Il divorzio delle identità
di SENSO COMUNE
*****
Una premessa introduttiva
Articolo interessante di SENSO COMUNE, apologetico del ‘populismo’ come reazione necessaria al fenomeno della globalizzazione, ma a tratti anche molto discutibile. Riporto alcune osservazioni a mio avviso essenziali prima dell’articolo vero e proprio:
1. Ritorna qui la classica idea post-fordista (negriana) per cui il lavoro si sarebbe estinto, concetto che ormai sappiamo non appare del tutto realistico. Il lavoro nel complesso diminuisce, ma nel frattempo si intensifica il suo sfruttamento nei segmenti produttivi che sopravvivono e che rimangono attivi, sia in Italia, sia in quello italiano delocalizzato all’estero. Vero è però il fatto che si debba fare sempre di più i conti con un “esercito industriale di riserva” (o temporaneamente disoccupato) italiano e straniero immigrato. Ma, anche in questo senso, l’affermazione che il lavoro sia scomparso non corrisponde al vero.
In realtà “l’esercito industriale di riserva” è totalmente funzionale all’attuale produzione e al lavoro sfruttato proprio perché potenzialmente sempre disponibile, e quindi ‘pronto all’uso’. Perciò la forza lavoro disoccupata NON è un oggetto che rimane al di fuori del lavoro stesso, e le due condizioni (disoccupato\occupato) vanno considerate piuttosto come l’una la componente imprescindibile dell’altra.
2. Anche l’idea che non esistano più le classi e che si debba ricorrere alla categoria di un “popolo” rarefatto, indistinguibile, diventa anch’esso poco realistico. Rimangono tutta una serie di tipologie ancora tradizionali che coinvolgono dipendenti pubblici, privati, subordinati, imprenditori, liberi professionisti, precari, artigiani, ecc. Se mai è vero che, a partire dalle riforme Treu e Biagi, sono prolificate le tipologie di contratto; sono aumentate le dicotomie tra giovani e pensionati, dipendenti precari e dipendenti con il posto fisso; è aumentata la terziarizzazione delle imprese e degli appalti. E questo ha sicuramente comportato una maggiore disarticolazione della società.
Sono stati progressivamente smantellati i contratti nazionali, che tendono ad essere sostituiti e svuotati da protezioni sempre più circoscritte e personalizzate. Tuttavia, il free lance, la start up, il lavoro individuale, rimangono delle mere illusioni, false categorie che andrebbero ricollocate piuttosto in gruppi più ampi oggettivamente riconoscibili.
Di fatti, lungi dall’essere state eliminate le peculiarità che, viceversa, contraddistinguono ancora le classi tutt’ora esistenti, bisogna sforzarsi di rintracciarle in quanto servono a descriverle. Basti pensare, ad esempio, alla differenza di accesso al credito tra una PMI e la grande industria; oppure i così diversi regimi di tassazione che, per esempio, si alleggeriscono per la multinazionale straniera, mentre mettono completamente sotto attacco la piccola impresa e la partita iva.
Occorre fare ricorso piuttosto all’idea di pluri-classismo, abbandonando della ‘sinistra storica’ (certamente criticata dall’articolo di SENSO COMUNE) il punto di vista di un unico soggetto politico riformista, che tradizionalmente si identificava in quello del proletariato. In quanto solo un’alleanza tra più ceti (insieme alla piena applicazione della Costituzione del ’48) può creare, nelle attuali circostanze, la premessa ideologica capace di sostenere lo Stato nel suo compito di disciplina e di regolamentazione del capitale.
3. In questo senso, e qui ci troviamo d’accordo, l’articolo valorizza allora l’idea di ‘populismo’ come vecchio\nuovo modo di ri-costruire l’identità politica in lotta. Quindi, ‘popolo’ si, per cultura, tradizioni, e storia; ‘popolo sovrano’, si, che deve recuperare il controllo della democrazia esautorata da organismi transnazionali come la commissione europea. Viceversa, dal punto di vista economico e sociologico, secondo noi è un grosso errore abbandonare la categoria di ‘classe’, che non rimuove, ma al contrario arricchisce e distingue, anche nelle sue singole parti, quella più complessiva di ‘popolo’.
*******
…di come si modellano le identità nel ventunesimo secolo. Cosa rimane di classi, popolo e sinistra?
Chiunque in Italia si definisca – genericamente o meno – di sinistra, è certo che abbia passato gli ultimi anni afflitto da un continuo senso di frustrazione. Senso di frustrazione probabilmente aumentato dai successi che, invece, nuovi movimenti e nuovi modi di fare politica, popolari e partecipati, hanno conquistato nei propri paesi: ieri in Spagna, oggi in Francia, il consenso delle classi popolari è riuscito a riappacificarsi, in maniera ampia e netta, con chi vuole riorganizzarne il protagonismo sulla scena politica.
Cosa ci sfugge, cosa non riusciamo a comprendere di questo “momento populista” che sta attraversando (nel bene e nel male) tutta Europa e anche la società italiana? Probabilmente anche in Italia è arrivato il momento di liberarci di alcune “certezze” che hanno reso grande il Novecento e la storia del nostro paese, ma che oggi pesano come macigni sulla nostra capacità di saper intercettare ed organizzare il consenso popolare.
Due sono le questioni che mi sembrano centrali a tal fine: innanzitutto, comprendere come nell’Italia (ma, più in generale, nell’Europa e nel mondo occidentale) del ventunesimo secolo si sviluppino e compongano le identità collettive ed individuali che nelle nostre analisi “classiche” sembrano saldamente “immutabili”; successivamente, e nel merito del nostro paese, capire che tipo di discorso politico sia necessario utilizzare, da parte di chi si ponga l’obiettivo di un cambiamento radicale, democratico, progressista, per intercettare (ed egemonizzare) i gruppi sociali che su tali identità si formano.
In questo scritto affronterò il primo tema, quello dell’articolazione delle identità nell’attuale fase di sviluppo del capitalismo, che mi sembra preliminare rispetto all’individuazione di qualsiasi proposta/pratica politica che voglia essere efficace rispetto all’aggregazione di consenso: se non riusciamo a comprendere come, oggi, funzionino i meccanismi di identificazione di coloro che compongono le classi popolari, non possiamo certo aspirare alla costruzione di una proposta politica che tali identità aspiri a rappresentare (nel senso non tanto descrittivo quanto piuttosto, come vedremo, conformativo).
Non che un tale tipo di analisi sia nuova: uno dei punti di svolta dato dal pensiero marxista al movimento operaio è stata proprio la “scoperta” dell’identificazione, della coscienza di classe come elemento necessario per la presa del potere e, quindi, per il superamento del capitalismo. Solo nel momento in cui la classe operaia operava il proprio riconoscimento, da un lato quale strumento attraverso cui il capitale estraeva plusvalore, dall’altro quale gruppo in grado di ribaltare il sistema produttivo, era possibile operare un cambiamento rivoluzionario.
Ma era soprattutto con Antonio Gramsci, con la proposizione della questione dell’egemonia culturale, che il tema dell’identificazione, al di là della propria condizione lavorativa e come frutto del discorso politico egemone nella società, assumeva centralità: non bastava più la presa di coscienza da parte dei lavoratori salariati della propria condizione di classe per il superamento del capitalismo, ma era anche necessario che la classe operaia, attraverso la mediazione del partito, delle istituzioni e degli intellettuali, fosse in grado di rinunciare a una visione “corporativa”, allargando così la propria area di influenza e il proprio consenso ad altri gruppi subalterni e costruendo egemonicamente il proprio “punto di vista” attraverso una fusione degli obiettivi economici, politici, intellettuali e morali di larga parte della società che sostituisse l’orientamento borghese.
L’analisi di Gramsci introduceva, cioè, un elemento (lo definisco con una lettura assolutamente contemporanea) “discorsivo”, capace di creare identificazione: oltre a quello materiale, tipico della classe operaia e derivante dalla propria condizione lavorativa (che ti permetteva di riconoscerti come classe) era necessario, mediante un sapiente utilizzo di discorso politico, istituzioni (scuola, religione ecc.) e lavoro culturale, creare un’identificazione più ampia (che io qui definisco di popolo) che permettesse almeno alla maggioranza della popolazione lavoratrice, in quanto comunque sfruttata pur se non nella posizione di influire (come gli operai) sul sistema produttivo, di riconoscere la necessità del superamento del capitalismo e di allearsi con il movimento operaio.
Questa – felice – intuizione è quella che, sviluppata, ha permesso ai/alle comunisti/e dell’Italia del dopoguerra di avere un ruolo senza uguali nella storia repubblicana (pur senza mai centrare il governo del paese): si pensi all’investimento del PCI di Togliatti, soprattutto attraverso il ruolo di editoria, giornali, intellettuali (esemplare la costruzione del mito, italiano e contadino, del sacrificio dei fratelli Cervi) sulla costruzione di un’identità, antifascista e lavoratrice, del popolo italiano quale sintesi e inglobamento della divisione operai/contadini, città/campagne, nord industriale/sud agricolo.
In un certo senso, la capacità del Partito Comunista Italiano dei decenni del dopoguerra è consistita proprio in questo: l’aver colto (o, probabilmente, l’aver saputo combinare) la coincidenza in quell’Italia tra un’identità – forte – di classe (specialmente nelle grandi città e nelle zone industriali), un’identità di popolo derivante da un discorso politico (quello dell’immediato dopoguerra) fortemente progressista e rivolto alla costruzione del futuro e, aggiungo infine, un’identità ideologica, di sinistra e comunista, che tali esigenze rappresentava.
Succede poi che, arrivati nell’ultima parte del secolo scorso, tale “incantesimo” abbia iniziato a scricchiolare: la coincidenza tra questi tre aspetti di espressione dell’identità (e in generale la capacità di formazione di tale identità) non è più stata uguale a prima e tali trasformazioni hanno travolto, ed anzi capovolto, come è ben evidente, la capacità analitica e rappresentativa della sinistra rispetto a lavoratori/lavoratrici e popolo (uso qui il termine in senso lato):
Mi sembra che tale rovesciamento possa essere imputato specialmente alla combinazione di questi tre fattori:
- il cambiamento del modello produttivo e di organizzazione del lavoro: su tali trasformazioni del mondo del lavoro è stato già detto moltissimo. Ai nostri fini, è sufficiente che esse siano citate per sottolineare la difficoltà che l’identificazione di classe, intesa appunto come identificazione nelle proprie condizioni materiali, incontra in un modello produttivo in cui si tendono a cancellare i luoghi di lavoro comunitari – e con essi il confronto e il riconoscimento tra soggetti che condividono la stessa situazione – in favore di un’atomizzazione dei luoghi produttivi. Se nel secolo passato l’identificazione nel proprio lavoro, assieme a quella comunitaria, era praticamente “naturale” (tanto che i singoli soggetti identificavano praticamente l’interezza della propria esistenza con la propria condizione sociale), oggi, in un contesto di lavori precari e solitari, è sempre più difficile che le persone si identifichino nella propria condizione lavorativa, che vivono magari come contingente, instabile e frustrante, quanto piuttosto in identità basate su altri elementi.
- la “scomparsa” del lavoro: tale fattore va inteso su una doppia direttrice, materiale e di rappresentazione. Da un lato, la “scomparsa” materiale del lavoro dovuta all’evoluzione tecnologica (sviluppo industria 4.0 ecc.), sebbene per ora più in nuce che altro, impone di ripensare non solo i meccanismi di redistribuzione del reddito ma anche, e forse soprattutto, di capire come i meccanismi di identificazione e di inserimento delle persone nella società, in mancanza di un ruolo lavorativo stabile, si modifichino. Dall’altro, poi, la scomparsa della rappresentazione pubblica del mondo del lavoro (nel mondo politico e nel mondo della comunicazione) comporta, nel contesto attuale, la difficoltà di un immediato riconoscimento pubblico e collettivo del proprio ruolo lavorativo, relegato alla sfera privata.
- L’espansione dei media e dei social network: è questo uno dei fattori che con più forza ha inciso sul cambiamento dei meccanismi di identificazione, individuale e collettiva, delle persone: la mediatizzazione permanente in cui tutti siamo immersi, in particolar modo dopo l’avvento dei social network, ha capovolto completamente la percezione e la costruzione della propria identità e del proprio ambiente di riferimento. Se infatti nel corso dei secoli passati, almeno sino gli anni 60-70 del Novecento, le persone potevano sperimentare fondamentalmente due tipi di comunità su cui modellare la propria identità e la propria percezione di sè – lavoro e famiglia (allargata) -, le trasformazioni conseguenti allo sviluppo delle tecnologie della comunicazione hanno contribuito ad allargare enormemente il proprio “spazio di manovra”, facendo sì che ognuno sperimentasse una “realtà” molto più larga di quanto si potesse immaginare qualche decennio fa.
In questo senso, è paradossalmente oggi più facile costruire la propria identità in opposizione, o in accordanza, a esperienze mai realmente sperimentate nel mondo fisico, ma che incontriamo in quello virtuale, ormai parte del reale a tutti gli effetti, piuttosto che sulle esperienze affrontate quotidianamente, le quali hanno invece meno impatto, sulla costruzione dell’immaginario collettivo di quanto non avessero un tempo.
L’influenza, prorompente, dei fattori citati ha avuto un effetto che potremmo definire devastante sull(e) organizzazione/i e sulla rappresentazione delle classi popolari: l’impossibilità di riconoscersi in una classe sociale da cui trarre la propria identificazione e il proprio ruolo nella società contemporanea (e nel suo superamento); l’impossibilità, ancora, di riconoscersi in prospettive di superamento dell’attuale modello proposto dalla sinistra storica, vuoi perché gran parte di essa già dagli anni ’90 ha abbandonato ogni velleità di cambiamento e di rafforzamento dei ceti più deboli, vuoi perché si è continuato ad identificare gruppi che non si (auto)identificavano più, ha portato alla completa scomparsa dall’orizzonte popolare di un’opzione politica che si prefigga l’obiettivo del cambiamento economico e sociale, della liberazione del lavoro, della democratizzazione (radicale) della politica e dell’economia.
Ed eccoci ritornati all’Italia del 2017, alle domande iniziali su che tipo (tipi) di identità possediamo oggi, come si costruiscano e modifichino.
Mi sembra abbastanza evidente che, oggi, per ricostruire un’opzione politica (anche solo genericamente) progressista o addirittura socialista, non ci si possa basare, per quanto detto, su una diretta identificazione di classe, fosse pure ridefinendo la composizione di classe in modo diverso ed ulteriore rispetto alla classe operaia di marxiana memoria. E ciò non tanto perché le classi sociali non si siano modificate in conseguenza dello sviluppo tecnologico e produttivo (ciò che, naturalmente, è successo, anche se forse in misura minore di quanto si tenda a propagandare) ma perché, come abbiamo già detto, non è più il lavoro ad identificare in via immediata e diretta l’identità del soggetto, individuale e collettivo.
Mi sembra, dunque, uno sforzo vano cercare la “sostituzione” della classe dei lavoratori salariati (che continua ad esistere e che continua, a mio parere, ad essere snodo fondamentale dell’accumulazione del capitale) con un diverso blocco sociale fisso, sia esso il “cognitariato” o il popolo inteso come sommatoria di classi sociali, alleanza tra lavoratori salariati e piccoli produttori, semplicemente perché non sono questi i gruppi in cui le persone oggi si identificano immediatamente e direttamente, sui quali costruiscono identità fisse e immutabili nel corso della propria esistenza e replicabili in diversi territori e alle quali si debba fornire diretta espressione politica.
In realtà, il nostro sforzo dovrebbe essere quello di individuare gli attuali modi di formazione delle identità, e da qui ripartire per cercare di organizzare chi fa parte delle classi più basse in una prospettiva radicale e progressista. Come anticipato in precedenza, la comunicazione svolge un ruolo predominante nell’odierna società dello spettacolo ed è da ritenere come mezzo fondamentale per la costruzione di identità (sia ben chiaro, precarie nel tempo e anche territorialmente limitate) così come del discorso politico (in senso lato) egemone nella società.
È ciò che, anche qui sopra parlando di Gramsci, ho chiamato identità popolare e che, per poter essere una categoria a noi utile, non deve sostituire l’identità di classe basata sulla struttura economica, ma deve riferirsi alle identità collettive che si costruiscono attorno alla linea di separazione egemone della società in un dato momento. Identità non fisse, in quanto al superamento dell’egemonia di un discorso corrisponde la formazione di una diversa identità collettiva predominante; identità che, tuttavia, meglio si attanagliano alla fluidità dei tempi presenti, che ci hanno lasciato senza parole capaci di affrontarli e sovvertirli.
È della formazione e del susseguirsi di tali identità, della costruzione di un discorso politico in grado di costruire consenso nei nostri fluidi tempi interessanti, che si occupa il populismo. Chiamiamo populismo, cioè, quella pratica politica che, basandosi su un elemento discorsivo che si propone di fungere da linea di frattura egemone nella società, crea identità popolari in cui si riconosce un’ampia collettività; pratica che è oggi probabilmente l’unica in grado, ruotando attorno al perno, fondamentale nella contemporanea epoca di mediatizzazione permanente, dell’egemonia del messaggio e del discorso politico, di permetterci di incidere sulla costruzione di identità collettive.
In questo senso, il populismo, non avendo in-sè alcuna posizione di merito sul cambiamento o il mantenimento dei rapporti sociali, deve essere considerata una pratica neutra, utile al pari a costruire identità progressiste, reazionarie e anche conservatrici (v. caso Macron in Francia), ma necessaria per poter partecipare, come detto, a ciò che costituisce il primo fondamento di riaggregazione nella nostra società atomizzata, ovvero la costruzione di identità collettive popolari.
Senza identità, non ci può essere organizzazione politica, non ci può essere coscienza collettiva. Se vogliamo fare politica, se vogliamo, ancora, cambiare questa società e questo modello economico basati sullo sfruttamento, dobbiamo ripartire da quelle che sono, e da come si formano, le identità nel nostro tempo presente. Se noi non lo facciamo, se noi abbandoniamo questo campo di battaglia, saranno altri ad imporre una linea di frattura egemone attorno cui costruire le identità, una linea che taglierà inevitabilmente il campo degli sfruttati e non una che lo dividerà da quello degli sfruttatori.
È arrivato dunque il momento, di iniziare anche noi, in Italia, ad elaborare un discorso politico in grado di partecipare al “gioco” populista, per riniziare a riaggregare, per ripoliticizzare il senso comune in senso egualitario, per la democrazia radicale nella politica, nell’economia, nella produzione.
Studiamo il senso comune, capiamo qual è oggi la frattura della società egemone, cerchiamo di individuare quella che, attraverso una risignificazione politica, possa diventarlo in un’ottica di costruzione del consenso attorno al superamento delle disuguaglianze.
Auspico che sarà questa l’analisi a tenerci impegnati nei prossimi mesi, la discussione sul tema centrale della costruzione del discorso politico (potenzialmente) egemone e dei mezzi per diffonderlo.
Ce lo dobbiamo. Lo dobbiamo all’Italia, alla sua storia, al suo presente e al suo futuro.
Fonte:http://www.senso-comune.it/claudia-candeloro/divorzio-delle-identita/
Commenti recenti