Il grande bivio, dopo destra e sinistra
di ALESSANDRO GILIOLI
Qui di seguito, per chi è interessato, l’intervento che ho fatto ieri all’incontro su destra e sinistra, al Festival del Giornalismo di Perugia. Chi mi segue troverà in parte cose già lette in questo blog e me ne scuso in anticipo.
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«Ci sono sempre state e sempre ci saranno persone che hanno combattuto e combatteranno per l’uguaglianza sociale. Come ci sarà sempre l’altra parte. Sono due aspetti che fanno parte dell’animo umano. Poi, con la Rivoluzione francese, si sono coniati i termini di destra e sinistra».
La citazione è di José Mujica, ex presidente dell’Urugay.
Mujica identifica quindi la questione destra-sinistra con il tema dell’uguaglianza, della riduzione delle forbice sociale, della redistribuzione.
Alla stessa diade, uguaglianza-disuguaglianza, si riferisce Norberto Bobbio nel suo famoso libro su destra e sinistra.
Se prendiamo per buona la diade proposta da Bobbio e Mujica, possiamo dire un paio di cose.
Destra significa far prevalere l’obiettivo della creazione di ricchezza sulla sua redistribuzione, nella convinzione che i “lacci e laccioli” imposti alla creazione di ricchezza siano alla fine negativi per tutti: è la famosa teoria del dropping, della ricchezza che dalla cima della piramide sociale piove su tutti.
Sinistra consiste invece nello stabilire regole che impongono strumenti di redistribuzione e welfare, nella convinzione che una limitazione delle disuguaglianze non solo sia eticamente più giusta, ma anche che sia più utile per una maggiore coesione sociale e alla fine per una migliore crescita economica.
In questo senso uno dei libri più di sinistra che conosco è “La misura dell’anima” di Wilkinson e Pickett, che spiega come i malesseri generati dalla diseguaglianza coinvolgono tutti: non solo i poveri, ma anche i ricchi. In una società troppo diseguale c’è più violenza, più ignoranza, più disagio psichico, più malati, più detenuti, più tossicodipendenti, più ragazze-madri, più obesi.
Il libro di Wilkinson e Pickett è ricco di dati che dimostrano la fondatezza della loro analisi, ma – giusto a titolo di esempio – vorrei citare una ricerca apparsa di recente su “Pnas”, la rivista dell’Accademia nazionale delle Scienze degli Stati Uniti, di Michael Norton, docente a Harvard.
È uno studio sullo stato d’animo dei passeggeri degli aerei di linea, sul loro comportamento (aggressivo o amichevole nei confronti degli altri passeggeri e del personale di bordo) e al loro grado di soddisfazione durante il volo. Le conclusioni sono che – a parità di puntualità e di qualità di servizio – l’atteggiamento e l’appagamento dei passeggeri cambiano a seconda se c’è o non c’è la divisione tra prima e seconda classe.
In altre parole, una diversità di trattamento peggiora l’esperienza del volo e tende ad aumentare il grado di aggressività e i comportamenti antisociali. Attenzione, questo avviene non solo tra i passeggeri di seconda classe, ma anche tra quelli di prima: ai quali il confronto con quelli di seconda provoca un aumento di conflittualità, un maggiore egocentrismo, un incremento delle esigenze, il che provoca tensione anche con le hostess.
Nella sua semplicità, lo studio rivela una cosa fondamentale: tra gli elementi che producono felicità nelle persone la “ricchezza” (che in un aereo si declina in comodità, puntualità, qualità del cibo servito etc) è solo uno dei fattori. L’altro è il confronto. Il conflitto tra condizioni diverse.
Detta altrimenti: non basta aumentare il Pil per rendere felici le persone. Certo, serve. Ma non basta: alla percezione della propria felicità contribuiscono altri elementi, tra i quali la disparità. Che è potenzialmente portatrice di infelicità di conflitto e aggressività.
Questo, quindi, è o era l’obiettivo storico della sinistra: ridurre le disuguaglianze per fare star meglio tutti.
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Nel XX secolo la sinistra si è storicamente incarnata, semplificando un po’, in due diversi esperimenti, cioè il comunismo e le socialdemocrazie.
Sul comunismo non mi soffermo: il suo fallimento ha infatti ragioni intrinseche ben note sia di tipo economico sia di tipo umanistico-esistenziale.
Poi però c’è stato anche l’esperimento della socialdemocrazia. Che ha le sue radici nel New Deal roosveltiano, quando – cito dall’ultimo libro di Varoufakis – «per la prima volta il capitalismo ha dato vita a sistemi di welfare che sembravano indicare un terzo spazio tra liberismo e comunismocon il primato della democrazia sull’economia e l’estensione dei diritti sociali».
Il periodo da metà degli anni 30 ai primi anni 80, quasi mezzo secolo, è stato quello in cui la forbice sociale più si è ridotta, prima negli Stati Uniti e poi in Europa, senza né un rallentamento della crescita (anzi, il contrario) né una privazione delle libertà personale.
È stato forse il mezzo secolo più giusto, civile e allo stesso tempo efficiente della storia dell’umanità.
È così che sono sorte le socialdemocrazie scandinave. Ma qualcosa di non molto diverso è avvenuto altrove – dalla Germania al Regno Unito, dove si è sviluppato il welfare. Un po’ è avvenuto anche in Italia, con lo Statuto dei Lavoratori e il Servizio sanitario nazionale pubblico e universale. E perfino prima del centrosinistra, con il piano casa Fanfani.
Peccato che tutte queste conquiste della sinistra, e delle classi popolari che la sinistra allora la sinistra rappresentava, siano avvenute attraverso gli stati nazionali.
Cioè attraverso leggi di tutela dei ceti deboli e dei lavoratori che venivano approvate dagli Stati nazionali, e al loro interno implementate.
Peccato perché, a partire dagli anni ’80, a poco a poco sono finiti proprio gli Stati nazionali, o almeno le economie nazionali. I capitali hanno cominciato a viaggiare da un paese all’altro. I mercati sono diventati globali. Le aziende hanno iniziato a delocalizzare. Se lo Stato voleva tassarne gli utili per redistribuire, le aziende andavano altrove. Uno Stato fa qualcosa di sgradito ai mercati? Con tre clic su un computer, questi fanno andare in default lo Stato in questione.
Per farla breve: quello che un secolo fa era un ideale di sinistra – l’internazionalismo, l’internazionalizzazione – è paradossalmente diventato lo strumento di un meccanismo globale che toglieva diritti, benessere e welfare ai ceti popolari.
Nessuna politica sociale poteva più essere fatta dai singoli stati nazionali. I poteri si erano spostati altrove.
E così le socialdemocrazie hanno finito, a poco a poco, di esistere. E i partiti socialisti o socialdemocratici – tutti ovviamente partiti nazionali – hanno finito per perdere senso, obiettivi, capacità di cambiare le cose nella direzione verso cui erano cambiate nel mezzo secolo precedente.
Per perpetuarsi – come organizzazioni, come ceto politico – questi partiti hanno finito così per emulare le destre liberali, magari solo attenuandone le maggiori asperità.
È la storia di Blair, di Schroeder, di Hollande, del Pasok in Grecia, del Psoe in Spagna e del centrosinistra italiano. La sinistra che diventa un’emulazione della destra economica.
Questa vittoria globale dei principi della destra economica – “basta redistribuzione, basta welfare, meno regole a imbrigliare i mercati” – ha provocato una polarizzazione della società in due campi, élite da una parte, gente comune dall’altra.
Questa polarizzazione è avvenuta contestualmente alla perdita di senso dei partiti socialisti e di sinistra, così si è provocato uno “sconquasso di rappresentanza”: quello che viene chiamato il 99 per cento, chi st fuori dalle élite, era ormai privo di un partito di sinistra che lo rappresentasse e così si è gettato in un voto di rabbia, di protesta. Un voto nazionalista, perché l’internalizzazione era stato uno strumento del suo impoverimento. E un voto che fosse sempre e comunque “contro”. Contro i messicani e l’invasione di prodotti stranieri, contro la casta dei politici, contro i partiti che avevano governato fino a quel momento, contro i “radical chic”, contro tutto quello che viene a torto o a ragione percepito come élite.
La privazione di una rappresentanza democratica di classe e il voto “contro” hanno quindi portato alla sostituzione della rapprsentanza con la proiezione del proprio essere “contro” in un uomo forte, in un leader muscolare, dalla voce grossa e dai modi decisi, fortemente nazionalista.
Non è strano affidarsi a un leader nazionalista e muscolare se l’internazionalità è vista come nemica e se ci si convince che solo l’uomo “di polso” abbia i muscoli per affrontare i poteri esterni che hanno impoverito i ceti medi e bassi, senza che le democrazie sapessero o volessero opporsi. Di qui i Trump, Le Pen, Putin, Erdogan e molti altri.
È così che la destra, per chi sta alla base della piramide, ha sostituito la rappresentanza di sinistra.
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Non è una dinamica che durerà in eterno, ma è quella che stiamo vivendo ora, in un questa fase così particolare.
Fino a pochissimo tempo fa tendevamo a leggere questa fase, questa crisi, secondo la formula di Gramsci, “il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.
La formula è seducente, di Gramsci abbiamo tutti bisogno. Non sono però sicuro che questa immagine, questa formula, sia sufficiente a capire le dinamiche attuali, anzi mi chiedo se non sia riduttiva. Perché il “vecchio che muore” in questa formula è la globalizzazione, o almeno la globalizzazione liberista così come l’abbiamo vissuta negli ultimi decenni; mentre i “fenomeni morbosi” sarebbero i nuovi fascismi.
Il problema è cos’è il nuovo verso cui tenderemmo una volta terminato l’interregno.
Al momento ci è ignoto e probabilmente dipende dalla capacità che avranno le democrazie a mostrare elasticità e flessibilità, quella elasticità che ha permesso agli Stati Uniti di dare vita al New Deal quasi 80 anni fa e che invece dopo la crisi del 2008 non è stata replicata.
In tutto questo si è probabilmente esaurito, da un punto di vista politico, il portato semantico delle parole sinistra e destra, per le ragioni dette sopra.
La destra ha vinto – «la lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi», ha detto il miliardario Warren Buffet – la sinistra ha perso la sua ragione e ha emulato la destra, e la reazione delle classi mediobasse è stato l’affidamento a leader muscolari.
Ma come diceva Mujica, l’attribuzione semantico-politica alle parole destra e sinistra è iniziata dopo la Rivoluzione francese e come è iniziata può finire.
Quello che non si è esaurito e non finisce è il bivio che ci sta dietro: accentramento delle ricchezze o redistribuzione, welfare o abbandono delle persone a se stesse, società o individuo. Da una parte la visione di Margaret Thatcher, secondo cui «la società non esiste: ci sono gli individui»; dall’altra parte quella del pedagogista Jean Piaget, secondo il quale invece «la società ha inizio a partire da due individui, quando il rapporto fra questi individui modifica la natura del loro comportamento».
Questo è e resta il grande bivio, la grande scelta, e questa è la diade che continua oltre le parole destra e sinistra.
Fonte: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2017/04/08/il-grande-bivio-dopo-destra-e-sinistra/
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