A sinistra del Pd: una questione di pratiche
di ALESSANDRO GILIOLI
Come cittadino italiano sono contrario a una soglia di sbarramento alta come quella che si profila – il 5 per cento – perché rischia di lasciare senza rappresentanza anche liste con 1,5-2 milioni di elettori. Sono convinto che l’esclusione delle idee espresse da una fascia così ampia di persone sia non solo sbagliata ma anche dannosa: la extraparlamentarizzazione dei conflitti sociali o culturali non ha mai portato nulla di buono all’Italia.
Come potenziale elettore – forse – di quell’area che viene abitualmente chiamata “a sinistra del Pd”, sono invece assolutamente favorevole alla soglia del 5 per cento.
Insomma, una specie di conflitto d’interessi alla rovescia.
Sono favorevole, come potenziale elettore di sinistra, perché quell’area lì ha nel suo passato recente e forse nel suo dna la tendenza a far prevalere la somma aritmetica dei suoi partitini a un vero progetto comune, che parli oltre la sua storica nicchia di militanti e attivisti.
Questa somma aritmetica – una sorta di Sacro Graal – finisce insomma per stimolare le pratiche più radicate e meno utili a un cambio di passo: scarsa progettualità comune sulle real issues politiche e sociali, lottizzazione delle liste, corsa disperata a mandare o rimandare in Parlamento un pezzo di ceto politico che altrimenti resta senza lavoro.
Siccome gli elettori non sono scemi, queste cose le percepiscono.
Con i risultati, nelle urne, a tutti noti. Cioè sempre un decimale sotto o sopra quella fatidica soglia, con una sostanziale ininfluenza politica e culturale in entrambi i casi.
Ben venga quindi il 5 per cento, se costringe la variegata area a sinistra del Pd a fare un bel cambio di passo e di mentalità. Che diventa condizione indispensabile per una progettualità politica, di cui la corsa elettorale è solo un effetto collaterale.
Un cambio di passo e di mentalità che si può basare solo su due colonne portanti: questioni reali e pratiche di coinvolgimento (se non temessi di essere fucilato dagli antianglofoni, userei le formule: real issues e people engagement).
Questioni reali: un manifesto molto basico basato su uno o due temi fondamentali (disuguaglianza, redistribuzione, nuove povertà, lavoro, reddito, patrimoniale, civiltà e umanità sulle migrazioni, basta così).
Pratiche di coinvolgimento: Il manifesto è la piattaforma a cui aderiscono non solo partiti e associazioni, ma anche e soprattutto singoli, individui, cani sciolti, persone d’area e fuori dalla nicchia. Gli aderenti a questo manifesto dovrebbero essere il corpo elettorale per scegliere liste e frontmen, una testa un voto.
Sono perfettamente consapevole che la semplicità di queste pratiche e di questo percorso cozza contro un’antica tradizione in senso contrario: trattative, divisioni, personalismi e antipersonalismi, scomuniche reciproche, etc. Una tradizione che affonda le sue radici culturali nel Concilio di Nicea – o forse in quello di Efeso.
Proprio per questo – e lo dico con solida assertività – sarebbe il percorso giusto, sarebbero le pratiche giuste.
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