Per una pedagogia della migrazione
di ALESSANDRO GILIOLI
Non so se usa ancora – spero di sì – ma quando eravamo ragazzi noi a scuola c’era una diffusa attenzione dei docenti per rendere la nostra generazione consapevole di ciò che era stato l’Olocausto. Non solo letture – Primo Levi e dintorni – ma anche film proiettati in aula magna, visite a mostre sul tema, qualche volta perfino gite di classe nei luoghi della memoria – tipo la Risiera di San Sabba.
Non credo di bestemmiare né di offendere le vittime dell’Olocausto se oggi dico che bisognerebbe iniziare a fare qualcosa di simile anche sulla questione dell’immigrazione: sulle condizioni di vita e poi di viaggio, spesso di morte, che affrontano gli esseri umani che poi vediamo qui, nelle nostre città.
Sì, perché io non ci credo tanto a questa cosa del razzismo come conseguenza inevitabile delle migrazioni. Anzi: non credo nemmeno che siano tutti intrinsecamente razzisti gli elettori di Le Pen e Salvini. Qualcuno ce ne sarà, certo, ma credo che alla base dell’avversione nei confronti degli immigrati ci siano soprattutto due cause.
Una è la riduzione del welfare, la privatizzazione della società e l’aumento delle povertà: riducendo sempre di più l’acqua nell’acquario, si ottiene che i pesci iniziano a combattere tra loro, per sopravvivere. Fuori di metafora, peggiorando sempre di più le condizioni delle classi povere, si ottiene l’odio reciproco tra persone che stanno nella parte più bassa della piramide sociale. Di questa cosa ho scritto diverse volte, in questo spazio, quindi qui non ci ritorno.
La seconda causa forte è l’assenza di consapevolezza, fin da ragazzi, della realtà che nella grande maggioranza dei casi hanno vissuto e vivono le persone che poi, arrivate qui, viviamo come competitori nella caccia agli ultimi brandelli di welfare residui.
Non credo che ci sia reale consapevolezza di cosa vuol dire vivere come hanno vissuto quasi tutte le persone che tentano di venire in Europa: sia i profughi di guerra, sia i cosiddetti migranti economici, che poi vuol dire quasi sempre gente che viveva in una baracca tra le capre, con il pavimento fatto da un cellophane nero sul fango, un tetto di lamiera, il terrore di una siccità e di una carestia che ogni due o tre anni irrimediabilmente arrivano, e se muore la capra non c’è più nulla per andare avanti.
Non credo che ci sia reale consapevolezza nemmeno di cosa vuol dire viaggiare due o tre anni a piedi fino al confine libico e lì venire caricati in 25-30 dentro un Toyota Corolla, trasportati come bestie, da gente armata fino ai denti; e a ciascuno, in quel tratto, viene data solo una bottiglietta d’acqua da 25 cl al giorno, a cui i broker prima aggiungono qualche goccia di benzina per suscitare disgusto, così la si beve a sorsi piccoli e non viene consumata subito; e la notte, tutti a dormire sulla sabbia con un mitra puntato, almeno finché non si arriva alla prima base dei trafficanti, dove si può restare anche mesi finché da casa qualcuno non manda gli ultimi soldi con MoneyGram.
Non credo che ci sia reale consapevolezza del perché le donne spesso arrivano in Italia incinte al nono mese o con neonati: a noi sembra un controsenso che ragazze in quelle condizioni affrontino un percorso così pericoloso, ma quelle invece partono proprio quando sono incinte perché questo è l’unico tabù ancora rispettato dalle bande, le altre vengono tutte violentate nel percorso, e non una volta sola.
Non credo che ci sia reale consapevolezza del fatto che se arrivati in Libia sono finiti i soldi si finisce per anni schiavi di bande e il tuo corpo diventa merce da rivendere sul mercato del sesso – sì, anche se sei bambino, soprattutto se sei bambino – oppure da espiantare per il mercato degli organi.
Non credo che si sia reale consapevolezza che il Mediterraneo – quello stesso mare in cui sguazziamo felici ogni agosto con i nostri bambini – è un immenso cimitero in cui affogano cinquemila persone l’anno, cinquemila vite di uomini, donne e bambini ingoiate per sempre nel silenzio, ogni anno.
Ecco, io credo che l’essere umano abbia delle grandi potenzialità di empatia. E che si debba metterlo in condizione di svilupparla, questa empatia. Se si fa capire e sentire a ciascuno di noi l’immensità della sofferenza. Se si fa vivere a ciascuno di noi – dentro ciascuno di noi – cos’è tutto questo, dagli slum di Mogadiscio al porto di Lomé, dall’odissea fino a Misurata ai barconi che affrontano il mare con il timone inchiodato verso nord, nelle mani del destino.
Io credo che se fin da ragazzi vivessimo anche solo per un giorno quelle vite, se sentissimo anche solo per un giorno quella sofferenza e quel terrore, alcune cose cambierebbero.
Ad esempio, nel giro di una generazione al massimo sparirebbe per sempre dal vocabolario di chiunque, per decenza e per vergogna, la schifosa parola buonista.
fonte: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2017/01/15/per-una-pedagogia-della-migrazione/
Commenti recenti