Trump il keynesiano
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Riccardo Antonucci)
Se prima, ad essere oggetto delle discussioni dell’opinione pubblica, erano le dichiarazioni sui generis del tycoon, ora lo sono i decreti presidenziali che il tycoon si è affrettato a firmare nei sui primi giorni di presidenza.
L’opposizione a cui va incontro il presidente non sembra essere un problema: il 20 gennaio, cinque giorni dopo il suo insediamento, Trump rilasciò un’intervista alla ABC News in cui affermava che il progetto del muro avrebbe visto la luce nei prossimi mesi, ribadendo che esso verrà realizzato «non appena saremo fisicamente in grado di farlo», mentre la sua pianificazione «inizia immediatamente».
Il mercoledì successivo all’intervista, il responsabile per i rapporti con la stampa della Casa Bianca Sean Spicer ha preannunciato che Trump avrebbe preso in considerazione due ordini esecutivi sulla sicurezza dei confini, compreso uno riguardante la costruzione di «una grande barriera fisica sul confine meridionale», comprendendo anche strumenti per agevolare le agenzie nel loro compito di contrasto all’immigrazione clandestina. In particolare, il Governo punterebbe a porre fine alla tradizionale politica del catch and release, con cui si indica in termini non ufficiali una linea di condotta adoperata dalle agenzie per l’immigrazione statunitensi – in particolare dallo US Immigration and Customs Enforcement e dallo US Customs and Border Protection –, che consiste nel rilascio, successivo alla cattura, dei sospettati di immigrazione clandestina nell’attesa dell’udienza da parte del giudice. La pratica è ufficialmente terminata nel 2006, sotto la presidenza di George W. Bush, per essere sostituita con il catch and return – arresto e successivo rimpatrio immediato senza periodo di detenzione – o catch and detain – arresto e detenzione, più raro –. Tuttavia, alcuni atti compiuti sotto la presidenza di Barack Obama sono stati criticati come forme di catch and release da parte di chi richiedeva una linea più dura sulla questione.
A queste obiezioni sembra voler compiacere la proposta di Donald Trump di sostituire il rilascio o l’espulsione con l’incarcerazione successiva al processo, prevedendo anche la realizzazione di nuovi centri di detenzione per gli immigrati clandestini. Spicer riporta che la misura voglia dare priorità agli irregolari coinvolti in ulteriori crimini, oltre che costringere i Governi stranieri a riprendersi i propri cittadini. Una seconda misura prevedrebbe l’accertamento del rimpatrio di quegli individui privi di VISA che violano la legge statunitense, includendo anche restrizioni per le cosiddette “città santuario” – ossia quelle comunità che si rifiutano di implementare la legge sull’immigrazione –. Nonostante la questione sia estremamente ampia e complessa, il dibattito pubblico è naturalmente portato a focalizzarsi in maniera esclusiva sul muro con il Messico, il quale rappresenta un punto focale ma non omnicomprensivo. Visto che comunque riscuote l’attenzione dell’opinione pubblica, è necessario fare un po’ di chiarezza a cominciare dai numeri: attualmente sono già presenti 650 miglia di mura, steccati ed altre forme di barriere lungo le 2000 miglia del confine meridionale; i primi progetti di costruzione vennero intrapresi dal presidente democratico Bill Clinton nel 1994 – ma questo sembrano ricordarlo in pochi –; stime indipendenti parlano di un costo fra i 15 e i 25 miliardi di dollari per il completamento della barriera.
Il coinvolgimento del Congresso è inevitabile, dal momento che occorrerà la sua approvazione per lo sblocco di ulteriori fondi federali volti alla realizzazione del progetto. La proposta di Trump, tuttavia, è ben differente: imporre una tassa del 20% sui prodotti di importazione messicana, così da reintegrare i costi sostenuti dallo Stato americano – si ipotizza un introito di 10 miliardi di dollari –. Come affermato da Sean Spicer il 26 gennaio, però, si tratta solamente di una proposta, una delle possibili soluzioni al problema – affermazione che sembrerebbe essere più un tentativo di calmare gli animi –. Così ha ribadito Spicer nell’Executive Office Building:
«In questo momento il nostro compito non è escludere qualcosa o essere vincolanti. È mostrare che ci siano modi in cui il muro possa essere pagato. Punto. Fine»
L’eventualità più probabile è che questa misura venga inserita in una più ampia riforma fiscale elaborato con il sostegno dei congressisti repubblicani, assicurando maggior sostegno all’eventuale scelta protezionista. Si tratterebbe, tuttavia, di una manovra che avrebbe effetti più ampi del semplice inasprimento dei rapporti fra i due Paesi: a trarne beneficio potrebbero essere gli esportatori, come le compagnie aerospaziali con sede negli USA, ma danneggiare i distributori che vendono nel territorio americano, aumentando il costo che i consumatori dovranno sostenere. A ridursi potrebbero anche essere le importazioni provenienti negli Stati Uniti, riducendo gli introiti ottenuti tramite le tasse.
Lo stesso Trump, in una successiva intervista concessa al Wall Street Journal, ha definito come eccessivamente complicata la proposta della tassa, che sembrerebbe essere destinata a precipitare nel limbo prima che venga proposta la riforma fiscale.
Insomma, è difficile che la manovra, nata anche come reazione alla dichiarazione del presidente messicano Enrique Peña di non essere disposto a pagare per un progetto «contrario alla nostra dignità», divenga una realtà, ma il peso ideologico che esso assume all’interno della strategia di Governo è difficilmente equivocabile: Trump ha chiaramente intenzione di trasvalutare la tradizione reaganiana radicata nel GOP, basata sul mantra «Il Governo È il problema!», proponendo una nuova forma di interventismo economico muscolare e fondato sui concetti di confine e sicurezza. Le chiavi di questa peculiare forma di economia keynesiana sono, da un lato, il muro con il Messico e, dall’altro, i piani di accrescimento della spesa militare annunciati da Donald Trump: il 27 gennaio Politico parla di un primo passo verso un costoso rinnovamento delle forze armate, andando a modificare la precedente politica di snellimento dell’apparato e di vincolo dei costi, sottoponendo la spesa all’approvazione del Congresso. Il congelamento delle assunzioni nell’amministrazione federale, firmato il 23 gennaio, non deve trarre in inganno: il limite esclude chiaramente le forze armate, settore su cui il presidente sembra chiaramente intenzionato a puntare per stimolare l’economia nazionale. A confermare quest’intenzione è il memorandum esecutivo che Donald Trump ha firmato durante la sua prima visita al Pentagono, promettendo di investire in un esercito più grande e di procedere per la modernizzazione dell’arsenale atomico. In particolare, ha dichiarato di voler
«Sviluppare un piano per nuovi aerei, nuove navi, nuove risorse e nuovi strumenti per i nostri uomini e le nostre donne in uniforme – e ne sono molto orgoglioso»
Il distacco dall’amministrazione Obama è fra i risultati più ambiti e deve essere inserito fra le motivazioni che hanno portato alla firma dei decreti relativi all’immigrazione ed alla sicurezza nazionale. Secondo Mackenzie Eaglen, analista per l’American Enterprise Institute citato da Politico, «Non c’è dubbio che stia tentando di intraprendere una nuova direzione», passo che tuttavia richiederà l’approvazione del Congresso, per quanto il Pentagono potrà disporre di un’influenza notevole nel processo. Secondo l’ex colonnello Joseph Collins, insegnante di strategia della sicurezza nazionale alla Pentagon’s National Defense University:
«Ciò richiede l’approvazione del Congresso, ma il Congresso non si opporrà al miglioramento della prontezza delle forze armate. Il Congresso supporterà senza dubbio molte delle misure che sono fra i desideri del Pentagono»
La strategia apparentemente isolazionista che Trump sembra intenzionato a voler perseguire in politica estera fa presagire un rinnovato utilizzo della forza militare nelle questioni di confine, andando a collegarsi al programma di rafforzamento delle difese del confine messicano. L’obiettivo potrebbe esser quello di creare un’autentica sub-economia legata al muro, il quale comporterebbe, oltre agli investimenti per la realizzazione fisica della struttura, anche la costruzione di nuovi centri di detenzione, l’assunzione di personale per la vigilanza, la manutenzione dei centri ed altre spese collegate. Oltretutto, gli effetti del muro si estendono anche all’economia messicana: il peso messicano sta subendo un forte abbassamento del proprio valore rispetto al dollaro, registrando un cambio di 21,3 pesos per 1 dollaro. A partire dall’elezione di Trump, l’8 novembre, il peso ha già registrato un crollo del 16%. La spinta negativa del peso messicano si inserisce all’interno del quadro economico che vede Trump intenzionato a ridiscutere i termini del NAFTA, firmato nel 1994: la riduzione del valore della moneta nazionale messicana mina ulteriormente del capacità di negoziazione del Paese, dipendente dagli Stati Uniti per l’80% delle sue esportazioni. È difficile, dunque, che il Messico possa opporsi alla volontà degli USA di rivedere l’accordo commerciale, specialmente qualora la costruzione del muro riuscisse a provocare conseguenze dannose per il loro sistema economico.
Gli scenari futuri sono difficilmente prevedibili, soprattutto per quanto riguarda il costo dell’opera e del programma relativo alle forze armate. Ad ogni modo, si può già immaginare che un accrescimento delle spese del Pentagono richiederà tempo: prima di tutto, è necessario modificare il Budget Control Act del 2011, il quale prevede limiti di spesa rigidi, oppure accrescere il budget di guerra, non soggetto ai limiti di spesa. Inoltre, ogni spesa extra dovrebbe essere accettata dai senatori democratici, in quanto sono richiesti 60 voti – su 100 –, i quali costituiscono il maggiore interrogativo assieme alla componente più conservatrice del GOP avversa all’aumento di spesa pubblica – soprattutto attraverso l’espediente del budget separato –.L’esperimento keynesiano di Donald Trump, dunque, avrà possibilità di venire alla luce solo se il presidente sarà capace di intraprendere una sfida importante all’interno del proprio partito e delle istituzioni. Sfida a cui, come ricorda il professor Gianluca Pastori per ISPI, ancora non si è effettivamente sottoposto.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/esteri-3/trump-il-keynesiano/
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