Nessuna svolta nel PSE. Il ‘blairismo’ ha ucciso la socialdemocrazia (2a parte).
di MICRO MEGA
Qual è stato il prezzo pagato dalla riconversione della sinistra riformista al programma del modello neoliberale? Tutti gli indici economici, dall’aumento della disoccupazione in tutta Europa all’ampliamento della forbice della ricchezza all’interno degli stessi Paesi, raccontano un continente in crisi di identità. La perdita del lavoro come elemento di identità e di realizzazione personale, i tagli al welfare e all’istruzione pubblica, la dismissione del ruolo pubblico in importanti settori dell’economia: venti anni di queste politiche spacciate per riforme hanno peggiorato le condizioni di vita di gran parte della popolazione. La fiducia nella politica e nei partiti è la più bassa di sempre.
La mancanza reale di alternatività fra centrodestra e centrosinistra da una parte ha causato un fenomeno esteso di disinteresse (se non di disgusto) nei confronti delle istituzioni. I dati dell’astensionismo sono lì a dimostrarlo. E dall’altra parte, di risposta, l’emergere di pulsioni nazionaliste e nei fatti allergiche alla democrazia e ai suoi processi (considerati lenti e inefficaci: un ingombro) stanno riportando l’Europa ad un passato cupo, fatto della ricerca di uomini forti e metodi spicci. La parola “sinistra” ha così perso ogni connotato valoriale, etico, politico nella società, diventando anzi una parola scomoda perché falsa, ipocrita, incoerente, contraddittoria, capace di predicare bene e razzolare male.
L’economia ha imposto alla democrazia il dogma della “velocità” e della “vittoria”, quest’ultima intesa come supremazia nella disputa elettorale, rappresentata come una grande arena dove il politico con più appeal affronta e vince la battaglia contro un altro. Simili nelle idee e nei programmi, ma magari con un abito differente e con un’acconciatura più o meno sbarazzina. Della religione moderna della “velocità” sono figlie lo strapotere delle decretazioni d’urgenza in Parlamento, un Parlamento sempre più svuotato delle proprie funzioni e succube dell’esecutivo; e della “vittoria” l’impostazione bipolare del sistema politico e la variante maggioritaria in termini elettorali. A scapito, naturalmente, della democrazia e della rappresentanza. A scapito della possibilità di immaginare e offrire opzioni politiche in controtendenza, eretiche, ma comunque vitali e necessarie per rispondere dal basso al volere dei difensori dello status quo.
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Dal blairismo in poi conservatori e socialisti sono andati a braccetto, a volte con le parole ma ancor più spesso nei fatti. Lo stesso Martin Schulz, ex presidente del Parlamento Europeo, era stato nominato con il placet del Ppe. Una simbiosi che non è sfuggita agli elettori che, in qualche Paese, hanno punito severamente il tradimento dalle ragioni della sinistra; come è avvenuto in Grecia dove il Pasok è stato del tutto polverizzato dalla sinistra radicale di Syriza. I socialisti greci, negli anni dei memorandum imposti dalla Troika, sono passati dal quasi 40 per cento al 5. Un disastro prevedibile nel momento in cui i socialisti non hanno rappresentato più una reale alternativa agli occhi degli elettori piegati dall’ingiustizia sociale e stritolati dalla crisi economica. Adesso è forte il rischio di “pasokizzazione” del Psoe in Spagna, dove la neo-sinistra radicale Podemos ha ormai il monopolio dell’opposizione al governo conservatore.
Un elemento di somiglianza tra i socialisti spagnoli e greci è anche l’argomento secondo il quale i politici “responsabili” abbiano il dovere patriottico di fare tutto ciò che è necessario per evitare il perdurare di governi provvisori. La stabilità come valore universale. Il complesso gioco della democrazia sacrificato sull’altare – anche qui – dei mercati, raccontati come “nervosi” dai media ogni qual volta la solidità dello status quo viene messa anche solo lontanamente in discussione. Il partito socialista spagnolo del 2016 ha affermato gli stessi principi dei colleghi greci nel 2011: che il proprio Paese «non poteva permettersi un’altra elezione» e ulteriori ritardi nella formazione di un governo “adeguato” in grado di prendere decisioni chiave in materia di budget, rispondendo alle “riforme” ispirate dalla Troika; e poco importa se si è trattato di un governo che i cittadini non hanno votato.
A parte due anomalie europee – in Portogallo i socialisti di António Costa hanno scelto di governare con i due partiti della sinistra più radicale e in Gran Bretagna Jeremy Corbyn prova, con mezzo partito contro, a far svoltare a sinistra il Labour Party – il Psoe ha seguito la consueta linea politica, scegliendo di appoggiare un Pp, travolto tra l’altro da clamorosi scandali di corruzione.
Dopo l’elezione del nuovo presidente dell’europarlamento Antonio Tajani, che ha sconfitto il socialista italiano Gianni Pittella (Pd) 351 voti a 282 nel ballottaggio, quest’ultimo adesso parla di “nuova fase” per la socialdemocrazie europea: “Ora inizia il tempo della rottamazione del Fiscal Compact” ha dichiarato ai media.
In realtà anche nella Francia governata dal Partito socialista di Francois Hollande e Manuel Valls il dibattito interno alla socialdemocrazia sta portando con sé delle evoluzioni figlie del contrasto tra un’anima “liberista” e un’altra che cerca di tornare agli antichi (eppure moderni) valori. I cinque anni di Hollande si sono rivelati fallimentari: il presidente della Repubblica era stato eletto promettendo una sterzata a sinistra sia sul fronte interno che su quello europeo, poi la realtà è stata ben diversa. L’ultimo atto dello scontro è stata la contestata riforma del lavoro, con mesi di caldissime manifestazioni di piazza contro il piano di flessibilità proposto dall’esecutivo. Ancora una volta, insomma, con la sinistra che sacrifica sull’altare della modernità e delle esigenze dell’impresa i diritti di chi – in teoria – avrebbe dovuto invece rappresentare.
Le primarie interne per la candidatura all’Eliseo hanno visto la sinistra interna prevalere su Valls. Il candidato arrivato primo a dispetto dei pronostici è Benoit Hamon, che si dimise dal governo nel 2014, protestando contro la virata “a destra” del Ps. La sua campagna è stata incentrata tutta su temi sociali: il reddito universale, la tassazione dei robot che tolgono posto di lavoro in fabbrica, referendum di iniziativa popolare e orario di lavoro a 32 ore settimana. Oltre ovviamente a un no netto all’austerità europea, tutta concentrata sui vincoli di bilancio e non sulle esigenze della società in sé.
Qualcosa si muove, quindi, ma dopo aver sostenuto per anni le politiche sul rigore economico, come il Fiscal Compact, come poter passare dalle parole ai fatti? Le radici del mutamento socialdemocratico, come abbiamo visto, appiaono più profonde e sembra prematuro parlare ora di “nuova fase”.
Blair ha rifondato il partito sia dal punto di vista organizzativo che ideologico e in Italia è stato preso come un modello prima da Massimo D’Alema poi da Walter Veltroni e infine da Matteo Renzi. In un’intervista alla Stampa del 22 aprile 2016, lo stesso Renzi dichiarava dopo un incontro con l’ex premier inglese: «Blair è stato una pietra miliare per la sinistra europea. Le critiche sul suo operato che sono venute dopo non possono cancellare il fatto che è un punto di riferimento straordinario. Adoro una sua frase: “Amo tutte le tradizioni del mio partito, tranne una: quella di perdere le elezioni”. Lo ammiro, è un modello per me anche perché non ha avuto paura di sfidare i suoi capi». Finché non si farà autocritica con questa idea di “sinistra moderna” che poi va ad equivalersi con la destra liberista, difficilmente il Pse potrà rompere con l’establishment vigente e rappresentare un voto di rottura.
Pablo Iglesias, leader di Podemos, lo va ripetendo in Spagna: «Avere un programma, nei tempi dell’austerity, è un atto rivoluzionario». Nell’era delle diseguaglianze globali – e dello scontro tra élite vs popolo – il Pse ha scelto di stare dalla parte del sistema. Ogni forma di ripensamento è una buona notizia ma senza una capillare critica al blairismo non sarà mai possibile né credibile un cambio di rotta.
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