Call Center e le strane contraddizioni del mercato
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Alessio Sani)
Il protocollo d’intesa firmato dalle grandi imprese committenti del settore è un buon primo passo, quello successivo dovrebbe essere un incremento delle tutele contrattuali dei lavoratori.
Buon colpo messo a segno dal duo Gentiloni-Calenda. Il premier approfitta del tempo concessogli dalle magagne interne del Pd per intervenire nel settore dei call center, ottenendo le firme delle tredici aziende committenti più importanti per un protocollo d’intesa anti-delocalizzazioni.Si tratta di Eni, Enel, Sky, Mediaset, Tim, Vodafone, Wind Tre, Fastweb, Intesa SanPaolo, Unicredit, Poste Italiane, Ntv e Trenitalia, che rappresentano il 65% del settore sulla base del fatturato. In questi anni ci siamo abituati ad immaginare gli operatori di questi centri chiamate come lo stereotipo del nuovo precariato, merito anche del pur stanco cinema italiano. Chi non ricorda “Tutta la vita davanti”, film del 2008 di Paolo Virzì? Giovani, lavoratori nei servizi, obbligati dalla necessità economica ad accettare contratti miseri e le vessazioni produttivistiche dei superiori, nell’attesa di un futuro che probabilmente non arriverà mai, questo il ritratto che il regista ha disegnato con la macchina da presa di una generazione falcidiata dalle poche opportunità.
Non è andato molto lontano dalla realtà, Virzì, visto che adesso, dieci anni dopo, molti di quei giovani si ritrovano con qualche capello grigio in più, ma con lo stesso posto di lavoro. Come evidenzia una recente relazione di settore, infatti, la maggior parte degli operatoti dei call center ha ormai superato i trent’anni e ha scarsissime prospettive di reimpiego in altri settori. Così Gentiloni può giustamente rivendicare il protocollo da lui voluto come “un’ancora di protezione sociale”, gettata da chi comunque sostiene la società aperta. Se dunque il Governo ne fa una giusta, è davvero una mossa sufficiente? È un modello replicabile anche in altri settori colpiti dalla delocalizzazione selvaggia? Questo ci porta a porci alcune domande sulle specificità del settore di mercato coinvolto.
In base agli strumenti d’analisi offerti dall’economia ortodossa, in sostanza una sintesi tra pensiero marginalista e pensiero neoclassico, il settore dei call center è un settore che rasenta la perfezione. Il principio cardine del libero mercato è infatti la concorrenza, postulata dai marginalisti prima di ogni enunciazione teorica, che però, fanno notare i neoclassici, nella realtà praticamente non esiste, esistono invece i mercati oligopolistici. Quello che si deve valutare allora sono le barriere all’entrata, cioè quanto è difficile per un imprenditore inserirsi nel business. Nel caso dei call-center le barriere sono praticamente inesistenti, dunque abbiamo un settore ad alta concorrenza, che si avvicina ai modelli teorici. Anche il livello di concentrazione del mercato non è eccessivamente elevato visto che, a fianco di quattro grandi operatori che detengono circa il 40% del settore (tra di essi Almaviva), si pongono alcuni gruppi di medie dimensioni e numerosi di piccole dimensioni, che spesso operano borderline, sfruttando agevolazioni locali e tutte le pieghe offerte dalla deregolamentazione del mercato del lavoro. L’unico collo di bottiglia è dal lato della committenza. Le tredici grandi aziende citate prima, infatti, hanno un certo potere nel fare il prezzo. Chiaramente lo spingono verso il basso e questo, sommato all’alto livello di concorrenza, esercita una forte pressione sui margini degli operatori del settore, che non a caso sono in costante contrazione da dieci anni a questa parte. Ultimamente si rischia la marginalità negativa.
A questo punto dobbiamo concentrarci quindi sui bilanci dei singoli operatori. Scopriamo così che il costo del lavoro pesa per circa l’80% del fatturato. Si tratta di circa 80mila persone, per circa 49mila unità FTE (quindi un buon numero di part-time), delle quali più o meno il 73% sono gli operatori telefonici, quelli che effettivamente telefonano. Se quindi le aziende, spinte dalla competizione, vogliono aumentare la propria redditività, cioè tagliare i costi, devono necessariamente intervenire sul costo del lavoro. Come fare? Beh, qui si arriva ad una delle contraddizioni del capitalismo globalizzato contemporaneo. Le strade sono infatti principalmente due, almeno a livello teorico, poi esistono mille possibilità tecniche specifiche. O si sviluppano tecnologie labour saving, cioè si aumenta la produttività, ma queste devono costare meno rispetto al costo del lavoro, altrimenti sono antieconomiche, oppure si va a cercare il lavoro dove costa meno.
In Italia ci troviamo pertanto in una situazione paradossale. Abbiamo un mercato del lavoro interno che ha perso buona parte di quelle che i sindacati chiamano tutele e gli economisti ortodossi rigidità, e un alto tasso di disoccupazione. Sempre in base all’economia ortodossa si dovrebbe allora insistere nell’aumento di flessibilità del mercato del lavoro, per spingere gli stipendi ancora più in basso. Raggiunti i limiti minimi imposti per legge di retribuzione e tutele, infatti, le aziende, pressate dalla concorrenza, cominciano a perdere redditività e sono pertanto costrette ad aggirare quei vincoli delocalizzando. Il fatto che lo facciano in un settore come quello dei call center, che teoricamente è protetto da una barriera non tariffaria molto alta, quella linguistica, è segno della forza della globalizzazione. Non esistono ostacoli culturali per l’economia, solo calcoli di efficienza economica.
E le tecnologie labour saving, la robotizzazione che toglierà il lavoro a tutti quanti, call center in primis? Quella può aspettare, arriverà solo quando costerà talmente poco da costare meno di un disperato di un mercato in via di sviluppo o, viceversa, quando il costo del lavoro globale sarà aumentato a sufficienza. In un certo senso, quindi, le delocalizzazioni rallentano lo sviluppo tecnologico dei paesi che fanno corsa di testa e li obbligano a livellarsi coi catch-uppers. Non è un caso, infatti, che sia uscito questo studio di Tronti sulla mancata crescita della produttività italiana negli ultimi vent’anni, per lui correlata alla precarizzazione del lavoro. Il meccanismo è quello già esposto: se il lavoro, in Italia o all’estero, costa meno, la tecnologia non serve per risparmiare, dunque non la si sviluppa.
Arriviamo così alle motivazioni che hanno portato il Governo a spingere per questo protocollo d’intesa. L’obbiettivo pare essere quello di “congelare” la corsa al ribasso, colpendo il target corretto, cioè le aziende committenti dotate di potere di mercato. Allo stesso tempo però servirebbe un aumento delle tutele contrattuali dei lavoratori, aumentando così i prezzi. Questo spingerebbe l’innovazione, permettendo solo ai lavoratori più qualificati degli help desk, quelli che svolgono le operazioni più complesse, di continuare a passare la giornata al telefono. Per gli altri un impiego lo si troverà, una società che cresce sviluppa sempre nuovi bisogni, a differenza di una che fa corsa al ribasso.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/italia-2/call-center-e-le-strane-contraddizioni-del-mercato/
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