Basta parlare di Pmi. Sono le medie imprese la forza del sistema Italia
di ECONOPOLY (Beniamino Piccone)
In Italia si fa un’enorme confusione, si parla di Piccole e Medie Imprese, le famigerate PMI, quando si dovrebbe correttamente distinguere tra le Medie Imprese (MI) – colonna portante del sistema Italia – e le Piccole Imprese (PI), che spesso non sono imprese, nel senso di persone organizzate al fine di fornire un prodotto/servizio alla clientela, bensì moglie e marito al bar che preparano i caffè. Milioni di sedicenti imprese con meno di 2 dipendenti sono da definire in modo diverso. Altrimenti non andiamo da nessuna parte.
Urge concentrare l’attenzione sulle medie imprese. Paolo Bricco – sulle pagine del Sole 24 Ore, in “Banca-Impresa una partnership da rifondare” – ha scritto con saggezza: “Le medie imprese (studiate per lungo tempo da Mediobanca grazie alla dedizione di Fulvio Coltorti, ndr) sono il punto di forza per i risultati concreti conseguiti e per l’aver definito un nuovo paradigma del capitalismo italiano, che con la ritirata delle famiglie storiche e con la liquefazione dell’economia pubblica di matrice Iri dall’inizio degli anni Novanta ha contribuito a dare stabilità manifatturiera e sociale, tecnologica e di cultura industriale al nostro Paese”.
Se sono poche le MI che riescono a diventare grandi, nondimeno il sistema delle medie imprese tra i 50 e i 499 dipendenti ha tenuto. Nel 2008 erano 4mila con 593mila dipendenti. Nel 2014 sono scese a 3.283 con 475mila occupati. Bricco – storico di vaglia, si segnala il suo ottimo “L’Olivetti dell’Ingegnere, 1978-1996, il Mulino, 2014” – rileva come il fatturato medio sia passato da 43,9 milioni a 46,2 e come le MI abbiamo modificato il loro profilo di internazionalizzazione: “Meno Europa. Più continente americano e più Asia”, dove la ripresa è stata più forte. Le MI hanno investito con lungimiranza, trascurando la Vecchia Europa, in drammatico declino demografico.
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Qualche giorno fa è scomparso uno dei maggiori economisti d’impresa italiani, Giacomo Becattini, che ha studiato per lungo tempo il sistema capitalistico italiano e in particolare le medie imprese. Vale la pena citarlo, come ha fatto Coltorti: “Si fa un gran discutere, oggi in Italia, sul capitalismo delle imprese medie, molte delle quali hanno capitalizzato l’esperienza culturale dei distretti industriali, in cui molte di esse sono nate e cresciute. Il fatto che esse si trovino giusto nell’area del passaggio dall’impresa progetto [di vita] all’impresa nucleolo [di capitale finanziario], le mette in condizione, se decifrano correttamente la loro posizione, di godere dei vantaggi di ambo le forme aziendali” (Giacomo Becattini, Aprile 2010).
Se nel 1991 la grande impresa (241 con oltre 1.000 addetti ciascuna) dava lavoro a 780mila persone, dopo venti anni le grandi sono solo 176 con 430mila occupati. La strada obbligata è favorire le medie imprese a diventare grandi. Concentriamoci su questo fronte.
Anche le considerazioni di Giuseppe Berta nel suo ultimo “Che fine ha fatto il capitalismo italiano” (il Mulino, 2016) vanno in questa direzione: “L’Italia può risalire ma deve inventarsi un nuovo modello dopo il tramonto della grande impresa”.
Emerge la necessità di recuperare un nuovo modello per l’Italia prendendo atto che quello della grande impresa, così caro ai big di una stagione tutto sommato breve ed ormai esaurita (da Guido Carli, all’Avvocato Agnelli ed oltre) ha ormai ceduto il passo all’altra Italia, già gradita a Luigi Einaudi, che tanto amava quell’Italia “fatta di terra, contadini e sudore” che oggi si ripresenta nelle vesti di un’economia intermedia e “che ha bisogno di cornici ed infrastrutture da costruire da zero, a partire dalle piattaforme digitali”.
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