Lavorare senza diritti: dal voucher al caporalato
di SINISTRAINRETE (Collettivo Clash City Workers)
Ormai da mesi, ogni settimana i titoli dei giornali riportano, più o meno allarmati, notizie e dati sul dilagante utilizzo dei vouchernell’economia italiana. Da ultimo, a far parlare del tema è stata la notizia dell’approvazione, l’11 gennaio, da parte della Corte Costituzionale, di un referendum proposto dalla Cgil che intende abrogare lo strumento dei voucher (approvazione, va ricordato, parallela all’accettazione di un secondo quesito, relativo agli appalti nella pubblica amministrazione, e alla negazione di un terzo, che verteva sull’articolo 18 – e quest’ultima decisione ha suscitato non poche perplessità, sul piano giuridico prima ancora che su quello politico [1]).
L’origine dei voucher è nella legge Biagi che ne prevedeva limitazioni temporali ed economiche e parametri di occasionalità e soggetti coinvolti: la loro natura è cambiata con la legge Fornero e poi il Jobs Act
Ora, per capire effettivamente di cosa stiamo parlando, conviene guar-dare alla storia di questo recente protagonista del mercato del lavoro del nostro Paese.
La sua origine va rintracciata nella legge Biagi, che nel 2003 introdusse da un punto di vista legislativo la nozione di lavoro accessorio, intendendo con questo concetto le “attività lavorative di natura meramente occasionale rese da soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mercato del lavoro, ovvero in procinto di uscirne”, e introducendo i voucher (buoni-lavoro) come modalità di pagamento specifica a esso legata.
A quest’altezza, dunque, l’accessorietà era data da due parametri: l’occasionalità delle prestazioni lavorative, e la specificità dei soggetti coinvolti (di qui l’iniziale scelta del legislatore di limitarne la fruizione ai soli disoccupati da oltre un anno, alle casalinghe, agli studenti e ai pensionati, ai disabili e soggetti in comunità di recupero, ai lavoratori extracomunitari, regolarmente presenti in Italia, nei sei mesi successivi alla perdita del lavoro). In più, per evitare l’utilizzo sistematico di tale strumento, il decreto del 2003 prevedeva due limitazioni: una temporale, per cui le prestazioni di lavoro accessorio dovevano essere contenute entro le 30 giornate nei confini di un anno solare; una economica, per cui il compenso percepito non poteva superare i 3.000 euro netti ad anno solare. Proprio questi due parametri verranno progressivamente meno nel corso degli interventi legislativi successivi (per esempio, il limite delle 30 giornate sarà eliminato già nel 2005). L’intento dichiarato nella legge era quello di far emergere e formalizzare quella parte di economia sommersa (lavoro nero) dal carattere tendenzialmente domestico – o comunque inserita entro contesti di forte prossimità sociale (2) – e i cui protagonisti fossero soggetti periferici del mercato del lavoro. In questo senso, il D.lgs 276/2003 può essere inserito in un più ampio contesto europeo, che vede nel cor-so del primo decennio numerosi tentativi di sviluppare politiche di contrasto al lavoro sommerso e al lavoro domestico: in Francia, Belgio, Grecia, Austria vengono introdotti strumenti analoghi ai voucher (3). Tuttavia, se già fin dall’inizio a risaltare sono più le differenze che le somiglianze, nel corso del decennio successivo alla loro introduzione i voucher diventano qualcosa di profondamente diverso rispetto tanto all’intento iniziale per cui erano stati pensati quanto ai loro omologhi europei.
Uno studio dell’Inps afferma che più di emersione del lavoro nero si può parlare di “una regolarizzazione minuscola (parzialissima) in grado di occultare la parte più consistente di attività in nero”
Questo processo avanza a piccoli passi: il sistema dei buoni lavoro diviene operativo solo nel 2008 con decreto del 12 marzo del Ministero del lavoro e della previdenza sociale, si susseguono diverse piccole modifiche inserite anche in contesti che ne rendono difficile l’individuazione (per esempio, nel cosiddetto Decreto semplificazione, la legge 133/2008), fino a culminare nella legge Fornero, con la quale scompaiono completamente le limitazioni date dalla specificità dei soggetti coinvolti nell’utilizzo dei voucher. Rimane unicamente, come limite, quello economico, innalzato però a 5.000 euro netti ad anno solare – si noti come questo limite agisca unicamente dal lato del lavoratore, e non del datore di lavoro (che quindi non vede limiti nella sua possibilità di utilizzare voucher). Nel 2012, dunque, la Fornero con una mano liberalizza pressoché completamente i voucher come modalità di pagamento di una qualsivoglia prestazione lavorativa, ma con l’altra fa qualcosa di non meno rilevante: opera una stretta nei confronti di altre tipologie contrattuali, come i contratti a progetto e intermittenti. Se quest’ultimo cambiamento viene sbandierato come la soluzione di un problema che si stava trascinando da tempo, le imprese, di fronte alle difficoltà sorte nell’impiego di questi strumenti, si trovano spalancate le verdi praterie dei voucher, e non esitano ad approfittarne. Non a caso, il boom del loro utilizzo comincia a farsi registrare proprio dal 2012/13.
L’ultimo passo in questa direzione è compiuto dal Jobs Act, che nel 2015 porta a 7.000 euro netti annui (ma su anno civile e non più solare) il tetto massimo di compenso ricevibile da un lavoratore, e contemporaneamente stringe ancora sull’utilizzo di altre forme contrattuali (per esempio, l’eliminazione quasi completa dei Co.Co.Pro.). Il Jobs Act agisce anche su alcuni aspetti che negli anni precedenti erano risultati controversi, tra le altre cose vietando l’utilizzo dei voucher negli appalti, ma nel complesso non fa altro che approfondire il solco tracciato dalle liberalizzazioni precedenti, sancendo la trasformazione del voucher da ipotetico strumento di emersione del lavoro nero e di integrazione di soggetti marginali nel mercato del lavoro a effettiva modalità di pagamento universale; portandoci così dritti dritti agli oltre 133 milioni di voucher venduti nel 2016, rispetto ai 115 milioni dell’anno precedente e ai 69 del 2014 (4).
Consideriamo, ora, che cos’è un voucher: si tratta di un buono dal valore lordo di 10,00 euro e netto di 7,50 euro. I 2,50 euro di trattenuta, corrispondenti al 25% del totale, sono ripartiti tra quota assicurativa Inail (0,70 euro, pari al 7%), versamento dei contributi nella gestione separata Inps, che vengono accreditati sulla posizione individuale contributiva del prestatore (1,30 euro, 13%) e spese di gestione dell’Inps, che eroga il buono (0,50 euro, 5%). Esistono anche buoni del valore di 20,00 e 50,00 euro, a cui si applicano le stesse proporzioni, ma il loro uso è estremamente poco diffuso.
Per il datore di lavoro è vantaggioso: 13% di contributi a fronte del 29% previsto per il lavoro subordinato e del 23,72% per il lavoro a progetto e le collaborazioni occasionali
Emergono subito alcuni dati interessanti: di fat-to, con i voucher viene introdotto una sorta di salario orario minimo. Se la normativa non lo indica espressamente, essa qualifica però i buoni come orari, sottintendendo che a un’ora di lavoro deve corrispondere almeno un voucher. Se possiamo dunque immaginare rari e fortunati casi in cui a un’ora di lavoro corrispondano più voucher, di fatto i 7,50 euro netti si qualificano come paga minima per un’ora di lavoro, al di fuori di qualsiasi contratto collettivo nazionale o contratto integrativo. E, oltre alla paga, c’è poco altro. Senza dubbio, infatti, il 13% di contributi è meglio, per un lavoratore, rispetto allo zero del lavoro in nero, ma per il datore di lavoro è un incomparabile vantaggio, a fronte del 29% circa previsto per il lavoro subordinato e del 23,72% per il lavoro a progetto, per le collaborazioni occasionali e per l’associazione in partecipazione (o del 17% per i lavoratori titolari di pensione diretta o indiretta o per gli iscritti ad altre forme pensionistiche obbligatorie). La riduzione degli oneri economici prevista per il lavoro accessorio va inoltre insieme a un certo alleggerimento degli oneri gestionali. Infatti, il committente non dovrà consegnare al lavoratore alcuna lettera/contratto di lavoro, non dovrà effettuare alcuna comunicazione obbligatoria (instaurazione, proroga o cessazione) ai servizi per l’impiego, non avrà la necessità di inserire alcuna registrazione nel Libro Unico del Lavoro, non avrà l’obbligo di elaborare alcun prospetto paga per i compensi corrisposti al lavoratore e non sarà necessario presentare alcun tipo di denuncia agli Istituti, né tanto meno effettuare versamenti contributivi o di altra natura. A questo va inoltre aggiunto il 5% che trattiene l’Inps per il servizio: una quota che il lavoratore non percepisce in alcun modo, né direttamente né indirettamente.
Ma il problema maggiore sta alla radice: oltre agli scarsi contributi e all’assicurazione, i voucher non prevedono niente. Niente maternità, niente ferie o malattia, niente differenze di mansioni o scatti di anzianità. Tutti gli istituti contrattuali conquistati nel corso di decenni di lotte sociali e sindacali… semplicemente scompaiono! Rimane quasi unicamente il puro rapporto di lavoro, che neanche è riconosciuto come tale.
Il voucher, infatti, non è un contratto: non sancisce in alcun modo il rapporto di subordinazione tra un datore di lavoro e un lavoratore, e di conseguenza nega la ‘responsabilità’ del primo nei confronti delle condizioni globali di vita del secondo, che prende la forma degli istituti sopra citati (cosa che, va ricordato, non deriva dalla buona volontà delle aziende, ma principalmente dal conflitto sociale dell’ultimo secolo e mezzo). Tramite i buoni lavoro, gli ‘utilizzatori’ possono derogare in peggio ai più elementari diritti dei lavoratori. E, inoltre, riescono a indebolire notevolmente la forza collettiva di lavoratori e lavoratrici, che si trovano frammentati e isolati, in condizioni in cui mobilitarsi per rivendicare i propri diritti risulta molto più difficile.
Entro questa cornice possiamo comprendere i dati diffusi dall’Inps durante il 2016 circa i lavoratori coinvolti nell’utilizzo dei voucher, che evidenziano come essi siano presenti pressoché in ogni settore lavorativo (con una netta prevalenza del turismo e del commercio) e in ogni fascia di età o tipologia di impiego. Anche ambiti considerati esenti dal fenomeno stanno cominciando a esserne toccati, per esempio amministrazioni locali o fabbriche metalmeccaniche.
Una simile diffusione è perfettamente coerente con il quadro che abbiamo fin qui descritto: ai datori di lavoro è stato fornito uno strumento che permette di sfruttare la forza lavoro in modo molto più conveniente che non qualsiasi altra forma di contratto, e però senza scivolare nell’illegalità del lavoro nero.
Già, il lavoro nero! Nel corso di questa analisi l’avevamo quasi perso di vista, ma conviene tenere fermo il punto che i voucher sono ufficialmente nati proprio per combatterlo. In uno studio dell’Inps reso pubblico all’inizio dell’autunno 2016, si afferma testualmente che più che di un’emersione del lavoro nero, si può parlare di “una regolarizzazione minuscola (parzialissima) in grado di occultare la parte più consistente di attività in nero. In questo senso si può pensare ai voucher come la punta di un iceberg: segnalano il nero, che però rimane in gran parte sott’acqua” (5). Ciò che si verifica, in realtà, come evidenziano sia questa ricerca sia lo studio Ires citato in precedenza, è spesso la coesistenza, nelle forme più diverse, di voucher e lavoro nero. Può capitare di essere pagati parte a voucher e parte in nero, oppure che il rapporto tra voucher e ore lavorate non sia di uno a uno, come dovrebbe essere. Fino a ottobre queste forme di lavoro ‘grigio’ erano facilitate dal fatto che i datori di lavoro non erano tenuti a comunicare con precisione quando un voucher sarebbe stato utilizzato: bastava indicare un arco di tempo entro cui la prestazione lavorativa avrebbe avuto luogo. Da qui i casi di voucher acquistati e tenuti nel cassetto per coprire agevolmente lavoratori in nero in caso di un’ispezione o di un infortunio. Da qui, anche, l’intervento legislativo del governo Renzi.
Il 7 ottobre 2016 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il Decreto n. 185/2016, il cosiddetto Decreto correttivo del Jobs Act. All’interno, una delle innovazioni più rilevanti riguarda gli interventi per prevenire l’abuso dei voucher, tramite la loro ‘tracciabilità’. Nei fatti è previsto l’obbligo di una comunicazione preventiva da parte del datore di lavoro entro 60 minuti prima dell’inizio della prestazione, mediante SMS o posta elettronica, con indicazione dei dati del lavoratore, del luogo e della durata della prestazione. Il Decreto correttivo, che avrebbe dovuto sostituire e migliorare quanto già in precedenza legiferato, è risultato carente dal punto di vista pratico – inizialmente non era stata fornita alcuna indicazione precisa, indirizzo email o numero di cellulare, a cui inviare la comunicazione, lasciando per alcuni giorni il fai-da-te generale, con gli addetti ai lavori alla ricerca di indirizzi email e il dubbio su qua-le fosse la modalità giusta per la trasmissione dei dati al fine di non incorrere in sanzioni.
Dopo la diffusione dei primi dati relativi ai voucher venduti del 2016, molti commentatori si sono affrettati a dichiarare che la misura presa dal governo ha funzionato: negli ultimi mesi dell’anno la vendita dei buoni lavoro sarebbe sì aumentata rispetto al medesimo periodo del 2015, ma non così tanto come ci si aspettava, e addirittura a dicembre risulta praticamente identica (11,5 milioni rispetto a 11,4)(6). È sicuramente troppo presto per trarre delle conclusioni, anche vista la parzialità dei dati di cui disponiamo (conosciamo i voucher venduti ma non quelli riscossi, tra le altre cose).
Due considerazioni però possiamo farle.
Le tre condizioni fissate dalla legge sul caporalato che stabiliscono uno sfruttamento si possono riconoscere anche al lavoro retribuito con voucher
Da un lato il lavoro nero, dopo l’introduzione del decreto 185/2016, potrebbe apparire addirittura migliore dal punto di vista della tutela dei lavoratori: gli corrisponde infatti, per il datore, se accertato, una maxi-sanzione, e la possibilità per il lavoratore di aver riconosciuto il proprio effettivo status di lavoratore subordinato. Fino all’ottobre scorso in caso di violazione (che certo era difficilmente accertabile) nell’utilizzo dei voucher si applicava la stessa norma del lavoro nero, ma dopo il Decreto correttivo si applica solo una sanzione pecuniaria, per altro di leggera entità, che alla luce del sottorganico e funzionamento (7) degli istituti ispettivi, non può rappresentare un grosso disincentivo all’abuso.
Dall’altro lato il problema, come abbiamo cercato di mostrare, non è l’irregolarità dell’utilizzo o l’abuso, ma lo strumento stesso, che introduce le caratteristiche tipiche di un lavoro senza contratto, a nero, informale, in cui è massimo il potere dispotico dell’impresa, un framework di legalità che vuole “realizzare una delle utopie del capitalismo, ossia quella di consentire alle imprese di generare ricchezza con il lavoro ma senza i lavoratori, o meglio, senza nessun obbligo nei loro confronti al di fuori del-la mera retribuzione oraria” (8). Qualsiasi misura parziale, quindi, può fungere da palliativo, ma senza aggredire il cuore della questione, ossia la legalizzazione dello sfruttamento più selvaggio.
Rimane da considerare un’ultima questione, che riguarda la legge 199/2016, in vigore dal 4 novembre 2016, e che introduce nuovi strumenti di contrasto al caporalato. Una legge presentata come un grande passo avanti in favore della lotta contro la piaga del caporalato nei settori dell’agricoltura e dell’edilizia (9).
La cosa importante è che quando si parla di caporalato, non si fa semplicemente riferimento al fenomeno del reclutamento da parte di soggetti spes-so collegati alla criminalità organizzata, di lavoratori che vengono fisicamente trasportati sui campi o nei cantieri per essere messi a disposizione di un imprenditore. Per caporalato si intende soprattutto lo sfruttamento di persone che versano in stato di bisogno, e che quindi si piegano a condizioni di schiavitù: turni di lavoro massacranti, disconoscimento di ogni diritto previsto per legge e/o contratto collettivo, corresponsione di salari pari a meno della metà dei minimi tabellari. Il nuovo testo normativo prevede che la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni costituisce indice di sfruttamento: 1) La reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rap-presentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e alla qualità del lavoro prestato; 2) La reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al risposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3) La sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro.
Bene, i parametri potrebbero essere tranquillamente applicati anche al lavoro retribuito con voucher. Si tratta infatti di condizioni in cui si viene a trovare qualsiasi prestatore di lavoro ‘accessorio’ (10). In conclusione, il passo da compiere per definire il voucher come caporalato legalizzato è breve. Si versano contributi previdenziali e assistenziali, ma non vengono garantiti i più elementari diritti in materia di diritto del lavoro. Peccato che questa legge possa trovare un’applicazione assai restrittiva come più volte denunciato anche dalle organizzazioni che si occupano di bracciantato e sfruttamento nei campi.
Ritorna, dunque, la questione dei referendum su cui probabilmente saremo chiamati a votare nei prossimi mesi. Sulla scorta del quadro che abbiamo tracciato fin qui, abolire i voucher è l’unica credibile soluzione del problema. Ma le battaglie importanti non si vincono semplicemente con petizioni, raccolte firme, ricorso alle urne. Soprattutto se la battaglia è bel-la grossa, si vincono se si combatte nel corpo vivo della società. Se non si rinuncia alla lotta. In primis nei posti di lavoro. Ma anche fuori. Se non si accettano le logiche di fondo del sistema. Quindi a fianco della giusta campagna di sostegno ai referendum si riapre la necessità di dare battaglia su ogni livello disponibile, non risparmiando critiche agli stessi proponenti di questi referendum, che hanno fatto assai poco negli anni passati per arrestare i processi in atto e rafforzare le lotte che pure si sono date in questi anni.
Note
1) Luigi Mariucci, Jobs Act, «la bocciatura del referendum sull’articolo 18 è un errore logico-giuridico e un paradossale boome rang politico», Il Fatto quotidiano, 12 gen naio 2017 e Clash City Workers, Una deci sione politica. La consulta boccia il quesito sull’art.18, 11 gennaio 2017
2) Si veda, per esempio l’elenco degli ambiti di utilizzo contenuti nel D.lgs 276/2003
3) Senza soffermarci su questo punto, rimandiamo alla prima parte dell’ottima ricercasvolta da Gianluca De Angelis e Marco Marrone per conto dell’Ires Emilia Romagna:“Voucher: il lavoro accessorio in Italia e in Emilia-Romagna”, consultabile online.
4) Per i dati completi, si veda la ricerca prodotta dall’Inps nelmaggio 2016 (valida per il periodo 2008-2015), consultabile online.
5) WorkINPS Papers, Il Lavoro accessorio dal 2008 al 2015. Profili dei lavoratori e dei committenti, pag. 57, settembre 2016. Consultabile online.
6) Inps: stop corsa ai voucher con le norme sulla tracciabilità, Il Sole 24 ore, 19 gennaio 2017
7) L’Inps, per esempio, avendo obiettivi di bilancio precisi nell’attività ispettiva, si muove solo riguardo a me die e grandi aziende dove può puntare a recuperare maggiori fondi evasi 8) G. De Angelis, M. Marrone, Ires 2016, op. cit.
9) Cfr. Clash City Workers, Dal caporalato illegale a quello legale, 11 agosto 2016
10) Oltre a quello che può dirci l’analisi dei dati e dei testi dilegge, le testimonianze abbondano: si vedano, per esempio,le interviste contenute nella ricerca citata di G. De Angelis e M. Marrone, e da ultimo: Clash City Workers, [Bergamo] «Non parlate, non andate in bagno»: così si lavora a voucher, 13 gennaio 2017
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