Precari di tutto il mondo unitevi!
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Francesco Colaci)
L’attuale composizione del tessuto sociale italiano è figlia dei nuovi tempi. Le antiche e marxiane categorizzazioni per “classi” hanno subito una netta trasformazione, lasciando spazio a una diversificazione molto più fluida, riassumibile tuttavia in un’unica parola: precariato
Proletari di tutto il mondo unitevi” risuonava quale un’eco potente nell’Europa dell’800 e del ‘900. Karl Marx aveva finalmente fornito lucide chiavi di lettura per l’analisi e l’eventuale rovesciamento del sistema capitalistico. Esisteva, infatti, una divisione molto più rigida nel mondo delle categorie lavorative; nella seconda metà del XIX secolo, la borghesia industriale costituiva il motore politico delle nazioni europee, il ceto dirigente che avrebbe traghettato le società occidentali verso la dimensione del consumo di massa. Si trattava di una vera e propria oligarchia, consapevole del ruolo egemone, conscia della subalternità delle restanti classi. Vi erano, infatti, un consistente ceto mercantile, la cosiddetta media borghesia arricchita e, infine, gli operai, i nullatenenti, senza la cui funzione lavorativa gli industriali avrebbero assaporato il fallimento. Si deve infatti a Marx il merito di aver elaborato un “vangelo” per l’acquisizione della coscienza di classe per i più deboli, nonché una strategia di lotta per l’acquisizione dei diritti sociali attraverso lo strumento politico per eccellenza: il partito. Nel corso del XX secolo, il partitismo in Italia non caratterizzò esclusivamente la classe operaia social-comunista, bensì anche altre componenti sociali quali l’imprenditore e l’impiegato (piccola e media borghesia). Soprattutto queste ultime costituirono il fulcro dei consensi, fino al secondo dopoguerra, per l’avvento di forze politiche di matrice catto-liberale quali Democrazia Cristiana.
Si può dunque affermare che, fino alla metà degli anni Settanta, vi fosse una corrispondenza fra ciascun partito di massa e la classe di riferimento. Per fare un esempio, l’opinione pubblica novecentesca dava per scontato che l’operaio delle grandi città votasse per il Partito Comunista, il ceto bancario o mercantile per il partito liberale, mentre le comunità rurali e tradizionaliste optassero per la formazione cattolica per eccellenza, la DC. Successivamente, soprattutto negli anni ’80, la classe dirigente italiana inizia a delineare i connotati di una nuova mappa sociale, molto più simile a quella odierna. Prende piede un aumento esponenziale del settore terziario e dei servizi legati alle imprese, mentre la tradizionale classe operaia, (nella sua natura compatta e integrale), subisce un processo di frammentazione e delocalizzazione su scala nazionale e internazionale (si pensi alla Fiat), deteriorandone, di fatto, il potere politico e di contrattazione sindacale. Gli anni ’80, non a caso, segnano le prime sconfitte dei lavoratori. È in questa fase che si perde la corrispondenza fra il voto e la classe sociale. Il figlio dell’operaio comunista o del contadino cattolico è sempre più spesso un borghese realizzato (impiegato, avvocato, medico), il quale rivendica la provenienza sociale d’origine, votando il partito cui è storicamente legato per ragioni familiari. Avviene uno scardinamento, inconsapevole o meno, fra il partito e le istanze relative al proprio ceto, con la conseguente dissoluzione del culto di massa delle ideologie e la nascita sempre più frequente di partiti post-ideologici e riformisti, spesso incentrati su singole figure carismatiche. Ricordiamo come, dagli anni ’90 ai 2000, personalità politiche quali Berlusconi (Forza Italia), D’Alema e Prodi (L’Ulivo) abbiano segnato la storia degli ultimi anni, attuando politiche formalmente rivolte al cittadino e sostanzialmente in accordo con le istanze dei mercati internazionali. È in questo contesto che il centro-sinistra italiano non ha più dovuto dar conto della propria matrice socialista, avviando numerose privatizzazioni (settore energetico e della telefonia) e traghettando l’Italia verso l’infausta zona Euro.
Veniamo, dunque, al risultato cui ha condotto il processo storico-politico in Italia nell’arco degli ultimi dieci anni. Il mondo del lavoro italiano è per buona parte terziarizzato; il contesto della crisi economica vede ancora l’ambiente della classe operaia “decoscienzializzato”, frammentato e ridotto ai minimi termini, non dissimile da altre categorie lavorative (call center, insegnante, commesso ecc..) per le condizioni di flessibilità e povertà nella quale essa si trova. L’elemento che per eccellenza accomuna queste tipologie professionali, un tempo molto diverse tra loro, è il contratto a tempo determinato, la scadenza a breve termine che mina qualsiasi progetto di vita futura. A queste professioni se ne accosta una serie interminabile, sempre caratterizzata dal medesimo dato di instabilità economica individuale. La classe media è stata, di fatto, scompaginata e proletarizzata. Dunque, venendo meno la differenza di classe in termini di ricchezza e potere d’acquisto, potremmo marxianamente racchiudere questa miriade di deboli realtà sotto un unico insieme: il precariato. Per dirla in un linguaggio moderno, quest’ultimo è, a tutti gli effetti, il proletariato del XXI secolo, poiché esso si caratterizza per una situazione di nullatenenza, sfruttamento e, in sintesi, subalternità socio-economica, rispetto a un unico ceto elitario, l’alta borghesia industriale e finanziaria.
Il piano politico riflette il caos fluidico del mondo lavorativo odierno, nonché il divario sociale sempre più acuto fra un precariato medio basso (ex borghese) e una classe egemone e liberista. Di fatto, si assiste a un scenario in cui i vecchi schemi del centro-destra e centro-sinistra sono in crisi. Il cittadino italiano medio, ora depoliticizzato e de-ideologizzato, spesso immerso nella nube illusoria del mondo consumistico, è riuscita parzialmente a liberarsi dalla cappa mediatica alienante, optando per movimenti definiti dai media come “populisti”, ovvero il Movimento 5 Stelle. Quest’ultimo ha racchiuso in sé buona parte degli attivisti delusi d’Italia, reduci da un’esperienza politica progressista o conservatrice. Il centro-destra e il centro-sinistra liberali, come affermato precedentemente, vivono una crisi fortissima, contando esclusivamente sull’appoggio degli affiliati storici, risorse economiche e un elettorato ancora affezionato (per lo più si conta una fascia consistente di pensionati, ex militanti di partito). Si pensi al PD attualmente al governo, o agli eredi di Forza Italia come Alternativa Popolare e Fratelli d’Italia. Dalle loro ceneri, al contrario, sembrano farsi strada le cosiddetta “alt-right” e “alt-left” (termine dispregiativo coniato dai media), euroscettiche, anti-liberali e anti-liberiste, le cui posizioni sembrano affascinare una destra e una sinistra radicali, tradite dai rappresentanti della vecchia classe politica. Queste ultime si distinguono da altre correnti per la capacità d’analisi dell’attuale situazione politica, nonché per la consapevolezza nel saper individuare la causa della crisi economica nelle politiche di austerity imposte dall’Unione Europea. Al momento, non si intravedono ancora partiti forti che perseguano questa strada, ma solo piccole realtà (correnti euroscettiche di Sinistra Italiana, Democrazia Verde, Alternativa per l’Italia, Partito Comunista), dei “think tank” che, col perdurare della crisi, potrebbero tradursi in azione politica. Oggetto d’interesse di queste forze extraparlamentari è proprio quel ceto, oggi abbandonato a sé stesso: il precariato. Un precariato che rimarrà tale finché il fronte progressista non diverrà radicale sul diritto al lavoro ed euroscettico, ponendo fine alla sua parcellizzazione individualistica. Ipso modo il fronte dell’estrema destra, pur individuando il problema alla radice, vive le medesime contraddizioni, con l’aggiunta di una crisi identitaria in seno a temi di ambito etico quali il razzismo e l’omofobia, che l’accompagnano da sempre e che non attraggono un elettorato oggi più sensibile e spesso ostile alle discriminazioni.
Da tutto ciò si può trarre una conclusione evidente, ma non scontata. Le classi sociali nettamente distinte fra loro (e i partiti di riferimento) hanno subito una trasformazione radicale, in seguito alla quale si può parlare di un’unica “classe”, che nel corso del tempo acquisisce un’omogeneità sempre maggiore: il precariato. La speranza è riposta nella possibilità che le realtà politiche subiscano un processo di riforma dal basso, senza il quale sarebbe impossibile venire incontro alle istanze di questo nuovo e grande ceto disagiato. A tal proposito, per riprendere ironicamente una vecchia formula marxiana, “precari di tutto il mondo, unitevi”!
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/italia-2/precariato-di-tutto-il-mondo-unitevi/
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