CAMUSSO: “I SINDACATI SONO ANCORA NECESSARI”
Ed lo è certamente, obsoleta, se si pensa che, certamente
dentro l’eurozona, e in tutta l’UE (ma non solo), si parla, in modo assolutamente consolidato, di “mercato del lavoro”, e di connesse esigenze “sociali” funzionali ai “bisogni del mercato”: sicché la flexicurity viene fatta passare come una forma di attenzione al “sociale”, considerandosi le prevalenti esigenze del mercato, imposte dalla globalizzazione istituzionalizzata, come un fenomeno inevitabile e essenzialmente
equiparato agli…eventi meterologici. Un fenomeno col quale dobbiamo convivere, per sempre, perché tale è lo stato di “natura”.
2. Una redifinizione “nuovista” e modernamente €uropea del 1° maggio, quindi
naturalmente-naturalista (laddove appunto la ri-scoperta di
leggi naturali sarebbe un segno di progresso in quanto caratterizzata dalla scientificità più rigorosa), basata su questa
nuova versione del “sociale” – e Dio sa quanto questo vocabolo sia considerato tatticamente importante da Hayek (
qui, primo paragrafo), Einaudi
(qui, pp. 8-11), Roepke (
qui, p.6) e via dicendo- dovrebbe farlo ridenominare “festa del
mercato del lavoro”.
E se il mercato si applica al lavoro, a questo si deve naturalisticamente applicare la mera legge della domanda e dell’offerta considerandolo una merce che va acquisita come “fattore della produzione” e, dunque, riducendone il costo in ogni modo possibile e prioritariamente considerato conveniente sul lato dell’offerta.
Considerandosi dunque la prevalenza incondizionata del vincolo sovranazionale, specie in tema di lavoro (dato che per la nostra Corte costituzionale,
cfr; qui, p.3, ciò che incide sui “rapporti economici” non ha influenza sui rapporti politici e sociali!),
oggi, una €uropeisticamente legittima festa del lavoro, diviene la festa della “competitività” e del supply side.
Senza alcuno spazio per quello che Einaudi – e, insieme con lui, i liberisti fautori del gold standard (
qui, pp. 6-9) come soluzione alla crisi seguita alla prima guerra mondiale-,
denominava come protezionismo operaio (
guerrafondaio di per sè, naturalisticamente parlando).
3. Nel far ciò, Einaudi, (nel 1910!) rendeva esplicitamente conto dell’auspicata connessione tra immigrazione, condizioni di libero mercato del lavoro e, naturalmente, stabilità monetaria (i partiti socialisti ed i sindacati operai dei paesi che chiamansi più evoluti e il cui proletariato si è presa l’abitudine di indicar col nome di cosciente, invocano ogni giorno…l’istituzione di alte barriere contro la concorrenza non più delle merci, bensì degli uomini che potrebbero produrre le merci a basso costo).
E questa connessione trova una straordinaria omogeneità nell’interpretazione del medesimo fenomeno, solo visto dall’angolazione opposta,
compiuta da Marchais nel 1981: solo che a quest’ultimo, travolto dall’accusa di “razzismo”, secondo un nuovo e curioso concetto, nel frattempo invalso nella neo-lingua della restaurazione ordoliberista, non riuscì di farsi ricordare. Almeno tra coloro che si richiamavano, e si richiamano, alle istanze socialiste e
desinistra.
4. Sul punto ci riportiamo ancora alla spiegazione complessiva del fenomeno
fatta da Galbraith, (ovviamente anch’essa tacciabile di essere “obsoleta”):
“Il monetarismo…l’effetto di restrizione indotto dagli alti tassi (reali) di interesse sulle spese per beni di consumo e sugli investimenti…aveva funzionato, com’era evidente, producendo una grave crisi economica, un rimedio non meno doloroso del male.
Il “successo” di questa politica negli USA fu il risultato anche di una circostanza affine e poco prevista dagli economisti:…l’eccezionale vulnerabilità della moderna società industriale ad una combinazione di politica monetaria restrittiva, degli alti tassi di interesse, e dei risultanti tassi di scambio avversi (ndr: cioè una moneta troppo forte..cosa che ci riporta gli attuali giorni dell’euro).
Che la disoccupazione – indotta dalla politica monearista e da alti tassi di interesse-diminuisse il potere di contrattazione dei sindacati non era affatto sorprendente.
L’economia ortodossa accettava che la disoccupazione avesse l’effetto di condurre adiminuzioni di salari; era in tal modo che si conseguiva la piena occupazione neo-classica. Il sindacato era una forza che si opponeva a questo assestamento; se la disoccupazione era abbastanza grave, il sindacato doveva cedere“.
…
“Risultò però imprevisto l’effetto sulle imprese. Nelle industrie dell’acciaio, dell’automobile, della macchine utensili, delle attività estrattive, nelle linee aeree …l’effetto complessivo di quella politica, compresa la concorrenza straniera, condusse ad una riduzione delle vendite, determinò un’estesa inattività degli impianti e minacciò il fallimento e la cessazione delle attività.
In questa situazione i sindacati furono costretti non solo a dimenticarsi degli aumenti salariali ma anche a contrattare su riduzioni dei salari stessi e delle forme di assistenza.
Pur potendo ignorare in qualche misura le sfortune dei lavoratori disoccupati – la maggioranza era ancora occupata e aveva ancora una voce in capitolo decisiva-, non potevano i sindacati ignorare la minaccia della disoccupazione per tutti i lavoratori, minaccia che si sarebbe potuta concretizzare se uno stabilimento o un’intera industria avessero dovuto chiudere.
E quella divenne una prospettiva verosimile all’inizio del 1980 in un certo numero di industrie pesanti americane.
In precedenza non ci si era resi conto che un’azione forte del sindacato richiedeva una posizione forte dell’imprenditore. L’indebolimento della posizione di quest’ultimo determinava un grave indebolimento anche del sindacato…”.
5. Siccome non è mia intenzione fare un trattato e ripetere cose che, come attestano i links finora immessi (e quelli a loro volta contenuti nei posti linkati), abbiamo detto molte volte, vorrei però sottolineare la valenza italiana che assume oggi la festa del lavoro, derubricata, in chiave di supremazia del vincolo €uropeo, a “festa supply side del mercato del lavoro perfettamente flessibile & della competitività” (ovvero “del vincolo esterno”).
– instaurazione dell’area di libero scambio
– adozione di una moneta unica
– innesco degli squilibri commerciali
– stato di necessità insito nella privazione della moneta nazionale (come tale sovrana e democratica)
– accesso all’unica via di uscita delle riforme strutturali incentrate sulla precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro
– loro recepimento sanzionato dalla mancata concessione della liquidità necessaria per far fronte al debito verso i paesi creditori dell’area.
7. Il fatto è che gli italiani, –
in modo diffuso, e dunque anche, e inammissibilmente, in una parte consistente della classe lavoratrice-, “
sono nel loro complesso fortemente patrimonializzati, rispetto allo standard considerato ammissibile dal paradigma ordoliberista (almeno per un paese “inferiore”, in quanto “porco”,
che non fa mai abbastanza le “riforme”).
Sempre rammentanto che
il sistema €-ordoliberista delle “riforme” è uno strumento strategico per instaurare il modello socio-economico che piace a Wall Street, per i motivi molto ben indicati
da Bazaar in due commenti
in successione. Tanto più che, come evidenziava De Grauwe,
tale ricchezza è anche meglio distribuita che negli altri grandi Stati dell’eurozona, cioè appartiene a tanti, invece che a pochi (brutti italiani, cattivi, che se la godono senza meritarselo!).
Un difetto non da poco agli occhi degli ordoliberisti tedeschi e loro organi €-satellitari e che, come al tempo delle guerre delle cannoniere, un egemone colonialista, non può tollerare (e, infatti,
la Cina, paese più ricco del mondo, sul finire degli anni ’30 dell’800, se ne accorse a sue spese)”.
Ergo:
occorre, con ogni mezzo, porre gli italiani nella condizione di DOVERSI indebitare(preferibilmente verso creditori esteri)
e di essere “vincolati” a “realizzare” la loro garanzia patrimoniale, così ghiotta,
escogitando una serie di meccanismi collegati per renderli insolventi (cioè incapaci di ripagare il debito con i loro redditi).
Lo schema funziona così: fingendo strumentalmente di voler
individuare nel debito pubblico la causa della crisi economica (specifica dell’area euro),
si era arrivati, in realtà, a una prima spennatura: in nome degli spread, propinando che il debito pubblico italiano,
nel 2011, fosse
insostenibile, quando
ciò non era vero, come
ben sapevano gli stessi ideatori di questo primo attacco.
L’effetto-Monti (che trova però ampi antecedenti nelle manovre a raffica di Tremonti e un seguito nella coerenza dei governi sucessivi, fino ad oggi), ha, ad una prima “lettura”, portato alla distruzione della domanda interna per correggere gli squilibri dei conti con l’estero,mentre si è comunque finanziato allegramente il meccanismo dei fondi europei (ESFS e ESM), a effetto cumulativo di indebitamento pubblico italiano pro-domo dei sistemi bancari di Germania e Francia”.
8. Mai come su questa “edizione” della “festa supply side del mercato del lavoro perfettamente flessibile & della competitività” incombe un “arifate presto” di dimensioni fiscali magnificate (in senso percettivo-quantitativo e anche “enfatico) e, ove effettivamente realizzato, a carattere “finale”.
Ce lo dice chiaramente il DEF, a pag.5, nella sua parte effettivamente rilevante: quella che quantifica la misura del consolidamento fiscale (dichiaratamente orientato più alla nuova spending review che alla maggior imposizione fiscale, limitata, parrebbe, a misure di contrasto dell’evasione e di ampliamento della base imponibile mediante riduzione di detrazioni e deduzioni fiscali…trattasi, in quest’ultimo caso di “
illusione finanziaria“, ma transeat…).
9. Un punto di PIL all’anno di consolidamento fiscale per i prossimi due anni, dunque, non ce lo toglie nessuno.
Basta confrontare l’ammontare del crescente avanzo primario che viene garantito (all’€uropa) dal DEF, da attestare in prossimità del 3% del PIL già nel prossimo anno, per salire verso il 4% nei due anni successivi.
Ora questa misura di intervento fiscale, certamente gradito all’€uropa che lo richiede (anche più drasticamente e rapidamente),
risulteràinevitabilmente deflazionista e orientata a far aumentare ancora la disoccupazione/sottoccupazione e, di conseguenza, l’insolvenza di famiglie e imprese.
10. Dunque, mai come in questo 1° maggio, – ancor più che in quello che seguì l’estate del 2011 (dati i livelli di partenza del reddito e della disoccupazione)-, la prospettiva è quella della realizzazione della garanzia patrimoniale collettiva, e privata, delle famiglie dei lavoratori.
Di questo scenario incombente, dei suoi effetti macroeconomici e occupazionali effettivi, non si parla oggi, 1° maggio 2017. Si parla di tutt’altro.
Chissà perché.
Certamente non ne parlano i sindacati che, pure, oggi più che mai, dovrebbero essere in allarme rosso, cioè letteralmente “non dormirci la notte”, per le prospettive che la presenza italiana nell’eurozona (col suo cumulo di obblighi incessanti), proietta sul “mercato del lavoro”.
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