Gli ottanta anni della Teoria generale di Keynes
di SINISTRA IN RETE (Maria Cristina Marcuzzo)
Dopo la crisi del 2007-2008 il nome di Keynes è rientrato nella lista degli economisti di cui si raccomanda la lettura e di cui si ritorna a dire che sarebbe opportuno seguire le idee. Dopo un bando durato circa venticinque anni, trascorsi tra elogi del mercato e test econometrici diretti a dimostrare l’inefficacia o peggio l’irrilevanza delle politiche economiche, Keynes è riapparso sulla scena mediatica, se non proprio in quella accademica dominante, che continua per lo più ad essere la macroeconomia della restaurazione anti-keynesiana iniziata tra gli anni settanta e ottanta.
Per rivendicare l’attualità della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta voglio partire dall’assottigliamento dello spazio assegnato all’intervento pubblico, nell’opinione economica attuale, quello ‘spazio per la politica’ che Keynes ha aperto con la dimostrazione che il mercato non è sorretto da leggi naturali o immutabili. Lo spirito che ha guidato la rivoluzione keynesiana è che la piena occupazione è un obiettivo possibile da perseguire non lasciandolo libero, ma intervenendo nel gioco delle forze di mercato. Ha ispirato un mondo di politiche di pieno impiego e di welfare state nei paesi avanzati nei trent’anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale ed è lontano da quello della restaurazione neo- liberista – il cosiddetto Washington Consensus – in cui sono prevalsi i dogmi dell’individualismo e della de-regolamentazione.
Nel rivendicare l’attualità della lezione della Teoria generale ovviamente non si può non tener conto delle mutate circostanze del contesto attuale, rispetto a venti e ancora di più a ottanta anni fa, anche se le somiglianze tra la Grande Depressione degli anni trenta (vedi Sylos Labini, 2009; Temin, 2010) – il contesto in cui scriveva Keynes – e la crisi attuale sono molte come anche è grande la somiglianza tra la teoria economica pre-keynesiana e quella attuale (vedi Wray, 2013). Il ritorno a Keynes che vorrei auspicare, nell’argomentarne l’attualità e la rilevanza, è innanzitutto sul piano del metodo.
In una famosa lettera a George B. Shaw, pochi mesi prima della pubblicazione della Teoria generale, nel febbraio del 1936, Keynes la annuncia come un libro “che rivoluzionerà enormemente […] il modo in cui il mondo ragiona sui problemi economici” (Keynes, 1973a, p. 492). E nella stessa lettera aggiunge: “quando la mia nuova teoria sarà stata bene assimilata e si mescolerà con la politica e i sentimenti e le passioni […] ci sarà un grande cambiamento” (ivi, p. 493).
Invece di appellarsi alla ‘scientificità’ della sua teoria, Keynes si affida “alla politica, ai sentimenti e alle passioni” per sperare che il suo messaggio venga accolto. Un paio di anni dopo in una lettera, questa volta indirizzata a Roy F. Harrod, richiama l’episodio che si dice abbia dato origine alla scoperta di Newton, mentre osservava una mela cadere dall’albero, per mostrare le domande che l’economista dovrebbe fare. Chiedersi: “se la caduta a terra della mela dipende dai motivi della mela, se alla mela conviene o meno cadere e se la terra vuole davvero che la mela cada, e se la mela calcoli bene o male quanto lontana è dal centro della terra” (Keynes, 1973b, p. 300).
L’economia – spiega Keynes – “ha che fare con l’introspezione e con i valori […], con le motivazioni, le aspettative e l’incertezza psicologica” (ibid.), un ambito di riferimento che non è “né costante né omogeneo”. Non può esserci analogia con le scienze fisiche, perché mentre lo scopo della fisica è di scoprire regolarità da cui derivare leggi generali, quello dell’economia è spiegare decisioni prese in un contesto di incertezza e con gradi diversi di informazione. L’obiettivo che l’economista deve porsi è sviluppare un modo logico di ragionare su elementi che sono “transitori e fluttuanti” (ivi, p. 297).
Quando Keynes nella Teoria generale spiega perché il livello di occupazione oscilla intorno a una ‘posizione intermedia’ al di sotto del livello di piena occupazione e al di sopra di quello corrispondente al minimo di sussistenza (Keynes, 1973, p. 254), chiarisce che questa posizione “è un dato di osservazione che riguarda il mondo così come è o è stato e non un principio necessario che non può essere modificato”. In economia infatti “non possiamo sperare di fare generalizzazioni completamente accurate”, perché il sistema economico non è regolato da forze naturali che gli economisti devono scoprire. Il compito dell’economista è piuttosto quello di “selezionare le variabili che possono essere deliberatamente controllate e governate da un’autorità centrale nel tipo di sistema in cui viviamo” (ibid.).
La critica di Keynes è rivolta contro la concezione dell’economia come disciplina della società che prende a modello le scienze fisiche, per sostenere che deve diventare un’indagine che cerca di far nascere situazioni desiderabili. Solo svelando la falsa analogia delle cause economiche con le cause fisiche si apre la possibilità per l’economista di promuovere valori e atteggiamenti che possano rendere migliore la società. Scrive Keynes: “sono passate molte generazioni da quando gli uomini individualmente hanno incominciato a impiegare la ragione e la morale al posto del cieco istinto come molla dell’azione. Adesso è arrivato il momento di farlo collettivamente” (Keynes, 1977, p. 453).
Lasciare che gli individui perseguano il proprio interesse personale – come nella parabola di A. Smith dove il benessere sociale è il risultato del perseguimento del profitto individuale, come fa “il macellaio, il birraio e il panettiere”, è un’idea che non ha validità generale, perché non ci sono sempre forze in grado di armonizzare gli interessi individuali e in secondo luogo perché l’esito aggregato del comportamento economico non è lo stesso di quello individuale. Se l’obiettivo è di cambiare il contesto in cui gli individui agiscono e ottenere cambiamenti di atteggiamento bisogna prioritariamente modificare il modo in cui viene visto il problema economico.
A questo risultato Keynes ritiene si possa arrivare usando il potere della persuasione. In una lettera a Thomas S. Eliot del 5 aprile 1945, scrive: “il compito principale è suscitare la convinzione intellettuale e poi intellettualmente trovare i mezzi. Il problema è la mancanza di intelligenza, non di bontà […]. Quindi la politica della piena occupazione è solo una applicazione particolare di un teorema intellettuale” (Keynes, 1980b, p. 384).
E, poco prima, in un celebre discorso alla Camera dei Lords, del 23 maggio 1944: “[negli ultimi vent’anni] ho impiegato tutta la mia energia per persuadere i miei concittadini e il mondo in generale a cambiare le teorie tradizionali e, accettando un modo di pensare migliore, allontanare la maledizione della disoccupazione” (Keynes, 1980a, p. 16).
Chiaramente per “un modo di pensare migliore” Keynes intende una teoria che mostri come la disoccupazione possa essere sconfitta, sconfessando la teoria economica tradizionale per cui ogni livello di disoccupazione esistente – stabilito dalle forze di mercato – è un livello a cui l’economia sarebbe nel lungo periodo ritornata. Per questo nella macroeconomia moderna questo livello viene addirittura chiamato ‘naturale’.
Dagli anni quaranta in poi la teoria economica si è sviluppata in forma di modelli che, seppur con eroiche semplificazioni, dovevano servire a catturare le relazioni fondamentali del sistema economico; in questo modo potevano essere empiricamente verificati e le loro previsioni potevano essere usate per forgiare gli strumenti d’intervento.
La previsione, la misurazione, la verifica empirica apparivano come garanzie dell’aspetto scientifico della teoria economica, dove ‘scientifico’ voleva dire somiglianza con la fisica, con il suo rigore e la sua capacità predittiva. Dopo Lionel Robbins (1932), che sostenne che le considerazioni riguardanti l’etica e la filosofia politica dovevano essere bandite dalla teoria economica, anche Karl Popper negli anni trenta (Popper, 1935) diede legittimità all’idea che l’economia era scienza solo se libera da valori e aveva capacità predittiva.
L’insistenza di Milton Friedman, nelle due decadi successive, sulla capacità di previsione della teoria come l’unico test della sua bontà e la matematizzazione della disciplina economica per convinzione di Paul Samuelson diedero nuovo impeto al tentativo di imitare le scienze fisiche nella scelta del metodo d’indagine da impiegare in economia.
Questo modo di intendere la bontà di una teoria ha portato a risultati non sempre soddisfacenti. Se i ‘fatti’ sono identificati con le stime empiriche di modelli che incorporano gli sviluppi più recenti della teoria economica è evidente che questi fatti diventano molto dipendenti dai modelli impiegati e dalla metodologia usata per interpretarli. Il rapporto tra teoria e fatti diventa ambiguo e i risultati finiscono per riflettere l’egemonia di questa o quell’impostazione teorica. Egemonia che non è immune dalle mode accademiche. Farò un esempio tratto da vicende recenti.
L’episodio che vorrei utilizzare è quello del moltiplicatore – il cuore della teoria keynesiana della domanda effettiva – che ha una storia di alterna fortuna negli ottantacinque anni della sua esistenza. È una formula che mostra come ogni aumento della spesa autonoma (ad esempio investimenti o esportazioni) genera – attraverso la spesa indotta (consumi, al netto delle imposte e delle importazioni) – un aumento di reddito maggiore della spesa iniziale se esistono capacità produttiva inutilizzata e disoccupazione. Di qui il nome moltiplicatore, il cui valore è tipicamente maggiore di uno. La spesa in deficit di bilancio, cioè una spesa pubblica maggiore del gettito fiscale, diventa così giustificata sotto due punti di vista: a) poiché crea reddito; b) poiché genera quei risparmi e quel gettito (che sono funzione del reddito) necessari a finanziare l’investimento iniziale.
Il consenso su questa proposizione durò per quasi trenta anni, fino a quando fu fortemente attaccata nel corso dell’assalto monetarista degli anni sessanta. Milton Friedman – sulla base anche di lavori di Franco Modigliani – mostrò attraverso analisi empiriche che la variabile indipendente nella funzione del consumo non è il reddito corrente, ma il reddito che si può considerare come “permanente” nell’arco della vita di un individuo. Il valore del moltiplicatore è in questo caso molto più basso perché il consumo non risponde all’aumento del reddito corrente. I semi della rinata sfiducia sull’efficacia della politica fiscale furono così gettati. Questa, che fu chiamata la controrivoluzione monetarista, fu perseguita ancora più radicalmente da Robert Lucas e dagli economisti della Nuova Scuola Classica per tutti gli anni novanta, con una difesa teoricamente debole da parte dei cosiddetti Nuovi Keynesiani, i quali relegarono l’efficacia del moltiplicatore al breve periodo, una condizione definita da prezzi e salari rigidi che impediscono al sistema di raggiungere l’equilibrio di lungo periodo in cui c’è piena occupazione.
Fino alla crisi del 2007-2008, la maggior parte degli economisti in università prestigiose, in istituzioni come la World Bank e il FMI, in autorevoli giornali e riviste come il Financial Times e l’Economist accettò le stime di un basso valore del moltiplicatore come prova dello scarso o addirittura nullo impatto della spesa pubblica. Gli argomenti tradizionali contro gli interventi congiunturali – ritardi nei meccanismi decisionali e d’implementazione – uniti all’ipotesi di aspettative razionali di agenti che anticipano e neutralizzano l’azione dell’autorità pubblica, facevano apparire impossibile utilizzare al momento giusto la politica fiscale come strumento per rilanciare l’economia.
Tuttavia il moltiplicatore è ritornato sulla scena dopo la crisi. Negli anni cinquanta e sessanta, all’apice del Keynesismo, si stimava che il valore del moltiplicatore fosse approssimativamente pari a due. Negli anni novanta e duemila le stime econometriche mostravano valori molto bassi, assestandosi intorno a 0,5-0,7. Nel 2009 il FMI e la UE portano le stime del moltiplicatore all’interno di una forchetta tra 0,9 e 1,7 (Marcuzzo, 2014). Finalmente abbiamo di nuovo un moltiplicatore che moltiplica, perché questo non si può non vedere – come nel caso dell’Europa dell’austerità – quando la spesa autonoma si riduce.
È un esempio non solo del legame forte tra risultati empirici e modelli scelti per trovarli, ma anche della rilevanza delle ipotesi di comportamento che vengono fatte per costruire questi modelli. Nella teoria economica cosiddetta ortodossa si suppone che i consumatori siano guidati da informazione perfetta e piena conoscenza degli stati possibili in cui ci si può trovare in un orizzonte infinito. È il contrario di quanto si suppone nella macroeconomia fedele a Keynes, per cui previsione perfetta e completa razionalità sono ipotesi non accettabili, un’economia dove il calcolo delle probabilità non è sempre applicabile, poiché quando domina la vera incertezza quel calcolo non è possibile.
L’ipotesi di perfetta informazione nei mercati, comune nella teoria mainstream, è stata screditata dagli eventi del 2007-2008, che hanno portato in alcuni casi a revisioni sostanziali nei macro-modelli utilizzati per incorporare l’idea di razionalità e conoscenza limitate, di imperfezioni nel mercato dei beni, del lavoro e soprattutto in quelli finanziari. Tuttavia queste modifiche sono state apportate all’interno di un impianto teorico che è rimasto abbastanza immutato e ancora lontano dal modo di intendere e descrivere i comportamenti da parte di Keynes, che non suppone mai anonimi ‘agenti’, ma individui con specifiche funzioni e caratteristiche.
Il comportamento di consumatori, imprenditori o speculatori in un contesto d’incertezza per Keynes non può essere ricondotto alla scelta razionale ottimizzante della tradizione utilitarista. Ogni decisione economica richiede la valutazione dell’informazione; questa è spesso contradditoria o per lo meno non univoca e spesso insufficiente a farci prevedere il futuro. Quindi la dobbiamo ‘pesare’ con le nostre conoscenze e con la nostra esperienza. La decisione in condizioni d’incertezza non deve però essere interpretata come rinuncia alla possibilità di scelta secondo ragione, anche se non ‘razionale’ nel senso della teoria tradizionale. Keynes oltre che un grande economista è stato un grande investitore, per sé, per il suo College e per le compagnie assicurative, e i documenti inediti sui suoi investimenti mostrano come facesse le sue scelte con un’attenta e ponderata analisi dell’informazione disponibile (vedi Marcuzzo & Cristiano, 2017).
La razionalità di cui parla Keynes – che ha un significato diverso da quella ottimizzante – la ritroviamo anche in un contesto di altro tipo. Diventa la “ragionevolezza” da applicare a situazioni in cui comportamenti apparentemente razionali (dal punto di vista astrattamente economico) possono avere risultati disastrosi. La ritroviamo nel modo in cui Keynes affronta la questione delle riparazioni di guerra da infliggere alla Germania dopo la prima guerra mondiale, nella trattativa che conduce per il rimborso dei debiti contratti dall’Inghilterra con gli Stati Uniti nel corso della seconda guerra mondiale, e la potremo applicare anche noi oggi a situazioni recenti, chiedendoci se sia stata una scelta ‘ragionevole’ far fallire Lehman Brothers.
Fin qui ho sviluppato l’argomento a sostegno dell’attualità della Teoria generale, come una ‘rivoluzione di pensiero’; vorrei adesso soffermarmi sulla proposizione della necessità dell’intervento pubblico come strumento correttivo delle tendenze spontanee dei sistemi di mercato, con cui troppo semplicisticamente si è identificato il messaggio keynesiano.
Adam Smith aveva già mostrato come regole e limiti sono imprescindibili per prevenire gli abusi del mercato, e come su sicurezza, difesa e altri “beni pubblici” il mercato non offra la soluzione migliore. Il rovesciamento operato da Keynes, rispetto alla teoria precedente e successiva, non è questo, ma riguarda il ruolo della domanda aggregata nel generare reddito, produzione e occupazione. È il basso livello della domanda effettiva e non la rigidità dei salari che spiega l’equilibrio di sottoccupazione. La differenza tra Keynes e gli economisti mainstream sta appunto nel sottrarre ai prezzi (salari e tasso d’interesse compresi) il ruolo di aggiustare la domanda e l’offerta per portare il sistema verso un equilibrio di pieno impiego. Senza sostegno alla domanda aggregata questo non si avvera.
Ma Keynes non è per un indiscriminato uso di investimenti pubblici finanziati in deficit di bilancio; l’appello della Teoria generale alla necessità dell’intervento dello Stato va interpretato nel senso del controllo sul livello totale degli investimenti, attraverso l’azione diretta o indiretta di un’autorità pubblica o semipubblica, ma guardando sempre agli incentivi di mercato, alla creazione di un clima di fiducia per gli imprenditori. Nella Teoria generale questo è detto esplicitamente: “se lo Stato è in grado di determinare l’ammontare complessivo delle risorse destinate ad accrescere i mezzi di produzione e il tasso base di remunerazione per coloro che le possiedono, avrà fatto tutto quanto è necessario” (Keynes, 1973, p. 378).
Anche sul fronte del welfare state gli sono state attribuite (vedi Backhouse & Bateman, 2012) posizioni che non erano le sue. Non crede in una tassazione elevata per finanziare pensioni e sicurezza sociale. Ritiene che i costi della protezione sociale dovessero ricadere sui datori di lavoro, il cui interesse era avere una forza-lavoro in condizioni adeguate (Keynes, 1980b, p. 224).
È a favore della massima economicità e trasparenza dei conti dello Stato, su quali e quanti beni e servizi pubblici vengono effettivamente erogati, a quali costi e come siano finanziati, perché questo è “l’unico modo di tenere una buona contabilità, di misurare l’efficienza, di fare economie e di tenere sempre informati i cittadini di quanto ogni cosa costa” (ivi, p. 225).
Aiutò Beveridge nella stesura e approvazione del Piano di protezione sociale che presentava la ‘novità’ di estendere i benefici all’intera popolazione, e non solo a chi era in grado di pagare i contributi (ivi, p. 252), ma mostrò in più occasioni preoccupazione dell’impatto che quel piano poteva avere sul bilancio pubblico.
Sia Keynes che Beveridge vedono il pericolo delle conseguenze morali e sociali della disoccupazione, ma cercano la soluzione in strade diverse. Per Beveridge, si tratta di proteggere la società dalle carestie, dai cicli avversi della produzione, dalla volatilità della spinta imprenditoriale – fenomeni imprevedibili e ricorrenti come il tempo metereologico e i disastri naturali (vedi Harris, 1977). La sicurezza sociale è il modo di separare il benessere individuale dall’andamento generale dell’economia. Keynes pensa invece che se si riuscisse a condizionare il futuro con una politica di investimenti attiva gli individui sarebbero stati automaticamente ‘protetti’, perché liberati dalle privazioni derivanti dalla disoccupazione.
Keynes non è neanche un sotto-consumista come Mandeville o Malthus, che vedono nel consumo delle classi agiate la chiave per la crescita economica, la fonte della spesa che fa crescere l’occupazione. Nella Teoria generale certamente il consumo ha un ruolo centrale come propellente, per così dire, della macchina che produce reddito. Tuttavia, ai suoi occhi, il consumo presenta due problemi. Il primo è la ‘sazietà’ che, a suo dire, deriva da una legge psicologica fondamentale, per cui “in generale e in media gli individui aumentano il loro consumo al crescere del loro reddito, ma non tanto quanto il loro reddito aumenta” (Keynes, 1973, p. 96), da cui ne discende che “tanto più alti sono i nostri redditi, tanto maggior è, purtroppo, il divario tra reddito e consumo”. È lo Stato a dover colmare il divario, se non si vuole un livello di disoccupazione tale “da farci diventare così poveri che il divario tra consumo e reddito è appena sufficiente a fornire quel tanto che oggi è profittevole produrre per il consumo futuro” (ivi, p. 105).
Il secondo problema è come far crescere la propensione al consumo. Una distribuzione del reddito più equa, ottenuta attraverso una politica fiscale mirata (Keynes, 1973, p. 16) è una soluzione che Keynes riteneva difficile da realizzare. L’alternativa era di sostenere i consumi direttamente con la spesa pubblica, affidando allo Stato “il compito di fare in modo di bilanciare la propensione al consumo con l’incentivo a investire” (Keynes, 1973, p. 380), oppure con “investimenti pubblici che potessero controbilanciare la volatilità degli investimenti privati” (Keynes, 1980b, p. 381).
Con il suo gusto del paradosso ricorse a un esempio che, come ci spiega Joan Robinson, doveva servire a “penetrare il muro di oscurantismo dell’ortodossia fondata sul laissez-faire”. (Robinson, 1964, p. 91). La proposta era che il Tesoro sotterrasse bottiglie piene di banconote in terreni dati in concessione ai privati, che avrebbero potuto scavare e recuperare le banconote (Keynes, 1973, p. 129).
Questo esempio di spesa pubblica è stato esposto al ridicolo perché appare insensato spendere denaro pubblico in questo modo. Il paradosso di Keynes, però, serve a illustrare un principio, non a fare una proposta concreta: vale a dire a sostenere che la spesa in beni e servizi genera reddito, non perché è utile, ma perché genera domanda. È ovvio, dice Keynes, che “sarebbe naturalmente più sensato costruire case o altre cose simili, ma se ci sono ostacoli pratici o politici per farlo, allora quello che suggerisco è meglio di niente” (ibid.).
Le difficoltà a cui allude Keynes, sono soprattutto quelle “dei nostri politici educati ai principi dell’economia classica” (ibid.). Vi è anche il problema che la spesa in servizi e beni utili può non essere altrettanto efficace, infatti “due piramidi o due messe per i defunti valgono il doppio di una: ma non così due ferrovie da Londra a York” (ibid.).
Se poi il tasso d’interesse non scende di pari passo con i rendimenti attesi dai progetti d’investimento, la possibilità di trovare occasioni di spesa profittevoli si riducono ulteriormente. Lo spreco per Keynes non è quando la spesa pubblica si rivolge in beni e servizi di cui non vi è utilità economica, ma quando si lasciano risorse umane inutilizzate.
Nell’opera di Keynes troviamo tanti commenti caustici sui pregiudizi comuni contro la spesa pubblica e viene facile applicarli anche ai difensori odierni dell’austerità a tutti i costi. Vorrei ricordarne almeno un paio:
“chi ritiene che [lavori pubblici finanziati in disavanzo di bilancio, in particolare spesa pubblica in abitazioni] sia[no] una insensata stravaganza che renderà più povera la nazione, e preferisce non fare nulla e lasciare milioni di persone disoccupate, è da considerare un demente” (Keynes, 1982, p. 338).
E ancora:
“è da imbecilli dire che non possiamo permetterci di spendere, quando abbiamo disoccupati, impianti inutilizzati e un livello del risparmio più alto di quello che utilizziamo. Perché ci servono solo questi impianti e nient’altro per farla. Avere a disposizione cemento, acciaio, macchinari e trasporti inutilizzati e dire che non possiamo fare lavori pubblici di un qualche tipo, è puro delirio derivante da confusione mentale” (Keynes, 1981, pp. 765-766).
I due pilastri del welfare state – sfiducia nelle forze di mercato e fiducia nell’intervento pubblico per garantire la piena occupazione da una parte, e sfiducia nel liberismo per garantire sicurezza e stabilità sociale dall’altra – derivano da due impostazioni diverse. Beveridge, l’erede del socialismo dei Fabiani, ragiona con gli strumenti della teoria neoclassica, mentre Keynes, l’economista rivoluzionario, è un riformista liberale per quanto riguarda la politica sociale (Marcuzzo, 2010).
Il pensiero economico di Keynes sulla lotta alla disoccupazione non va identificato con la filosofia del welfare state né con la spesa pubblica indiscriminata, senza attenzione al deficit di bilancio, né con la spiegazione della disoccupazione con la rigidità dei salari e dei prezzi o con altre distorsioni della Teoria generale che mostrano quanto poco l’originale sia stato letto e capito.
Il messaggio di Keynes va certamente adattato alle circostanze interne e internazionali odierne, ma rimane intatto il richiamo a quei valori del senso dello Stato e del bene pubblico che il mercato ogni tanto perde per strada. Keynes pensava che questi mali si potessero curare, se persone di alta statura morale (spesso identificate con un ristretto numero di suoi amici e conoscenti) fossero state messe a capo di istituzioni di controllo e di garanzia. Sentiamo oggi tutta la rilevanza di questo appello allo standard morale dell’azione politica, per credere con Keynes che le istituzioni pubbliche possano rendere migliore il mercato. Anche per questo, a ottanta anni dalla sua pubblicazione, La Teoria generale è ancora un libro attuale.
Commenti recenti