Ancora contro l’economicismo
di SINISTRA RETE (Ugo Boghetta e Mimmo Porcaro)
Cari compagni,
anche se non ci è possibile partecipare al convegno su “Comunisti, blocco sociale e populismi” da voi organizzato, riteniamo comunque doveroso mandarvi un nostro contributo perché la vostra lettera di invito non chiama ad un generico dibattito ma individua nodi assai importanti, sui alcuni dei quali qui vorremmo esprimervi il nostro punto di vista.
Per cominciare vogliamo sottolineare un fatto che tutti noi diamo talmente per scontato da non riuscire a coglierne appieno il significato: l’arretramento generale dei comunisti in Occidente deriva soprattutto dalla sconfitta del comunismo storico novecentesco, ed è soprattutto a causa di ciò che i comunisti arrivano disarmati, come voi notate, all’appuntamento con l’attuale crisi del capitalismo.
Ci sembra opportuno richiamare questo evento “genetico” perché, ad esempio, il “politicismo” che giustamente criticate (ossia la propensione per il lavoro istituzionale, l’allontanamento dal confronto quotidiano con le masse, ecc. ) può essere veramente superato soltanto se si comprende che esso deriva anche dal fatto che la politica (compresa la nostra politica) da molti anni si svolge “in assenza di orizzonte”, ossia senza il riferimento concreto ad un’alternativa radicale allo stato di cose presente.
In queste condizioni un vero superamento del politicismo non può consistere soltanto nel recupero della dimensione militante e di massa del nostro intervento, ma richiede che tutto ciò sia accompagnato dall’indicazione di una politica che sia degna di questo nome, e che quindi sia orientata all’avvicinamento concreto ad una forma possibile di socialismo. Un avvicinamento che non può non includere, in particolare in condizioni di crisi, esperienze di governo sia a livello locale che, soprattutto, nazionale.
Se non ci poniamo questi problemi (e porseli non significa certo correre verso una qualunque soluzione istituzionale non appena essa sia apparentemente possibile) ci riduciamo al vertenzialismo, fungiamo, magari con buoni risultati, da “struttura di servizio” per le proteste e per i movimenti, ma al momento delle scelte politiche generali lasciamo di fatto le masse in balia delle numerose pseudo-alternative presenti sul mercato, e così favoriamo di nuovo una forma di politicismo.
Inoltre, in mancanza di un obiettivo generale che imponga di pensare alla connessione tra l’azione di oggi e quella di domani, i nostri quadri, fissandosi sulla dimensione tattica immediata, finirebbero per essere comunque subalterni alle situazioni date (sia nella società che nelle istituzioni) oscillando inevitabilmente tra movimentismo e opportunismo. La difficoltà dell’iniziativa quotidiana di massa dipende anche dalla nostra incapacità di indicare ad esse una realistica speranza. E d’altro canto il naufragio della quasi totalità dei militanti che abbiano avuto incarichi istituzionali non deriva solo dall’assenza di rapporto con le masse, ma anche dall’assenza di rapporto con una prospettiva.
Detto questo, a noi pare che sia utile individuare sinteticamente gli elementi di debolezza teorica del nostro campo (debolezza a cui voi fate più volte cenno) nell’incompleto superamento della versione economicista del marxismo, versione che aveva iniziato ad essere efficacemente criticata negli anni ’70 ed ’80 dello scorso secolo grazie ad un lavoro teorico che si è però di fatto interrotto con il crollo dell’esperienza del socialismo reale e con la connessa crisi del movimento operaio occidentale.
Estremizzando (ma non troppo) i tratti fondamentali dell’economicismo marxista, diremo che esso è caratterizzato dalle seguenti tesi:
la dinamica sociale del capitalismo è mossa dallo sviluppo delle forze produttive;
tale sviluppo è lineare e progressivo e determina univocamente le forme culturali e politiche che gli corrispondono e che da esso dipendono in maniera meccanica; lo sviluppo delle forze produttive ha un contenuto sostanzialmente “neutrale”, perché dà luogo ad una socializzazione della produzione che costituisce la base della società socialista;
esso peraltro produce anche il soggetto della rivoluzione socialista, perché generalizza il lavoro salariato e lo concentra in masse sempre più grandi, aumentandone la forza sociale e la consapevolezza politica, cosicché il punto più alto di sviluppo del capitalismo diviene anche il punto del suo rovesciamento radicale.
In modi diversi, questo economicismo ha influenzato sia la seconda che la terza internazionale, ha contato non poco nel condizionare negativamente la strategia del movimento comunista e la stessa costruzione del socialismo, e si può agevolmente dimostrare che esso influenza decisamente anche quella che è, purtroppo, la forma attualmente più diffusa di marxismo in Italia e in Europa: il cosiddetto operaismo, poi post-operaismo, poi “italian theory”, che peraltro riassume ed estremizza molti degli errori dell’intera sinistra radicale.
All’opposto di quanto abbiamo appena sintetizzato, la critica antieconomicista, che riteniamo vada ripresa e sviluppata, parte invece dall’assunto secondo cui la dinamica del capitalismo è mossa dalla necessità di riprodurre i rapporti sociali antagonistici tra capitale e lavoro ( e, a livello mondiale, fra territori dominanti e territori subalterni). Lo sviluppo delle forze produttive è una delle forme della riproduzione di questi rapporti antagonistici, e quindi le stesse forze produttive sono tutt’altro che “neutre”: la tecnologia è costruita in modo da favorire la subordinazione dei lavoratori, e la stessa socializzazione della produzione avviene in maniera gerarchica, opponendo capitali grandi e piccoli, territori subordinati e dominanti.
Proprio il carattere antagonistico dei rapporti sociali fa sì, inoltre, che essi non possano essere riprodotti soltanto per via economica, e rende necessario l’intervento stabile dello stato che, perciò, deve essere ritenuto elemento essenziale del funzionamento del capitalismo, un elemento che agisce in forme specifiche (diverse in ogni fase storica), che non è semplice appendice dei monopoli, e che, a differenza di quanto spesso argomentano gli economicisti, non può sparire a causa di una presunta integrazione armonica dei processi produttivi mondiali.
L’antagonismo dei rapporti sociali, le contraddizioni della socializzazione, le forme diversificate dell’azione dello stato spiegano il carattere disarmonico e non lineare dello sviluppo delle forze produttive e del complesso della società: nessuna legge prescrive che il risultato della dinamica del capitalismo sia sempre e comunque una maggiore integrazione dell’economia mondiale, né che a questa eventuale integrazione (che andrebbe peraltro assai meglio misurata, stabilendo in maniera univoca quali siano i criteri che ci fanno dire se essa cresce o diminuisce) debba necessariamente corrispondere una ed una sola forma di stato, ossia uno stato globale e sovranazionale e/o un non-stato dedito soltanto ad alcune funzioni tecnico-amministrative.
Le tre forme-base assunte dalla statualità (la città stato – o stato regionale, lo stato nazionale e l’impero) non sono i gradini di un progresso che inevitabilmente conduce dal “più piccolo” al “più grande”, ma sono forme che vengono di volta in volta usate o scartate a seconda se siano in quel momento funzionali o meno alla riproduzione dei rapporti tra capitale e lavoro e tra diverse frazioni di capitalisti. Il passaggio dal semi-impero statunitense e/o dal polo imperialistico europeo ad una nuova tendenziale nazionalizzazione non è un incidente occasionale, un malaugurato intoppo nelle “magnifiche sorti e progressive” del capitalismo: è il risultato degli antagonismi acutizzati dalla globalizzazione, l’inevitabile ritorno alla frammentazione ed alla guerra dopo la falsa pacificazione mercantile del mondo.
Nonostante quanto si dice in giro sull’irreversibilità della “Storia”, quindi, il capitale può “tornare indietro” (altrimenti non sarebbe tornato al liberismo, o non sarebbe tornato – dando vita all’euro – alla rigidità monetaria propria di quel gold standard che era stato a suo tempo abbandonato). E così possiamo fare anche noi: i grandi marxisti antieconomicisti ce lo hanno detto. Gramsci scriveva che se è vero che l’unità nazionale è un fatto obiettivamente progressivo, quando il processo di unificazione è univocamente gestito a vantaggio delle classi dominanti nulla vieta ai subalterni di tornare almeno momentaneamente a forme regionalistiche.
E Lenin, a favore dell’autodeterminazione delle nazioni e contro le teorie dell’ultraimperialismo già allora in voga (e terribilmente smentite dal primo conflitto mondiale,) diceva che il fatto che l’economia di una nazione sia “ormai” integrata a quella di una nazione più grande e potente, non deve essere sempre e comunque considerato irreversibile e positivo: se si tratta di un’integrazione subalterna la nazione più debole ha il diritto di separarsi, magari per ricontrattare le forme dell’integrazione. Detto di nuovo in termini generali: non è affatto scontato che una integrazione della produzione possa essere meglio gestita da uno stato sovranazionale; anzi, soprattutto per fuoriuscire da un regime capitalistico per il quale integrazione significa gerarchizzazione, l’esistenza di stati nazionali (uniti da una confederazione o comunque da un patto politico) può meglio tutelare i territori più deboli invertendo o quanto meno arrestando la gerarchizzazione stessa. La mediazione post-’45 fra stati nazionali europei non ha affatto escluso gli scambi e la cooperazione ed ha favorito una crescita relativamente equilibrata. La nascita del super-stato europeo ha invece aumentato gli squilibri.
Come si vede, si parte da un confronto apparentemente astratto tra economicismo ed antieconomicismo, e si arriva ai temi scottanti dell’oggi. Ed alla legittimità di un discorso nazionale da parte del proletariato e del blocco sociale di cui esso potrebbe far parte. Non solo: sviluppando la critica antieconomicista si può porre su più solide basi la questione del soggetto e, appunto, del blocco sociale, che è l’altra questione importante che voi ponete nel vostro invito.
Non c’è nessuna lineare necessità storica che garantisca che il lavoro salariato possa essere sempre un soggetto rivoluzionario e che anzi proprio nel punto più “alto” dell’organizzazione capitalistica del lavoro si celi il becchino del capitalismo stesso. L’impostazione teorica di Marx prevede, al contrario, che il lavoro salariato sia in quanto tale preda del feticismo della forma-salario, che occulta la vera natura del rapporti tra capitale e lavoro: per cui la formazione del proletariato come soggetto politico è in realtà una trasformazione culturale, politica ed organizzativa che fa sì che il lavoro salariato non si pensi più e non agisca semplicemente come tale, ossia non si muova semplicemente sulla base dei suoi immediati interessi materiali, che, di per sé stessi, possono condurre a scelte assai diverse tra loro.
L’esperienza storica non fa che confermare tutto ciò: tutti i più importanti processi rivoluzionari, soprattutto nell’occidente capitalistico, sono stati contrastati non solo dalla classe avversa, ma anche e più insidiosamente da frazioni dello stesso proletariato (in genere proprio le frazioni più avanzate, quelle che si situano nel famoso “punto alto”) e dalle loro organizzazioni. Dal che si deduce , tra l’altro, che il fatto di agire come classe non è per nulla una garanzia: la forma classista dell’azione del proletariato (ossia quell’azione che prende le mosse dall’unificazione capitalistica del proletariato stesso, dalla radicalizzazione dell’azione sindacale e dall’esistenza di partiti proletari) può darsi contenuti politici assai differenti l’uno dall’altro. L’attuale, e probabilmente momentaneo, declino di quella forma non deve essere quindi visto sempre e comunque come un ostacolo insormontabile allo sviluppo di una lotta dei lavoratori, lotta che può esprimersi in molti modi (anche se alla fine deve convergere comunque verso obiettivi socialisti).
Oggi stiamo scontando, anche in questo campo, proprio la natura nient’affatto lineare e progressiva dello sviluppo delle forze produttive. Se per Marx la grande industria e la società per azioni conducevano ad una concentrazione del proletariato e ad una dispersione della proprietà (basi soggettive ed oggettive del comunismo), l’industria attuale e l’attuale presenza degli investitori istituzionali portano, all’inverso, ad una concentrazione della proprietà e ad una dispersione del proletariato.
Sia all’interno della grande impresa, sia nel rapporto tra grande impresa e piccole imprese terziste, sia, ed ancor più, nella selva del precariato o delle finte partite Iva, il proletariato si separa in un vertice garantito, fortemente qualificato, stabilmente occupato od occupabile, ed in una larghissima base che ondeggia invece tra lavoro e no, tra piccola impresa familiare e lavoro salariato, tra lavoro servile e lavoro addirittura gratuito.
In tali condizioni, aggravate come si diceva dalla sconfitta storica del socialismo e, aggiungiamo, dalla sostituzione scientifica, nella funzione di perno della soggettività, della figura del produttore con quella del consumatore mobile e “reticolare”, è inevitabile che la lotta dei lavoratori assuma forme populiste e che quindi il populismo (ossia un linguaggio che non si presenta immediatamente come classista) divenga la forma generale della lotta di classe, non solo delle classi intermedie, ma anche del proletariato.
Tale forma, che da un punto di vista economicistico e lineare può apparire come un regresso (e per molti versi lo è), da un punto di vista storico-materialista è semplicemente il campo d’azione dato per i comunisti, campo al quale i comunisti devono adeguarsi, riconoscendone i limiti e le opportunità. Opportunità tra le quali annoveriamo la propensione a porre immediatamente il problema della sostituzione del ceto di governo: il che, se non è ancora la posizione del problema del potere di stato, è comunque un punto di vista più avanzato di quello per ora espresso dal proletariato organizzato e “garantito”, oggi subalterno al capitale transnazionale.
Ecco, la questione della costruzione del blocco sociale deve per noi partire da queste considerazioni. E quindi dalla forma nazionale dello spazio in cui agiamo, dal carattere inevitabilmente populista del soggetto a cui ci riferiamo, dalla natura eminentemente politica (programmatica, prospettica e quindi potenzialmente di governo) della nostra azione di radicamento nelle masse. Un radicamento che richiede un forte mutamento di stile di lavoro e di linguaggio se si vuole intercettare il mutamento di forma della lotta di classe di cui abbiamo poco sopra parlato.
Un mutamento di forma tale per cui, se il concetto di classe e di lotta di classe hanno sempre una validità euristica indiscutibile, il nostro linguaggio classista e conflittuale diviene invece controproducente sia perché, oggi, i membri della classe non si riconoscono più immediatamente come tali, sia perché i conflitti sono spesso diversi da quelli a cui siamo storicamente abituati, sia perché la grande maggioranza delle persone, oggi come e più di ieri, non partecipa direttamente ai conflitti (se non in situazioni apertamente rivoluzionarie) e ha bisogno, in attesa dei momenti di più acuta ed inevitabile mobilitazione, non dell’incitamento alla battaglia ma di una forza che carichi su di sé l’onere del conflitto, da un lato individuando un nemico assoluto, dall’altro indicando una soluzione concreta ai problemi quotidiani.
Ci piaccia o meno, dobbiamo saper essere contemporaneamente rivoluzionari e “moderati”. Oggi, per trasformare quel blocco sociale potenziale di cui voi parlate in un blocco sociale effettivo e consapevole, dobbiamo inventare uno stile discorsivo che non parta (o non parta sempre) dalla classe, ma parta piuttosto dalla dimensione popolare e nazionale, per argomentare comunque obiettivi socialisti e quindi internazionalisti.
Precisando che lo stesso discorso “nazionale” NON si trova bell’e pronto nelle abitudini e nella memoria del “popolo” (dove piuttosto sembra dominare un a-nazionalismo che non è affatto internazionalismo, ma è piuttosto sfiducia nella possibilità di una politica autonoma sia in campo estero che all’interno) e deve invece essere costruito come discorso della riappropriazione delle risorse create dal lavoro e dal risparmio, una riappropriazione che oggi assume inevitabilmente forme nazionali perché l’espropriazione del lavoro è oggi attuata e/o acutizzata soprattutto dal capitale “transnazionale”.
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