FSI espone il documento sulla rendita urbana a Latina: Commento dell’architetto Rosolini
Riceviamo e volentieri pubblichiamo – a mo’ di “resoconto”- le considerazioni dell’arch. Massimo Rosolini, già assessore all’urbanistica del Comune di Latina, a margine dell’incontro sui temi della rendita urbana organizzato dal FSI di Latina venerdì 17 marzo.
La questione della rendita urbana è connessa alla crescita delle città, alla loro espansione che trasforma velocemente terreni agricoli in aree fabbricabili. Questo modifica la “staticità” della rendita fondiaria tradizionale nella dinamicità della rendita determinata dall’incremento di valore che accade in seguito a decisioni di carattere urbanistico invece che di interventi per l’ aumento della redditività agricola del terreno.
Si tratta perciò di una questione recente, che si presenta nella storia moderna assieme ed anzi come conseguenza del fenomeno dell‘urbanesimo e dunque non prima della seconda metà del XIX sec. e che ha avuto un exploit in tempi di boom edilizio e di forte espansione urbana.
Oggi, almeno in Europa, il fenomeno -nella sua forma assoluta- appare molto ridotto nella generalità, come ridotta è la tendenza all’espansione urbana, e piuttosto concentrato su singole operazioni. Le città non crescono più molto, ma si trovano invece in un punto della loro storia in cui l’imperativo è soprattutto la trasformazione, la riqualificazione, la valorizzazione dell’esistente, il ripristino della loro funzionalità soprattutto in relazione alla questione ambientale ed energetica. Questo vuol dire che le città europee, ma soprattutto italiane hanno bisogno di grandi investimenti sul loro tessuto e che, anche in relazione alla accresciuta attenzione al problema del consumo di suolo, ovvero di occupazione di superfici extraurbane connessa al danno ambientale che ne deriva, dovrebbe restringersi molto l’aspettativa di nuove urbanizzazioni in espansione che abbiano come condizione la trasformazione di aree agricole in aree urbane. Dico dovrebbe perché almeno in Italia i dati sul consumo di suolo continuano ad essere importanti (cresme), e perché l’innalzamento di valore di terreni così trasformati è cosi forte che permane da parte dei proprietari degli stessi (che spesso lo sono divenuti a seguito di una campagna acquisti effettuata proprio a questo fine) un vivo interesse a vedere i propri terreni oggetto di previsioni urbanistiche in espansione della città. È noto, e perfino leggendario ormai, il ruolo nefasto che questo interesse ha rappresentato negli anni che dal secondo dopoguerra arrivano in fondo fino ad oggi per il territorio e per le città italiane, ostacolando o affaticando in un duello infinito le intenzioni pubbliche di pianificazione o come si dice oggi di governo del territorio.
La speculazione edilizia, che nasce proprio dall’aspettativa di rendita urbana, è stata praticata con tutti i mezzi. Favorita fino al 1967, ovvero fino al varo della Legge Ponte, dalle lacune della L.1150/42, ha proseguito, adattandosi ai contesti normativi successivi, costituendo sempre una tendenza alla deformazione di previsioni pianificatorie razionali e contribuendo a lasciare, seppure con forti differenze tra aree ed aree del territorio nazionale, i fenomeni urbani in perenne stato di criticità.
Come è noto, una decisa iniziativa contro il fenomeno della rendita urbana (dunque sugli effetti negativi di questa sullo sviluppo delle città) fu assunta da Fiorentino Sullo, ministro Democristiano ai Lavori Pubblici, che nel 1962 propose una legge di riforma urbanistica la quale cadde, insieme a lui, sotto i colpi di un’opposizione senza quartiere che vide in piena azione, tra i molti, i suoi colleghi dirigenti democristiani. Una vicenda che lo stesso Sullo racconta benissimo nel libro “lo scandalo urbanistico”(Firenze, 1964).
Sullo, riferendosi ad una possibilità già presente nella L.1150/42 all’art.18, proponeva l’esproprio per le aree in espansione previste nel piano e la vendita all’asta del diritto di superficie per i lotti edificabili dopo che lo Stato avesse urbanizzato le aree stesse. L’esproprio veniva indennizzato col valore agricolo dell’area.
Il problema stava, come è intuibile, proprio nel prezzo di esproprio, che escludeva ogni speculazione, e sulla separazione tra proprietà e diritto di superficie, ovvero tra proprietà e diritto ad edificare.
Stava cioè sulla questione del cosiddetto jus aedifcandi come inerente alla proprietà del suolo. Questo principio risalente a Roma antica è profondamente presente nella mentalità degli italiani, anche di quelli che ignorano la locuzione e che nel loro agire quotidiano certamente non si riferiscono a Roma antica. Lo dimostra la vigorosa attività edilizia spontanea che gli stessi hanno praticato sui terreni di loro proprietà ritenendo di non dover chiedere permesso a nessuno per il solo fatto che il terreno era loro. È noto che questa sfrenata attività edilizia libera, chiamata abusivismo, e svolta fuori da qualunque pianificazione e regola, dimostrante, diciamo così, la sostanziale incomprimibilità del diritto ad edificare in Italia, ha distrutto il territorio nazionale, imponendo spese alle casse pubbliche, danneggiando l’economia del turismo, deturpando il paesaggio e non di rado inducendo gravi rischi di tipo idrogeologico. Non c’è bisogno di aggiungere che il fenomeno è il sintomo più immediato della inesistenza del senso dello Stato nella cultura diffusa nel paese.
Inesistenza del senso dello Stato che è il rovescio della medaglia, diciamo così, diabolico, di quella cultura moderna della libertà che, nata in Inghilterra nel XVII sec., annovera come sappiamo il diritto alla proprietà tra i diritti naturali ed inalienabili dell’individuo allo scopo evidente di porre un argine al dispotismo del sovrano. Principio che si trova del resto in continuità con la cultura inaugurata dalla Magna Carta nella stessa Inghilterra già nel XIII sec.. Principi e cultura che non sono esattamente quelli in nome dei quali si è operato lo sfascio urbanistico d’Italia.
La pianificazione urbanistica in Italia è stata vanificata dalla speculazione in vista dell’arricchimento ovvero in vista della rendita urbana, e da una diffusa cultura di tipo “familistico amorale”, per riprendere la celebre ed ancora attualissima definizione di E. Banfield, che ha in spregio qualunque interesse collettivo. Due cose che con la libertà non c’entrano niente. Due comportamenti profondamente illiberali ed espressione di una sottocultura civile, che vengono normalmente assimilati al liberismo solo perché ci sono di mezzo i soldi e l’indifferenza nei confronti delle regole e persino della legge. Questo perché normalmente i termini di libertà e Stato sono intesi come antitetici, e quando si parla di libertà riferendosi agli ordinamenti sociali si scivola subito nell’immagine del laissez-faire di ottocentesca memoria, e nelle teorie degli economisti classici che credevano nel mercato che si autoregola producendo tra l’altro la piena occupazione etc.. E’ vero il contrario, perché nessun “mercante” ama competere, né chiede che la concorrenza sia mantenuta, ma desidera invece che sia eliminata, o attenuata al massimo, e quando può opera direttamente per distruggerla. Chi opera nel mercato non vuole il mercato, sogna il monopolio. Suo, naturalmente. Il mercato non vuole regole non per affermare la libertà, ma per soffocarla. Abbiamo vissuto di recente la stagione in cui la privatizzazione di importanti servizi pubblici è stata chiamata ipocritamente liberalizzazione, mentre era solo la trasformazione di monopoli pubblici in monopoli privati, lesivi della democrazia e prossimi al dispotismo di cui sopra. La verità è che la Libertà e lo Stato non sono affatto antitetici, ma anzi debbono essere complementari. Dopo che si è riconosciuta collettivamente la libertà come il valore primo della persona, lo Stato che rappresenta la volontà collettiva si costituisce proprio per garantire e difendere la libertà della persona. Ovvero la reale concorrenza tra soggetti posti in condizione di medesime opportunità, l’accesso di ciascuno a tutte le opportunità che la vita associata offre, il rispetto reale della propria sfera personale, le garanzie di una vita dignitosa, la difesa da ogni aggressione, non ultima quella di tipo economico etc…. E siccome tutto questo, senza bisogno di evocare l’homo homini lupus di hobbesiana memoria, non è affatto un dato scontato nella interazione di soggetti e interessi diversi che in una società si costituiscono, contrariamente a quello che si pensa la Libertà ha bisogno dello Stato e il cosiddetto Stato Liberale non può essere uno Stato debole, ma deve essere uno Stato forte. Forte appunto nel difendere la Libertà. Tutt’altra cosa dalla concezione semplicemente liberista che finisce per favorire obiettivamente l’azione e gli interessi del più forte.
Per tornare a noi, la speculazione edilizia in vista di rendita urbana e in dispregio di qualunque principio di pianificazione del territorio è appunto un esempio di interesse di un singolo o di pochi che tende a sovrapporsi e a deformare gli obiettivi generali di una organizzazione ottimale del territorio e della libera vita di ciascuno su di esso a cui la pianificazione tende.
Come abbiamo detto la proposta di Sullo cadde prima di essere approvata, ma tuttavia anche se fosse passata, se la sarebbe dovuta vedere con la questione degli espropri la quale ha avuto in Italia una vicenda lunga e complessa che ha visto più volte contrapporsi atti legislativi e pronunce della Corte Costituzionale. Soprattutto in merito alla misura ed al criterio da assumersi per gli indennizzi.
La prima Legge sulle espropriazioni per pubblica utilità del neonato Stato unitario d’Italia, la Legge 2359 del 1865 (art.39) prevede il ristoro del valore venale del bene espropriato. Il riferimento “costituzionale”è ovviamente Lo Statuto Albertino secondo cui la proprietà privata è inviolabile, ed il concetto è posto tra i principi generali
Nella Costituzione repubblicana, viceversa, all’art.42, la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. Non è più dichiarata inviolabile. L’argomento è “declassato” nel titolo dei rapporti economici. Tuttavia essa può essere espropriata solo per motivi di interesse generale e dietro un giusto indennizzo. L’articolo,sia detto per inciso, mostra, e non è il solo, il laborioso compromesso tra orientamenti differenti che portò alla stesura del testo costituzionale e in particolare qui l’influenza di quella parte dei padri costituenti che la proprietà privata l’avrebbe direttamente abolita volentieri.
Negli anni ’70 la Legge per la casa n.865 del 1971 introducendo il valore agricolo medio per le aree extraurbane,come base per la determinazione dei valori di esproprio, e la Legge Bucalossi n.10 del 1977 che introduce la concessione edilizia in luogo della licenza edilizia e separa la proprietà dei suoli dal diritto ad edificare il quale è appunto concesso dallo Stato che lo detiene, con la conseguenza che i suoli possono essere espropriati prescindendo dalla loro vocazione edificatoria, costituiscono un “corpus” di norme che favoriscono l’intervento pubblico mettendolo al riparo dalle tensioni costituite dagli interessi della proprietà fondiaria.
Come è noto, però, la sentenza della Corte Costituzionale n.5 del 30 gennaio 1980 dichiarerà la incostituzionalità di queste norme dove contrastano con art.3 e art.42 cost. e riafferma lo jus aedificandi che “continua ad inerire alla proprietà”.
Il senso è anche quello di tutelare secondo l’art. 3 Cost. l’uguaglianza tra i cittadini anche in merito ai rapporti economici. Infatti riconoscere all’espropriato un indennizzo che in forza del tipo di calcolo stabilito dalla legge si allontana di molto dal valore di una libera contrattazione che un proprietario di un bene analogo a quello espropriato potrebbe ottenere configura una forzata diseguaglianza. In questo conta molto il principio, ma diciamo meglio, il fatto, che i valori che il mercato attribuisce ai beni prescindono dalle categorie urbanistiche o catastali di questi. Vale a dire che un terreno ancorché classificato come agricolo se ubicato in posizione di facile urbanizzazione si può aspettare dal mercato un apprezzamento molto superiore a quello formalmente riconoscibile alla sua categoria. Questo bruto fatto istituisce la questione della diseguaglianza tra dei proprietari di beni in tutto analoghi, dove uno sia espropriato per pubblica utilità, l’altro lasciato libero di contrattare il prezzo del suo bene sul mercato.
Il confronto- contrasto tra Legislatore e Giudice delle leggi conosce vicende alterne, e si conclude (per il momento) con le sentenze della Corte Costituzionale 348 e 349 del 2007, che intervengono dopo che la legge 359/92 all’ art 5bis e il TU degli espropri nel 2001 avevano di nuovo distanziato il valore degli indennizzi dal prezzo di mercato delle aree occupate e/o espropriate.
Ma, soprattutto, queste intervengono dopo la riforma del titolo V della Costituzione che, sempre nel 2001, ha modificato l’art.117 introducendo un nuovo rapporto con l’ordinamento comunitario europeo e con gli obblighi internazionali. Dice infatti che: “ la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”
Tra gli obblighi internazionali c’è sicuramente quello del rispetto della Convenzione Europea per i Diritti Umani firmata a Roma nel 1950 e a Parigi nel 1952. Proprio a Parigi sarà firmato il protocollo addizionale alla convenzione che al 1° articolo recita: Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale…..”
Con l’effetto di riportare la proprietà privata tra i diritti tutelati da principi generali e sostanzialmente inviolabili. Cosa che per noi in Italia significa, diciamo così, tornare allo Statuto Albertino su un punto in verità assai attenuato dal trattamento che la Costituzione repubblicana riserva alla proprietà privata: semplicemente riconosciuta dalla legge , ma non difesa come principio costituzionale in sé.
La riforma del titolo V ha dunque l’effetto indiretto di assorbire, in sostanza, il principio CEDU tra i principi costituzionali. Nella costituzione (art.42) si rimanda all’azione della legge, nella CEDU la legge è sottoposta al principio generale.
Le sentenze della corte costituzionale n. 348 e n. 349 del 2007 dichiarano, dunque, la incostituzionalità dell’art. 5bis della legge 359 del 92 e dell’art.37 del TU sugli espropri, proprio in relazione al nuovo art. 117 della Costituzione e dell art.1 del protocollo aggiuntivo della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti Umani (CEDU), con l’effetto di riportare di nuovo al valore venale le indennità di esproprio e di occupazione. In sostanza ancora al principio della L. 2359/1865.
Questo breve excursus per dire che oggi l’espropriazione per pubblica utilità è di nuovo particolarmente onerosa per la PA. L’aspettativa di rendita urbana proveniente da attribuzione di nuove destinazioni d’uso che accrescano il valore di mercato di un area destinata sia ad espansione che a trasformazione, è pienamente legittimata, e dunque la realizzazione della parte pubblica, l’urbanizzazione primaria e secondaria delle aree pianificate, particolarmente difficile.
Se si tiene conto che la principale causa del degrado delle nostre città, che non a caso si riscontra in zone periferiche, ovvero di recente urbanizzazione, si deve alla incompleta realizzazione degli interventi pubblici ed alla carenza di dotazione dei cosiddetti standard, si comprende come il prezzo per le acquisizioni di aree rappresenti un elemento decisivo per la qualità delle nostre città, soprattutto delle loro aree pubbliche. Si può discutere a lungo su quali siano le molte cause della cosiddetta bruttezza delle città contemporanee, specialmente in Italia dove il confronto con il patrimonio di centri urbani storici di ineguagliabile bellezza è particolarmente stridente, ma certo la incompletezza della loro realizzazione e la conseguente incuria fa la prima differenza.
L’ipotesi di Sullo cadde politicamente e la Corte Costituzionale, come abbiamo visto non fa sconti. Come fa, dunque, la PA a costruire una città per tutti garantendo la qualità ed il decoro necessario almeno alla parte pubblica di essa?
Al momento non sembra esserci altra via che quella di evitare del tutto gli espropri aggirando il problema.
La disciplina urbanistica ha da tempo ormai prodotto il concetto di perequazione. Concetto che anch’esso si sviluppa da qualcosa che già la L.1150/ 42 contiene quando considera la possibilità di pianificare per comparti edificatori. La perequazione non toglie il diritto ad edificare ai proprietari dei suoli che ne rimangono titolari ma lo svincola materialmente dai singoli fondi andando a distribuire sull’insieme del piano le volumetrie reali che vi corrispondono secondo un disegno urbano libero da condizionamenti, giacché è superato il conflitto tra chi beneficia di previsioni di edificazione e chi è gravato di vincoli preordinati all’esproprio perché proprietario di terreni su cui il disegno urbanistico ha posizionato parti pubbliche: strade, verde, scuole etc..
La perequazione urbanistica risolve perciò in un certo modo il problema perché attribuisce diritti edificatori uguali a tutte le aree pianificate e pone la cessione gratuita delle aree destinate alle urbanizzazioni in cambio, appunto, dei diritti edificatori attribuiti che i proprietari delle aree soddisferanno partecipando in quota proporzionale alla realizzazione delle previsioni del piano. La PA non spende denaro se non per realizzare le opere di sua competenza che però dovrebbero essere pagate dai contributi per l’urbanizzazione dovuti da parte di chi costruisce, ovvero di chi si avvale del diritto ad edificare che il piano prevede. Nel caso di una PA che non sia in deficit per le spese correnti da colmare con gli incassi derivanti dagli oneri edilizi il cerchio sarebbe chiuso. Sennonché neanche questo è semplice visto lo stato delle economie dei Comuni, oramai praticamente abbandonati a loro stessi ed alla loro capacità di autofinanziarsi, o limitati negli investimenti dall’osservanza al patto di stabilità.
La impossibilità sostanziale della PA di operare sul territorio mediante espropri onerosi per poi realizzare opere pubbliche egualmente a carico del pubblico bilancio, ha imposto ormai, tra PA e privati proprietari dei suoli e/o privati capaci di realizzare opere, un rapporto di tipo negoziale. Vale a dire che la PA opera sul territorio ormai frequentemente in regime di partnership con il privato. Questo come è intuitivo impone ad essa un requisito in più. Alla capacità di pianificare secondo i bisogni della collettività, che è il suo ruolo tradizionale, si deve aggiungere quello di saper attrarre su questo obiettivo l’interesse dei privati: proprietari e imprese.
Non potendo dunque semplicemente liquidare i proprietari dei suoli con somme adeguate né agevolmente pagare direttamente le imprese che appaltano le opere pubbliche, né infine disponendo di competenze e risorse per gestire servizi complessi, la PA è costretta a scambiare col partner privato una moneta astratta ma dalle conseguenze molto concrete : i diritti edificatori, che la PA stessa e in particolare i Comuni amministrano mediante la pianificazione urbanistica come loro specifica prerogativa.
Nel piano perequativo l’attribuzione di diritti edificatori omogenei- anzi uguali- a tutti i proprietari dei suoli, con conseguente liberazione a costo zero delle aree per l’urbanizzazione, è intrinseca alla pianificazione e nasce con essa. Il che comporta che l’entità di tali diritti è stabilita in base alla decisione collettiva e tecnicamente verificabile di quale carico insediativo si può ragionevolmente attribuire ad un area,ad un comparto, ad una città. Diversamente, nel caso di una trattativa puntuale tra PA e proprietà, finalizzata alla realizzazione di un singolo progetto di trasformazione urbana, la materia della quantità di edificabilità che la PA può attribuire in cambio della cessione gratuita delle aree per spazi ed impianti pubblici e spesso per la realizzazione degli impianti stessi, è definita volta per volta. Ed impegna l’amministrazione nella definizione della compensazione urbanistica opportuna.
Sono di questi giorni, ad esempio, la questione del nuovo stadio della Roma e le alterne posizioni dell’amministrazione della capitale sul punto. Dopo una crisi politica, un bel po’ di parapiglia e la sostituzione di un assessore , siamo informati che il Comune di Roma darà il suo assenso alla realizzazione dello stadio proposto da un gruppo privato perché si è giunti a tagliare del 50% le volumetrie inizialmente richieste dai privati come compensazione della realizzazione dello stadio stesso e di tutte le infrastrutture necessarie ad urbanizzare la zona. Chi è informato dei fatti solo dalla stampa non può certo valutare se l’equilibrio è stato raggiunto senza danno ed anzi con vantaggio per il territorio romano e si deve accontentare del risultato dichiarato senza sapere se si tratta di un obiettivo raggiunto per la città, un atto puramente demagogico o, peggio, un’operazione pesantemente speculativa.
C’è da osservare che essendo le città sempre più bisognose di trasformazioni del già costruito, di riqualificazioni delle parti degradate, di recupero e riconversione di siti dismessi, di sostituzione del patrimonio edilizio obsoleto per aumentarne l’efficienza energetica e diminuirne l’impatto sull’ambiente, di modernizzazione ed incremento degli impianti pubblici, e decisamente meno di previsioni di espansione, esse sono impegnate piuttosto su interventi puntuali che non su pianificazioni estese. Almeno non su pianificazioni di tipo tradizionale. Il che comporta un accentuazione del carattere negoziale della progettazione urbanistica. Questo vuol dire anche che la tradizionale aspettativa di rendita urbana che ha caratterizzato le pressioni speculative negli anni dell’espansione, limitata in fondo ad un gioco di posizionamento, si sposta appunto verso la negoziazione con la PA di accordi complessi di cessione di aree e di realizzazione di opere, in cambio di diritti edificatori. E non si consuma diciamo così una volta per tutte ad ogni Piano Regolatore, ma è sempre attiva e richiede alla PA un’attività continua di valutazione e selezione delle proposte di intervento.
E’ una PA debole o forte quella che deve adeguarsi ad una modalità simile? Sarebbe un grave errore scambiare la flessibilità che un approccio del genere richiede per debolezza. Credere che una PA minima, con meno vincoli, meno principi condivisi e fondanti, con una visione della città meno netta e chiara, e soprattutto meno dichiarata, possa essere congeniale alla negoziazione, alla realizzazione di interventi urbani in partnership con le parti private. È evidente il contrario. Solo un PA forte, chiara nei suoi indirizzi e totalmente trasparente, che tenga fermo l’obiettivo comune di ottenere il massimo beneficio per la città e che sia in grado di misurare e dimostrare ogni volta questo beneficio, che abbia saputo costruire una sua visione del futuro del territorio che governa e soprattutto condividere questa visione consentendo il controllo democratico delle aspettative e dei risultati attesi, può negoziare con le forze economiche private facendo si che le aspettative di semplice rendita urbana non distorcano il progetto per la città, ma che le convenienze parziali siano trasformate in ricchezza per la città e in aumento reale della qualità della vita per tutti. È il contrario della deregulation, ma anche dell’ipertrofia del potere burocratico che frena le iniziative e drena tangenti. Non è per niente facile perché ci vuole una politica autorevole e con capacità costruttive, nulla di simile ai liberismi e populismi che oggi si dividono il campo.
Arch. Massimo Rosolini
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