dal suo [della suddetta ideologia neo-anarchica] orizzonte culturale. La logica del controllo subentra alla logica della conquista”, talché da siffatte premesse scaturisce “una sorta di democrazia dell’opinione che ha come protagonista un popolo che diffida ma non aspira a governare”. Un esito, questo, – si può aggiungere in sede di commento – che è perfettamente compatibile con quella ‘sovranità del consumatore’ in cui consiste uno dei cardini dell’ideologia neoliberista.
Sennonché la rivendicazione, in sé corretta, dell’importanza dello Stato viene ricondotta, nella tesi diciotto, alla classica ideologia revisionista di stampo bernsteiniano-kautskiano, secondo cui, come si legge in un passo rivelatore di tale tesi, coonestato mediante una generalizzazione arbitraria dell’assunto gramsciano delle classi subordinate che “si fanno Stato”, “il punto non è dunque abolire lo Stato in quanto ente distinto dalla società, bensì abolirne il carattere di classe”.
Orbene, sarebbe fatica sprecata confutare alla luce del marxismo rivoluzionario una posizione dichiaratamente opportunista e riformista, ma vanno nondimeno rilevati la confusione e l’eclettismo che caratterizzano, come accade anche in questo documento, le concezioni dei gruppi populisti di sinistra e i loro riferimenti politici e ideologici. In realtà, ciò che, in un certo senso, li ‘obbliga’ ad essere degli eclettici e dei confusionari è il limite invalicabile della loro critica ‘marxista’ e ‘di sinistra’, che si rivolge agli eccessi del neoliberismo per promuovere un capitalismo “democratizzato”: una critica che non sa e non vuole mettere in discussione la dittatura del capitale finanziario e la mobilitazione reazionaria delle masse che contraddistinguono l’attuale congiuntura politico-ideologica.
Non a caso un tratto distintivo dei populisti di sinistra è, proprio nei paesi imperialisti, la negazione del carattere imperialista del proprio paese (una posizione che, nonostante taluni accenti marxisteggianti riscontrabili nelle analisi contenute in questo documento, apparenta questa frazione dei populisti, tanto per fare un esempio storico significativo, al partito russo dei Cadetti, principale avversario borghese dei bolscevichi, la cui denominazione completa era quella di Partito Democratico Costituzionale, denominazione quanto mai affine a quella del più importante movimento odierno dei populisti di sinistra, che suona, per l’appunto, come “Patria e Costituzione”). Dal canto loro, i populisti di sinistra disgiungono nettamente la questione della fuoriuscita dalla UE dalla questione della rivoluzione socialista e disconoscono le responsabilità della propria borghesia nella determinazione del grave stato attuale in cui si trova il paese, attribuendo tutte le responsabilità alla cosiddetta ‘troika’, ossia alle altre borghesie imperialiste.
Per la verità, come si nota anche nel documento in parola, essi tendono ad escludere dalle ‘nazioni plutocratiche’ responsabili della situazione attuale del nostro paese gli Stati Uniti d’America e non spendono neppure una parola per denunciare, assieme alla UE, che ne è il braccio politico-finanziario, la NATO, che è invece il braccio politico-militare dell’imperialismo statunitense (si provi a cercare nelle ventidue tesi sul “momento populista” una opposizione chiara e netta, quindi non semplicemente implicita o interlineare, alla NATO: non la si troverà, per quanti sforzi si facciano nella lettura di questo testo, così come non si troverà in esso alcuna presa di distanza dall’attuale governo). Pertanto, chi indica come bersaglio da colpire la Germania della Merkel, oltre a sbagliare mira politica, fornisce all’arciere che tiene minacciosamente sotto tiro l’intero continente, cioè agli USA del sovranista Trump, il dardo con il quale può esercitare un dominio militare assoluto (solo in Italia 40 basi militari e 90 testate nucleari del tutto al di fuori di ogni controllo da parte del governo).
Sennonché, essendo incapaci di comprendere che la borghesia di ciascun paese aderente alla UE, anche se partecipa alla spartizione delle spoglie in proporzione al suo peso specifico e alla sua posizione nella piramide imperialista, è ugualmente responsabile delle politiche di rapina ai danni del lavoro e delle politiche di massacro dei servizi sociali a danno di tutta la popolazione, i populisti di sinistra (cui poco si addice, per tale ragione, l’appellativo di sovranisti) individuano il nemico principale sempre “fuori dal paese”. Essi, peraltro, non conducono (al di là di un uso analogico del marxismo) analisi di classe marxiste, ma interpretano le contraddizioni economiche esistenti in termini interclassisti e sociologici, scotomizzando o sottovalutando gli antagonismi di classe (come risulta in modo esplicito dalla tesi venti).
In definitiva, i populisti di sinistra avversano la rivoluzione e il socialismo, poiché la loro prospettiva (del tutto illusoria) è quella di una ‘terza via’ definita attraverso una sommatoria di elementi di destra (i valori) e di elementi sinistra (il progetto), la quale, come ha dimostrato a suo tempo Lukács, si risolve inevitabilmente, dal punto di vista ideologico, in una apologia indiretta del capitalismo e, dal punto di vista politico, in una politica di collaborazione con la borghesia, destinata a trasformarsi ben presto in subordinazione a questa classe. Particolarmente preziosa è poi, per gli interessi del grande capitale, la funzione decettiva che svolge il populismo di sinistra: funzione che consiste nel distogliere la classe operaia e le masse popolari dalla lotta organizzata contro il potere del capitale nelle sue diverse manifestazioni.
Qualcuno potrebbe obiettare che esistono differenti versioni del populismo (quella di destra, rappresentata per l’appunto dalla Lega e, in parte, dal M5S, e quella di sinistra, rappresentata, nella sua accezione più colta, dal gruppo politico-intellettuale che ha prodotto il documento in esame), e che vi sono, pertanto, fra di esse differenze sostanziali, che vanno tenute presenti. Rientrano in tali differenze gli stati d’animo che le diverse forme di populismo tendono a suscitare per mobilitare gli elettori: la xenofobia e il razzismo sono utilizzati dai populisti di destra; la promessa di un miglioramento delle condizioni di vita e l’appello alla solidarietà sono utilizzati (entro certi limiti, come si è visto in precedenza) dai populisti di sinistra. I primi si distinguono per il loro ruolo nefasto di imprenditori della paura, di promotori del rancore, di suscitatori dell’egoismo proprietario e dell’indifferenza sociale; i secondi parlano invece, quanto meno sul piano ideale, di “giustizia” e di “uguaglianza” (cfr. la tesi due del documento), di Stato sociale e di ridistribuzione secondo i bisogni (cfr., ad es., la tesi dodici), di “democrazia partecipativa” e “interessi delle classi subalterne” (cfr., ad es., le tesi cinque, dodici e ventidue). Orbene, in queste differenze si esprime il carattere ancipite della piccola borghesia: “ una nuova piccola borghesia, sospesa fra il proletariato e la borghesia, che torna sempre a formarsi da capo, in quanto è parte integrante della società borghese” (come si legge nel secondo paragrafo, dedicato alla critica del “socialismo piccolo-borghese”, sottospecie del “socialismo reazionario”, del terzo capitolo del Manifesto marx-engelsiano).
Una classe, dunque, che è, nel contempo, reazionaria e progressista, secondo quanto dettano gli interessi contingenti e la posizione rispetto al capitale. In questo senso, dal punto di vista metodologico è giusto considerare e analizzare i diversi aspetti del populismo senza fare di tutt’erba un fascio, ma sempre focalizzando il ruolo della piccola borghesia in quanto ‘classe-sostegno’ di un particolare blocco di potere in uno stadio determinato, cioè in quanto classe priva di autonomia ideale e strategica, che funge da stampella di una determinata forma dello Stato capitalistico. Casi tipici di queste ‘classi-sostegno’ sono, in base all’analisi marxista, i contadini parcellari nel quadro del bonapartismo, la piccola borghesia alla fine del primo periodo della repubblica parlamentare (1848-1849), il ‘Lumpenproletariat’ del bonapartismo, il ceto impiegatizio delle dittature fasciste o simil-fasciste (peronismo ecc.). Lo ‘status’ della piccola borghesia, quale si configura in determinate congiunture, spiega inoltre lo slittamento progressivo di tale classe dalla posizione di alleata del blocco di potere dominato dalla borghesia alla posizione di satellite (laddove tale slittamento dipende dalle modificazioni della forma di Stato e/o della forma di regime).
10. Concludere senza conchiudere: da Lattanzio a Gramsci
Che io confidi nell’indulgenza di Formenti se non discuterò le tesi che vanno dalla diciannove alla ventidue costituisce sicuramente una presunzione illegittima, dal momento che, come si sarà capito, dissento radicalmente da quasi tutti i contenuti espressi nel documento di cui egli è l’estensore, tanto che potrei dire che, eccettuati alcuni specifici aspetti su cui, se si esclude il contesto di riferimento, la distanza è minore, la punteggiatura è l’unica cosa presente nel suo documento su cui sono d’accordo. Ma vi è di più: un senso di saturazione e quindi di stanchezza come quello che, presumibilmente, avvertiva Lattanzio, scrittore cristiano vissuto fra il terzo e quarto secolo d. C., quando notava, nel corso del suo esame delle eresie, che non vi è bisogno di assaggiare tutta l’acqua del mare per appurare che è salata. Mi limiterò, dunque, per coerenza con il procedimento che ho seguìto finora nell’esame di questo documento, a riportare alcune proposizioni, a mio giudizio particolarmente significative, che compaiono nelle tesi, di natura prevalentemente politico-programmatica, che ne costituiscono la parte conclusiva.
Tesi diciannove: “La dicotomia secca fra socialismo e capitalismo pecca di eurocentrismo… non va dimenticato che la lotta di classe in certe circostanze assume forma geopolitica, e che il conflitto fra nazioni del centro e nazioni periferiche ha di per sé la natura di un conflitto di classe, per cui schierarsi dalla parte delle seconde è più importante che tracciare un confine astratto fra rivoluzione nazional-democratica e rivoluzione socialista. Che poi la rivoluzione nazional-democratica possa evolvere in rivoluzione socialista dipende da fattori economici, sociali, geopolitici in larga misura contingenti e imprevedibili”.
Tesi venti: “È da un secolo abbondante che il proletariato occidentale non vuole fare la rivoluzione, ma preferisce seguire le forze politiche che gli promettono miglioramenti graduali…le solidarietà politico-sociali devono essere costruite su basi geografiche (ma non etniche!)…Si tratta di programmi che cercano il sostegno di blocchi sociali maggioritari e trasversali e che, qualche decennio fa, sarebbero stati definiti socialdemocratici”.
Tesi ventuno: “una rivoluzione nazional-popolare che si ponga l’obiettivo di conquistare il potere per avviare il processo costituente di un regime politico democratico”.
Tesi ventidue: “Le istituzioni popolari di democrazia diretta e partecipativa devono essere esterne a quelle della democrazia rappresentativa e agli organi statali, devono potersi contrapporre alle loro decisioni, devono cioè essere in grado di esercitare il conflitto nei confronti dello Stato e tale diritto dev’essere sancito costituzionalmente”.
Concludo dunque senza conchiudere, rammentando che il marxismo, il quale è costituito dal materialismo dialettico e storico, dalla critica dell’economia politica e dal socialismo scientifico, è una concezione “totalitaria” del mondo, proprio nel senso espresso da Gramsci: «L’ortodossia non deve essere ricercata in questo o quello dei discepoli di Marx, in quella o questa tendenza legata a correnti estranee al marxismo, ma nel concetto che il marxismo basta a se stesso, contiene in sé tutti gli elementi fondamentali, non solo per costruire una totale concezione del mondo, una totale filosofia, ma per vivificare una totale organizzazione pratica della società, cioè per diventare una integrale, totale civiltà. […] Una teoria è rivoluzionaria in quanto è appunto elemento di separazione completa in due campi, in quanto è vertice inaccessibile agli avversari. Ritenere che il materialismo storico non sia una struttura di pensiero completamente autonoma significa in realtà non avere completamente tagliato i legami col vecchio mondo» (A. Gramsci, Quaderni del carcere, ed. critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1977², Q. 4, 14, p. 435).
E invero l’autonomia teoretica e il metodo della critica immanente nella battaglia delle idee contro il pensiero borghese e piccolo-borghese, revisionista riformista e ora populista, costituiscono nel marxismo quell’unità degli opposti in cui consiste la sua dirompente forza dialettica.
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