Il maggioritario ha fallito, proviamo il minoritario
di CARLO CLERICETTI
Pressati dal presidente Sergio Mattarella, i politici sono tornati ad occuparsi della riforma elettorale. E’ quasi inevitabile che la legge sarà proporzionale, ma gli sforzi d’ingegno e le trattive più o meno sottobanco appaiono essenzialmente tese allo sforzo di trovarle una qualche correzione in senso maggioritario. La cosa è però complicata dalla necessità che questo marchingegno non finisca per favorire una vittoria del M5S, cosa che un premio alla singola lista, su cui abbastanza inspiegabilmente il Pd renziano continua ad insistere, potrebbe invece provocare.
Per spiegarselo bisogna ricorrere a un ragionamento contorto. Si può ipotizzare che Renzi dia ormai per scontato che dopo le prossime elezioni si verificherà una situazione “spagnola”, dove una maggioranza parlamentare possa derivare solo dall’accordo di diversi partiti. Data l’allergia a qualsiasi alleanza del M5S (ma ci si può scommettere anche per il futuro?), una maggioranza potrà coagularsi solo intorno al Pd, che – qualunque possa essere il risultato dei 5S – sarà il maggiore rispetto a tutti gli altri. Naturalmente può funzionare solo se rimane l’autoesclusione da qualsiasi accordo dei 5S, o la sua esclusione da parte di tutti gli altri: un po’ come il “fronte repubblicano” contro Marine Le Pen. E’ una scommessa, ma abbiamo imparato che l’uomo è un giocatore d’azzardo, e non sembra che dalla batosta del referendum abbia tratto alcuna lezione.
Un governo del Pd con (o appoggiato da) alfaniani, berlusconiani e altre formazioni che la fantasia poltronistica degli attuali politici metterà in campo sarebbe un’”ammucchiata”? Meno di quanto potrebbe sembrare a prima vista. Al di là delle differenze di facciata, fra tutte quelle forze c’è una sostanziale condivisione dei principi politici di base: riduzione del perimetro statale, riduzione delle garanzie per il lavoro, privatizzazione dei servizi di welfare e altre piacevolezze del genere. Potremmo definirla un’accettazione dell’”ideologia” tedesca, se non ci si aggiungesse la cialtronaggine e l’incapacità tecnica di cui negli ultimi anni sono state date ampie prove.
Una legge elettorale che porti all’”ammucchiata”, dunque, va benissimo. O meglio, andrà benissimo finché con quel tipo di ammucchiata si riuscirà comunque a mettere insieme una qualche maggioranza. E poi? Poi forse il diluvio, ma sarà un problema di chi ci sarà allora.
Un’altra caratteristica che accomuna gli attuali progetti di leggi elettorali su cui si sta discutendo è l’obiettivo di rafforzare il governo e ridurre a un ruolo residuale il Parlamento, un ruolo – sostanzialmente – di “approvificio”. Il governo elabora le strategie e le leggi, al Parlamento è concesso al massimo di apportare qualche modifica non di sostanza. Basta che lo faccia in fretta, senza perdere troppo tempo a discutere, perché la velocità è più importante della qualità. Le originarie denominazioni (“legislativo”, “esecutivo”) restano nell’uso, ma svuotate di significato e di fatto addirittura rovesciate: è il governo che legifera, e il Parlamento esegue approvando.
Lo svuotamento del ruolo delle assemblee elettive è stato recentemente sottolineato da un autorevole costituzionalista, Michele Ainis, che ha formulato una serie di proposte sull’introduzione di istituti in vigore in altri paesi che frenerebbero il progressivo svilimento della democrazia rappresentativa. Idee interessanti e sostanzialmente condivisibili, che propongono di “contaminarsi con elementi di democrazia diretta”, ma che non affrontano in modo specifico né la questione della (di una) legge elettorale, né quella del governo.
Eppure un altro modo di affrontare questa deriva della democrazia ci sarebbe (e le proposte di Ainis resterebbero comunque valide). Ormai da molti anni la nostra classe dirigente ha tentato di orientare verso il bipolarismo il nostro sistema politico. Non solo senza successo, ma con un esito opposto a quello desiderato. Anche quando le varie forze politiche si sono raggruppate quasi tutte in due schieramenti, perché costrette dalla regole elettorali, le varie componenti sono tutt’altro che scomparse e si sono comportate esattamente come i vari partiti della Prima repubblica, e anzi peggio. A nulla sono valse le correzioni sempre più in senso maggioritario. L’obiettivo dichiarato di costruire un meccanismo elettorale che evitasse gli “inciuci” tra partiti dopo le elezioni si è rivelato per quel che è, un’illusione a voler dar credito di buona fede, un imbroglio se si vuol essere un po’ più cattivi: gli “inciuci” ci sono lo stesso, sia prima del voto, quando si tratta di mettere insieme la coalizione, sia dopo, quando in Parlamento le coalizioni si sgretolano. Alle ultime consultazioni per la formazione del governo sono saliti al Quirinale ben 23 gruppi, e un altro paio sono nati successivamente. Il fatto poi di chiamare spregiativamente “inciucio” qualsiasi trattativa per concordare un programma di governo, come avviene quando si deve formare una maggioranza dopo che si è votato, è semplicemente pura propaganda.
Se si prendesse atto che la complessità delle opzioni politiche – o se si vuole degli interessi – non è riconducibile a due soli schieramenti contrapposti, si sarebbe fatto un primo importante passo. Il secondo passo è individuare un sistema che garantisca sia la rappresentanza che la governabilità. Questo sistema esiste, e si chiama governo di minoranza. L’evoluzione degli ultimi anni ci dice che dar vita a uno schieramento parlamentare che disponga del 51% in entrambe le Camere è quasi impossibile: e allora se ne faccia a meno. Per farlo basta introdurre uno strumento che in altri paesi esiste e opera con efficacia: la “sfiducia costruttiva”. Chi cioè vuole sfiduciare il governo può farlo solo se ha l’accordo e i numeri per andare al suo posto. Si eviterebbe così qualsiasi crisi provocata dalla convergenza delle opposizioni, che, unite contro il governo, sono però divise come programma politici, e a governare sarebbe il partito (o la coalizione) in grado di mettere insieme la maggioranza relativa dei parlamentari.
In questo modo il Parlamento riacquisterebbe la sua centralità. A seconda delle leggi in esame, si formerebbero maggioranze variabili senza che questo provochi una crisi, cosa che peraltro non è una novità: è quello che è successo, per esempio, proprio di recente sul testamento biologico. Naturalmente bisognerebbe prevedere alcuni casi, ben delimitati, in cui le proposte del governo entrano comunque in vigore, come per le leggi di bilancio. Questo meccanismo permetterebbe la stabilità dei governi anche con una legge elettorale proporzionale, temperata solo da soglie di sbarramento non elevatissime per l’ingresso in Parlamento (al massimo il 5%, come in Germania).
I governi di minoranza sono frequenti in Europa e anche i costituzionalisti non ci trovano nulla di male. Invece di intestardirsi ad escogitare meccanismi che mortificano un numero crescente di elettori, come l’impennata dell’astensionismo negli ultimi anni testimonia, sarebbe ora di orientarsi anche in Italia su questa strada, visto che quella seguita finora non ha fatto altro che collezionare fallimenti.
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